|      DI G IOVANNI G RASSO   obbiamo uscire  « D   dalle  secche di un dibattito un po’ schematico e provinciale, pro o contro.    Il Risorgimento fu un fenomeno  complesso che, per essere compreso  fino in fondo, dev’essere inquadrato  in un contesto europeo  ». Guido  Formigoni, ordinario  di Storia contemporanea  alla Iulm di Milano,   spiega: «Il processo di unificazione d’Italia, complicato  e  farraginoso quanto  si vuole, non è un caso a sé. Accanto ad alcune  specificità  nazionali, presenta dei tratti tipici comuni con  il resto d’Europa».   A cosa si riferisce?   «Per esempio alla questione  della forma di Stato. Nel  Risorgimento c’era un forte nucleo di ispirazione confederale  o  federale. Ma è vero anche che l’idea federalista  risultò  assolutamente  soccombente nella stagione  dell’affermazione delle  nazioni e dell’industrializzazione:  il rafforzamento  del controllo  dello Stato fu carattere dell’epoca.  Basti pensare alla Svizzera   dopo la guerra del 1845-47 contro i cantoni cattolici ribelli; o alla  Germania,  che Bismarck volle federale solo per ancorarsi alla  tradizione, ma che in realtà era sottomessa al nucleo  forte prussiano;  o alla Guerra di secessione americana  del 1861-65, che mise  le basi  del primato dello Stato federale sui governi locali. L’Italia  accentratrice, insomma, da questo punto di vista rappresentò una  regola,  non un’eccezione».   Un’altra accusa ricorrente al processo risorgimentale è quella  di essere stato un fatto elitario, senza la partecipazione  delle masse  popolari.   «È vero: ma in Europa la musica non era diversissima.  Tutti gli  Stati nazionali si formarono (o trasformarono)  in quel periodo per  impulso di élite intellettuali e sociali e quasi senza la partecipazione  popolare (se non in chiave subalterna  e derivata). Il suffragio   universale era l’eccezione: in Francia arrivò di fatto con la Terza  repubblica (dopo il 1870), mentre in Germania  il Reichstag dal 1871  era eletto a suffragio  universale, ma aveva  poteri ridotti, visto  che il cancelliere non era  responsabile nei suoi confronti. La  questione della partecipazione delle masse alla vita sociale e politica   nazionale si porrà, insomma,  in maniera drammatica,  in un momento  successivo a quello della formazione dello Stato, a cavallo tra Otto e  Novecento  ».   La questione cattolica, per via anche della presenza   del papato, non è un fatto peculiare italiano?   «Anche qui bisogna fare delle precisazioni. A livello generale  nell’intera Europa (qui il caso americano è diverso)  si pose il  problema della laicizzazione della vita  pubblica, civile e  individuale;  ovvero della distinzione  del piano religioso da quello  del potere e del controllo  della vita quotidiana, che trovava una  diversa legittimazione  da quella divina.  Una distinzione che è stata  possibile proprio all’interno  dell’orizzonte cristiano,  ma che creò problemi  e tensioni  fortissime ovunque,  non solo in Italia, in quanto rompeva con una   tradizione consolidata.    Basti pensare al Kulturkampf  di Bismarck o allo  scontro sulla separazione  Stato-Chiesa in  Francia. E, comunque, in Italia non si può ridurre tutto a una  guerra tra guelfi e ghibellini  ».   In che senso?   «Laici e cattolici non erano due blocchi monolitici.   Nella  classe dirigente risorgimentale  c’era chi mirava a regolare i rapporti  StatoChiesa nella libertà in uno Stato neutrale dal punto di vista  religioso, togliendo i privilegi ecclesiastici e riducendo  la Chiesa  al diritto comune: il modello di Cavour  con la formula 'libera Chiesa  in libero Stato'. Altri  ingaggiarono una lotta  per ridurre l’influenza della Chiesa nella società, in nome  di una  visione anticattolica  o anticristiana, mirante  a creare una nuova  religione civile sostitutiva, della patria o della ragione.   Stesso  discorso si può fare per il campo cattolico: ci furono i reazionari, i  filoborbonici,  gli intransigenti, i cattolici liberali, i  conciliatoristi  e così via. E bisogna dire che anche tra i cattolici intransigenti  esisteva una forte idea di unità nazionale:  il processo unitario, per  loro, avrebbe dovuto avere un cammino diverso, ma non veniva messo in  discussione  in quanto tale.   La polemica anti-statale, pensiamo ai  giovani della democrazia cristiana di Murri e Sturzo, verrà poi  recuperata  in una chiave riformista, non certo nostalgica  ».   Specifica, però, era la presenza  del papato nel  territorio  italiano…    «Certamente. Ma vorrei  far presente che la Questione  romana,  così come  era interpretata da  Pio IX, non era soltanto  la legittima  pretesa a una  più o meno simbolica  sovranità temporale  che  permettesse al papa  il libero esercizio della  missione religiosa e  spirituale.  Ma riguardava in profondità anche il delicato  rapporto  tra potere civile e autorità religiosa, che presupponeva, da parte del  Vaticano di quell’epoca, il totale rifiuto di uno Stato laico, che  comportasse ad esempio la libertà religiosa, l’emancipazione degli  ebrei  e dei protestanti, e via dicendo. Messe così le cose,  in quella stagione il conflitto era inevitabile ed ebbe costi immensi  su tutt’e due i fronti. Ma da subito alcuni non credenti e alcuni  cattolici si misero al lavoro per cercare di smussarlo, rimuoverlo,  ridurne  gli effetti negativi».   Facciamo un salto in avanti  nel tempo: lei è d’accordo  con  chi vedeva nella Prima guerra mondiale il compimento del Risorgimento?   «È una tesi fascinosa, ma molto retorica. Ci fu in Italia  una  minoranza di interventisti  democratici (tra cui i giovani democratici  cristiani),  che vedevano nella guerra l’occasione per stabilire  un  nuovo ordine internazionale  fondato sulla cooperazione tra libere  nazioni.  E ci furono sinceri irredentisti.  Ma in realtà la guerra fu  decisa e condotta dai governi italiani in una prospettiva  prevalentemente  imperialista, quanto velleitaria. E la stessa ottica  prevalse alle trattative di pace, che crearono i presupposti  per le  successive tragedie in Italia, nell’Europa  e nel mondo».    |