DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Il celibato di Gesù, la strada maestra LA CASTITÀ DI CRISTO, I VANGELI, IL PRETE: LA RIFLESSIONE DI MONSIGNOR ANGELO AMATO

Pubblichiamo alcuni passaggi della relazione 'Per una teologia del celibato di Gesù Cristo Pontefice della Nuova Alleanza' che monsignor Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei santi, ha svolto il 4 marzo durante un convegno alla Pontificia Università della Santa Croce.
DI
A NGELO A MATO *
L
a riflessione teologica non annovera il celibato di Gesù tra le quaestiones cristologiche più significative, lasciandolo alle considerazioni di tipo ascetico-spirituale. Si ritiene, a torto, che tale aspetto sia privo di valenza cristologica.
Invece, nella rivalutazione della cosiddetta cristologia prepasquale oggi in atto - di quella cristologia, cioè, che trova nel Gesù dei Vangeli l’origine e la decifrazione più ricca della sua identità divina e messianica - anche il tema del celibato di Gesù, come quello della santità o della impeccabilità, acquista un suo valore di testimonianza e di manifestazione del suo mistero. Si può, anzi, affermare che la castità di Gesù include tutta una cristologia.
Tocca, infatti, il nucleo più intimo e sacro della sua esistenza umana, il suo amore.
Riflettere, pertanto, sul celibato di Gesù ci può aprire uno spiraglio per contemplare il mistero della sua carità redentrice, da un punto di vista altamente fecondo e illuminante.
La discrezione dei teologi solo apparentemente corrisponde - come vedremo subito - alla supposta riservatezza del dato biblico. Purtroppo la trascuratezza o il silenzio su questo tema, si riflette negativamente sulla catechesi, che tace al riguardo, per cui gli stessi cristiani mostrano spesso perplessità e incomprensione di fronte a questa realtà, facilitati non poco da ricerche pseudoscientifiche o da rappresentazioni filmiche fantasiose e false della sessualità di Gesù. Eppure, fin dall’inizio, la verginità di Cristo è stata la fonte del carisma del celibato per il regno, vissuto in modo ammirevole da monaci, consacrati, sacerdoti, laici di ogni lingua e nazione, che hanno fatto di questo aspetto dell’imitazione di Cristo, lo strumento più efficace della propria santificazione e della propria missione. Sembra convinzione comune che questo tema, più che da una riflessione teorica, venga meglio trattato e compreso dalla conoscenza per partecipazione, data dalla testimonianza esistenziale e dalla consonanza carismatica. Insomma, più che teologico, nel senso stretto della parola, l’approccio più adatto al celibato di Cristo sarebbe quello ascetico-mistico-spirituale, in cui la parola esprime l’esperienza di vita e liberamente ne celebra la bellezza, la difficoltà, la passione. In realtà, però, pur riconoscendo il valore della celebrazione spirituale, piena di calore ed evocatrice di intuizioni inedite, i dati neotestamentari ci sembrano più che sufficienti per sbozzare una prima teologia del celibato di Cristo, ben fondata sulla salda roccia della sua parola e della sua esperienza. Lo faremo con discrezione, dal momento che la castità sembra una lingua incomprensibile ai più e anche ai cristiani. Scopriremo, forse con sorpresa, che questa tematica, apparentemente marginale, fa parte integrante del mistero dell’incarnazione del Verbo (…).
Gesù casto non è un essere arcigno e scostante, ma altamente relazionale. Mangia e beve alle nozze di Cana, con sua madre e i suoi discepoli, restituendo la gioia della festa
ai giovani sposi (Gv 2,1-10). Poco prima della Pasqua, partecipa a una cena con il risuscitato Lazzaro e le sue sorelle, lodando il dono del profumo da parte di Maria e rimproverando Giuda per la sua avidità (Gv 12,1-2). Partecipa a un grande banchetto con Levi, suo nuovo discepolo, per mostrare che è venuto a chiamare i peccatori alla conversione (Lc 5,29). Pranza a casa di uno dei capi dei farisei (Lc 14,1) e guarisce un uomo malato di idropisia. Si mette a tavola con i suoi discepoli, per la celebrazione della cena pasquale e per l’istituzione dell’Eucaristia (Mc 14,12ss). Il modo stesso di scegliere i posti a un banchetto diventa per Gesù lo spunto per insegnare a essere umili e a mettersi all’ultimo posto (Lc 14,7-11). Ai padroni di casa dice di non