DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Twitter-choc: aborto in diretta

Sul Web il diario di un’americana che ha assunto la Ru486
di Elena Molinari
Tratto da Avvenire del 27 febbraio 2010

«Non vedo l’ora che arrivi lo sfrat­to. L’inquilino abusivo che oc­cupa il mio utero se ne deve an­dare». Sono frasi come questa, oltre al titolo “a­borto dal vivo su Twitter” ad aver suscitato l’at­tenzione – e l’orrore – di migliaia di utenti di Twitter ai “post” del diario di Angie Jackson.

Usando una raffica di messaggi da 140 carat­teri al massimo, come impone il sito di “mi­croblogging”, la 27enne disoccupata della Flo­rida ha raccontato nei giorni scorsi ogni sinto­mo, ogni fase, ogni pensiero che ha attraver­sato il suo corpo e la sua mente quando ha de- ciso di interrompere la sua seconda gravidan­za. Lo ha fatto chimicamente, prendendo le pillole note come Ru486 che hanno già causa­to almeno 17 morti accertate: la prima nello studio di un medico di Planned Parenthood, la principale associazione di pianificazione fa­miliare negli Usa, le altre quattro a casa.

«I crampi stanno diventando più persistenti», ha scritto, e poi, dopo alcune ore: «Adesso sto davvero sanguinando». La Jackson ha detto di aver deciso di raccontare su Twitter la sua e­sperienza per aiutare altre donne a «sdram­matizzare l’aborto». «Sono spaventata. Non so come sarà o quanto starò male, o se avrò alcun aiuto, vorrei avere con me una famiglia», ha scritto su Twitter Angie poco prima di prende­re le pillole. Questa “famiglia” erano gli 800 seguaci su Twit­ter che la Jackson aveva prima dell’aborto e che da allora si sono moltiplicati. La donna ha un bimbo di quattro anni, nato con gravi pro­blemi dopo una gravidanza a rischio, e i me­dici l’avevano avvertita che un’altra gravidan­za avrebbe potuto ucciderla. «Tutto quello che voglio fare è restare viva, e il modo migliore di farlo è abortire», si giustifica la giovane madre, anche se più avanti si dice convinta che «non voler essere incinta» è un motivo abbastanza valido per non portare a termine una gravi­danza.

Jackson ha ricevuto i messaggi di incoraggia­mento che sperava, ma si è detta «sorpresa» dalla valanga di polemiche che il suo gesto ha provocato. Le sono arrivate proteste e – ha det­to – anche minacce di morte. Il Family Resear­ch Council, un gruppo per la difesa della vita, ha definito la sua decisione una «tragedia».

Alcuni lettori l’hanno implorata di fermarsi, offrendole di adottare il bambino non nato. Molti si sono sentiti offesi dalle frasi con cui Angie ha liquidato l’embrione che aveva in u­tero come un incidente di cui liberarsi, un er­rore causato dal malfunzionamento dalla spi­rale. «Mi sento infettata, sono arrabbiatissima con il mio ragazzo anche se non è stato inten­zionale», spiegò nel primo post intitolato “In­cinta”.

L’anno scorso aveva messo in subbuglio la re­te la decisione di Penelope Trunk, una famosa blogger, di usare Twitter per raccontare la sua esperienza quando aveva perso un bambino per un aborto spontaneo. L’America si era poi scandalizzata in dicembre quando un’altra mamma della Florida, Shellie Ross, aveva an­nunciato in diretta ai suoi 5. 000 seguaci nel Web che il figlio era annegato nella piscina di casa. La Jackson aveva appreso di esser rima­sta incinta per la seconda volta il 13 febbraio, tre settimane dopo il concepimento. La setti­mana dopo, ha preso la Ru486.


