Mi era stato chiesto di immergermi. Questo significa il battesimo, "immersione". Allora volli andare in un monastero, dove quelli che erano stati immersi non erano mai più riemersi in superficie. Un insieme di circostanze, tra cui il mio amore per Léon Bloy, mi condusse all'abbazia di Saint-Pierre a Solesmes. Mi era stato detto che là avrei potuto incontrare qualcuno che aveva conosciuto il suo figlioccio, Jacques Maritain, che fu oblato con il nome di frère Placide. Quando entrai nell'abbazia, fu uno choc improvviso. Quello che cercavo non era la tradizione, meno ancora il "progresso", ma la radicalità, qualcosa che avrebbe potuto essere sempre all'avanguardia. Ero soddisfatto nella mia ricerca. Giunse l'ora dei vespri.
Nel coro i monaci entrarono come due ali di grandi uccelli neri che si posano due a due davanti al tabernacolo prima di separarsi a destra e a sinistra, guadagnando dolcemente il loro posto. Mi sembrava di assistere ad una sorta di coreografia primordiale: la marcia lenta, la genuflessione profonda, subito il grande segno di croce come una cifra tracciata sul proprio corpo affinché il Verbo ci raggiunga in pieno petto! E d'altra parte i petti dei monaci si gonfiavano per intonare all'unisono: Deus, in adiutorium meum intende. Domine, ad adiuvandum me festina ("O Dio, vieni in mio aiuto. Signore, vieni presto a salvarmi").
L'ufficio divino inizia con questa ammissione impossibile da fare con le proprie forze. Il vecchio benedettino arriva a recitarla ogni giorno, sette volte al giorno, comincia ogni volta dichiarando che non sa pregare, che ciò a cui si eleva è assolutamente nuovo, improbabile ed esige il soccorso dell'Altissimo. Da lì sgorgò questo canto che chiamiamo "gregoriano". Esso si eleva, come un funambolo, sulla frontiera della parola e del silenzio. Nessuna musica più di questa rispetta il silenzio. Essa non lo rompe: lo esplora, ne sgombra l'interno, estende il suo dominio. Essa rivela, al di là dell'assenza di rumore, il raccoglimento di una presenza.
Ma questo canto possiede altre qualità d'avanguardia che non potevano lasciare indenne l'ebreo che sono. Mediante la sua antichità essa riuniva il passato e il futuro. Tramite il suo colore, si stende al punto di intersezione dell'Occidente e dell'Oriente; con le sue parole, soprattutto quelle dei salmi, spinge il Nuovo Testamento dentro l'Antico. E grazie alla sua disciplina del soffio, convoca i corpi intorno alla parola.
In breve: tutto quello che nel mondo mi è stato donato in frammenti sparsi, l'ho trovato riunito qui nell'epifania dell'unità cattolica. Ma c'è un'altra cosa che non dimentico e che si presenta come pendant del coro: il refettorio. Pure lì vi è il silenzio, intercalato dal tintinnio delle posate sui piatti, dal leggero rumore dei bicchieri sulla tavola di legno, tutto il brusio delle cose ordinarie e che, di solito, i ristoranti d'affari o i pasti famigliari interrompono con il loro impietoso bla bla. Dietro a me, nel refettorio, come l'accompagnamento di un basso continuo, un monaco fa la lettura recto tono, ovvero di voce tanto monocorde quanto priva di personalizzazione.
Proprio lì ho conosciuto alcuni dei più bei momenti di contemplazione: davanti ad un pezzo di pane, a piccoli piselli o una foglia di lattuga. In questo clima spirituale, grazie ad un'organizzazione scandita dalla liturgie delle ore, la caraffa e la cesta di frutta mi apparivano con lo stesso peso di mistero di un quadro di Chardin. Mi ricordo specialmente del sole che veniva a giocare con il mio bicchier d'acqua.
Questo bicchiere era lo stesso della mia infanzia, di marca Duralex. Ma lo vedevo come il segno di un'altra infanzia, quella che vede tutte le cose bagnate dalla tenerezza del Padre. Allora mi sono immerso in questo bicchier d'acqua. Due giorni dopo il mio arrivo a Solesmes, ho domandato di essere battezzato. Questo avvenne durante la Veglia pasquale, oramai 12 anni fa.
(©L'Osservatore Romano - 22-23 marzo 2010)