invitare al banchetto amici e parenti, ma poveri, storpi, zoppi e ciechi, per avere la ricompensa alla risurrezione dei giusti (Lc 14,12-14). Infine, il regno dei cieli è da lui paragonato a un grande e festoso banchetto (Lc 14,15-24). Per questo suo comportamento sereno, gioioso e pieno di benevolenza, fu chiamato 'beone e mangione' (Mt 11,16-19). In realtà, per lui, il banchetto diventa la cattedra, dalla quale impartire lezioni di vita eterna e di comunione con Dio e con il prossimo. Inoltre, Gesù celibe non guarda con disprezzo la donna, anzi perdona le mancanze dell’adultera, guarisce l’emoroissa, restituisce vivente alla vedova di Naim il suo unico figlio morto, onora Marta e Maria della sua amicizia, rende la Samaritana annunciatrice della sua parola e la Maddalena messaggera della sua risurrezione. Nei confronti delle donne, Gesù ignora il disprezzo e l’asprezza della cultura del tempo. Anzi, si intrattiene pubblicamente a parlare con donne di dubbia moralità come l’adultera (Gv 8,10s) e la Samaritana (Gv 4,6­26). È accompagnato da donne, che lo aiutano nel suo apostolato. Sono le discepole, che, al contrario degli apostoli, non lo abbandonano durante la passione e la crocifissione. Esalta l’eroismo della fede della sirofenicia (Lc 13,16), la generosità della vedova che si priva del necessario per offrirlo al tempio (Mc 12,41-44). Nel suo insegnamento egli pone le donne come protagoniste nelle parabole delle dieci vergini invitate a nozze (Mt 25,1-13), della donna che partorisce (Gv 16,20-22), della vedova che insiste presso il giudice iniquo (Lc 18,1-8), del lievito e della dramma perduta (Lc 13,20-21; 15,8-10).
Gesù, celibe e senza una propria famiglia terrena, rispetta e onora i bambini, che, nell’antichità sia greca sia giudaica, venivano spesso considerati, da un punto di vista religioso e giuridico persone di seconda classe. Gesù, invece, non li scaccia, come fanno i discepoli, ma li accoglie e impone loro le mani, benedicendoli (Mc 10,13-16). Anzi il bambino diventa il paradigma per entrare nel regno dei cieli e la presenza stessa di Gesù: «Chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me» (Mt 18,5). Per questo egli difende i piccoli dalle prevaricazioni dei grandi, scagliando un 'guai' di eterna valenza etica: «Chi invece scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare» (Mt 18,6).
(…) la verginità di Cristo è strettamente connessa con il mistero dell’incarnazione. Essa non solo non intralcia la vicinanza di Dio all’umanità di Cristo, ma la favorisce, la rende più completa e perfetta. Affermava a ragione Jean Galot: «Per mezzo del celibato, il Figlio di Dio poteva appartenere più completamente a tutti gli uomini. Se non è entrato nella via del matrimonio e se si è rifiutato di fondare una famiglia, è perché ha voluto, per la sua vita e per il suo cuore, un’apertura più universale». Abbiamo visto dai dati evangelici, che la verginità non separò il Cristo dall’umanità, come in un certo senso fu per il Battista o per gli esseni di Qumran. Al contrario lo introdusse nel cuore stesso del suo prossimo. Il mistero della verginità di Gesù si situa nel fondo stesso dell’essere del Verbo di Dio incarnato. Non è imposizione esteriore, ma sua intrinseca esigenza. Il celibato di Cristo ha una sua radice ontologica, si situa nella realtà del suo essere persona divina incarnata. La sessualità umana, assunta insieme alla natura umana dalla Persona divina del Verbo, si trova di fatto inserita in una situazione di adesione totale nell’amore alla volontà di Dio, da cui riceve la fondamentale spinta a un’espansione universale di tutte le sue potenze affettive. Di qui la sua carità umana universale, non coartata né coartabile da nessun legame di sangue, di nazione, di razza o di condizione.
La castità di Gesù dice totale appartenenza a Dio e universale relazionalità salvifica all’umanità.
Per questo non è mutilazione o negazione di un bene, ma conferma e potenziamento assoluto delle capacità di amore insite nella natura umana del Verbo. Il Cristo casto dice sì nell’amore non a una singola persona, ma all’immenso orizzonte dell’umanità intera, presente, passata e futura, terrestre e celeste.

* prefetto della Congregazione delle Cause dei santi


© Copyright Avvenire 10 marzo 2010