La pillola della solitudine


Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it

Nei social network passa davvero di tutto.
Persino l’accurata descrizione in diretta di un aborto praticato con la pillola RU486.
L’autrice dell’allucinante trovata è Angie Jackson, una ventisettenne americana, che ha deciso di condividere su Twitter questa sua esperienza, col fine dichiarato di voler «sdrammatizzare» l’aborto. La donna, peraltro, si sente particolarmente orgogliosa di far parte della schiera degli antiteisti, coloro, per intenderci, che a differenza degli atei non si limitano a non credere in Dio ma combattono in maniera attiva e, a volte, aggressiva la stessa idea di divinità.
Quando lo scorso 13 gennaio Angie Jackson si è accorta della sua gravidanza indesiderata, non ha esitato a farlo sapere ai suoi 800 “amici” virtuali, attraverso un messaggio lapidario: «Pregnant!». Da quel momento il numero dei fan è raddoppiato. Tre settimane dopo, la Jackson decide di interrompere la gravidanza optando per la pillola abortiva RU486 invece di ricorrere all’intervento chirurgico. Da qui l’idea di rendere pubblica questa tragedia personale attraverso quella inquietante dimensione immateriale che si chiama cyberspazio.
C0sì, “antitheistangie” (Angie l’antiteista) – questo è lo username della donna – lo scorso 21 febbraio inizia a postare su Twitter: «I crampi cominciano ad aumentare». Qualche ora più tardi comunica: «Ora inizio decisamente a perdere sangue». E via descrivendo fino ai più raccapriccianti dettagli.
Quello che la donna non aveva immaginato, però, erano gli inevitabili rischi legati al fatto di essersi esposta al giudizio pubblico. Le critiche per quella demenziale iniziativa, infatti, sono piovute a centinaia, rasentando, in alcuni casi, persino l’invettiva. E non si è trattato soltanto di antiabortisti. Ciò che, però, mi ha maggiormente stupito è stata la reazione della Jackson. «Forse sono stata ingenua» ha ammesso la fiera antiteista, dichiarandosi «attonita» per il livello di livore manifestato da tante persone nei suoi confronti. In realtà, la combattiva Angie non poteva non immaginare quello che sarebbe successo, per cui la sua asserita “ingenuità” convince poco. Sarebbe troppo facile, quindi, liquidare questa storia come la semplice azione di una squilibrata.
Senza scomodare la psicoanalisi junghiana, credo che quanto successo potrebbe scaturire da qualcosa di più profondo. Forse la scorza spavalda dell’ideologia ha nascosto, in realtà, la comprensibile fragilità umana di quella donna di fronte alla tragedia dell’uccisione del proprio figlio. L’ostentato ateismo, la pretesa di combattere una battaglia per demistificare l’aborto, il linguaggio smaccatamente spavaldo e fuori luogo, probabilmente non hanno rappresentato altro che il disperato e patetico tentativo inconscio di sconfiggere la solitudine. Sì, questa è la parola chiave: solitudine. Una condizione che non corrisponde al desiderio originale dell’uomo e che rappresenta il contrario della vita affermata come fattore positivo, pieno di ricchezza e significato. Di fronte alla tragedia della soppressione di un figlio, Angie Jackson è sprofondata nell’angoscia silenziosa del buio e della notte, in quella disperata solitudine che, Vladimir Nabokov, nel suo romanzo Fuoco Pallido, rappresenta come «il campo da gioco di Satana».
Da qui la ricerca disperata di aiuto, inconsciamente urlata nel mondo virtuale e senza confini della rete. Così ho interpretato le parole di Angie Jackson che, a mio parere (ma è solo un’impressione personale non una diagnosi psicologica), potrebbero rappresentare la vera motivazione di quel gesto apparentemente insano. «Dal punto di vista emotivo», ha infatti confessato la donna, «mi sono sentita di agire così apertamente e con il supporto morale dei miei amici, perché solo in questo modo tutto è stato più facile».
Questa è la prova, qualora ve ne fosse bisogno, di quanto siano devastanti gli effetti psicologici dell’aborto “fai da te”, di quella pillola RU486 che fa ripiombare la donna sola di fronte alla tragedia dell’interruzione di una gravidanza. Proprio ciò che la Legge 194/78 voleva combattere.
Questo è lo scenario a cui, purtroppo, potremmo assistere nel nostro Paese, qualora le Regioni optassero per la scorciatoia del Day Hospital, anziché, come prevede la legge, il ricovero e l’assistenza ospedaliera. Che questa rischi, peraltro, di essere la fine che ci attende, lo dimostra l’autorevole vaticinio del guru Umberto Veronesi: «Io credo che non sarà più necessaria, in futuro, alcuna forma di ospedalizzazione». Il grande luminare milanese preferisce, infatti, che le donne abortiscano da sole e chiuse nell’angusto spazio del bagno di casa propria. Le femministe, ovviamente, tacciono indifferenti all’angosciante situazione umana in cui verrebbero a trovarsi le donne che decidono di ingoiare la RU486. Non tutte avranno il coraggio di chiedere aiuto. Magari nel modo volgare e dissennato di Angie Jackson. Molte saranno costrette a macerare in silenzio il proprio infinito dolore, avvolte dalla gelida coltre della solitudine, che mai come in questo caso apparirebbe per quello che davvero è. Il campo da gioco di Satana.