Quante parole per commentare, difendere, spiegare qualcosa che invece è molto semplice. Lo scandalo e il tumulto derivante dalla pedofilia insinuatasi nel clero ha una radice inequivocabile: lo smarrimento della Grazia che chiama e costituisce il presbitero. E, con essa, la perdita o l'immaturità della fede. La secolarizzazione della società penetrata anche nella Chiesa ha certo contribuito allo sviluppo del triste fenomeno, ma da sola non basta a spiegare. Mettere sotto accusa il Concilio Vaticano II non dimostra altro che l'ignoranza dello stesso, dei suoi testi sulla Chiesa e sul Ministero ad esempio. La severità e la trasparenza sono certo doverose ma, da sole, non risolveranno nulla, perchè è tutt'altro il piano su cui si muovono la Chiesa ed i suoi Pastori. Il piano misterioso e celeste della Grazia. La catechesi del Papa sul ministero docente del sacerdote è, più e meglio d'ogni altra, parola chiara ed inequivocabile. Illumina il ministero e l'essenza del presbitero e così, in controluce, indica alla Chiesa il cammino futuro, ed insieme antico. Diocesi e parrocchie, movimenti e nuove comunità, seminari ed istituti di formazione hanno, nelle parole odierne del Pontefice, una sorta di manuale per un autentico rinnovamento del clero e, quindi, della Chiesa intera. Altre ne seguiranno le prossime settimane, come sempre semplici e dense. Disattenderle sarà l'ennesimo rifiuto della Grazia, di quel soffio dello Spirito senza il quale qualcosa di ancor peggio della pedofilia affliggerà la Chiesa ed il mondo intero. Perdere Cristo, il suo amore, la sua amicizia che generano libertà e umiltà, parresia e zelo, verità e misericordia sarebbe un peccato imperdonabile; sarebbe una vera e propria pedofilia spirituale, a violare, con la negligenza e l'accidia, il cuore di tutti i bambini di spirito indifesi che, per una Parola non annunciata, cadranno vittime del demonio. Nessun tribunale potrà allora giudicare un crimine così efferato come quello d'aver privato del Vangelo i piccoli della terra che attendono, schiavi nell'ombra del timore e della morte, il volto misericordioso di Cristo .
Antonello Iapicca Pbro
Il Signore ha   affidato ai Sacerdoti un grande  compito: essere annunciatori della Sua  Parola, della Verità che salva;  essere sua voce nel mondo per portare  ciò che giova al vero bene delle  anime e all’autentico cammino di fede.
Cari   amici,
in questo periodo pasquale,  che ci conduce alla  Pentecoste e ci avvia anche alle celebrazioni di  chiusura dell’Anno  Sacerdotale, in programma il 9, 10 e 11 giugno  prossimo, mi è caro  dedicare ancora alcune riflessioni al tema del  Ministero ordinato,  soffermandomi sulla realtà feconda della  configurazione del sacerdote a  Cristo Capo, nell’esercizio dei tria  munera che riceve, cioè dei tre  uffici di insegnare, santificare e  governare.
Per capire che  cosa  significhi agire in persona Christi Capitis - in persona di Cristo  Capo -  da parte del sacerdote, e  per capire anche quali conseguenze  derivino  dal compito di rappresentare il Signore, specialmente  nell’esercizio di  questi tre uffici, bisogna chiarire anzitutto che  cosa si intenda per  “rappresentanza”. Il sacerdote rappresenta Cristo.  Cosa vuol dire, cosa  significa “rappresentare” qualcuno? Nel linguaggio  comune, vuol dire –  generalmente - ricevere una delega da una persona  per essere presente al  suo posto, parlare e agire al suo posto, perché  colui che viene  rappresentato è assente dall’azione concreta. Ci  domandiamo: il  sacerdote rappresenta il Signore nello stesso modo? La  risposta è no,  perché nella Chiesa Cristo non è mai assente, la Chiesa è  il suo corpo  vivo e il Capo della Chiesa è lui, presente ed operante  in essa. Cristo  non è mai assente, anzi è presente in un modo  totalmente libero dai  limiti dello spazio e del tempo, grazie  all’evento della Risurrezione,  che contempliamo in modo speciale in  questo tempo di Pasqua.
Pertanto,  il sacerdote che agisce in  persona Christi Capitis  e in rappresentanza  del Signore, non agisce  mai in nome di un assente, ma nella Persona  stessa di Cristo Risorto,  che si rende presente con la sua azione  realmente efficace. Agisce  realmente e realizza ciò che il sacerdote non  potrebbe fare: la  consacrazione del vino e del pane perché siano  realmente presenza del  Signore, l’assoluzione dei peccati. Il Signore  rende presente la sua  propria azione nella persona che compie tali  gesti. Questi tre compiti  del sacerdote - che la Tradizione ha  identificato nelle diverse parole  di missione del Signore: insegnare,  santificare e governare - nella  loro distinzione e nella loro profonda  unità sono una specificazione di  questa rappresentazione efficace. Essi  sono in realtà le tre azioni  del Cristo risorto, lo stesso che oggi  nella Chiesa e nel mondo insegna  e così crea fede, riunisce il suo  popolo, crea presenza della verità e  costruisce realmente la comunione  della Chiesa universale; e santifica  e guida.
Il  primo compito del quale vorrei parlare oggi è  il munus docendi, cioè  quello di insegnare. Oggi, in piena emergenza  educativa, il munus  docendi della Chiesa, esercitato concretamente  attraverso il ministero  di ciascun sacerdote, risulta particolarmente  importante. Viviamo in una  grande confusione circa le scelte  fondamentali della nostra vita e gli  interrogativi su che cosa sia il  mondo, da dove viene, dove andiamo, che  cosa dobbiamo fare per compiere  il bene, come dobbiamo vivere, quali  sono i valori realmente  pertinenti. In relazione a tutto questo esistono  tante filosofie  contrastanti, che nascono e scompaiono, creando una  confusione circa le  decisioni fondamentali, come vivere, perché non  sappiamo più,  comunemente, da che cosa e per che cosa siamo fatti e dove  andiamo. In  questa situazione si realizza la parola del Signore, che  ebbe  compassione della folla perché erano come pecore senza pastore.  (cfr Mc  6, 34). Il Signore aveva fatto questa costatazione quando aveva  visto  le migliaia di persone che lo seguivano nel deserto perché, nella   diversità delle correnti di quel tempo, non sapevano più quale fosse il   vero senso della Scrittura, che cosa diceva Dio. Il Signore, mosso da   compassione, ha interpretato la parola di Dio, egli stesso è la parola   di Dio, e ha dato così un orientamento. Questa è la funzione in persona   Christi del sacerdote: rendere presente, nella confusione e nel   disorientamento dei nostri tempi, la luce della parola di Dio, la luce   che è Cristo stesso in questo nostro mondo. Quindi il sacerdote non   insegna proprie idee, una filosofia che lui stesso ha inventato, ha   trovato o che gli piace; il sacerdote non parla da sé, non parla per sé,   per crearsi forse ammiratori o un proprio partito; non dice cose   proprie, proprie invenzioni, ma, nella confusione di tutte le filosofie,   il sacerdote insegna in nome di Cristo presente, propone la verità che  è  Cristo stesso, la sua parola, il suo modo di vivere e di andare  avanti.  Per il sacerdote vale quanto Cristo ha detto di se stesso: “La  mia  dottrina non è mia” (Gv, 7, 16); Cristo, cioè, non propone se  stesso,  ma, da Figlio, è la voce, la parola del Padre. Anche il  sacerdote deve  sempre dire e agire così: “la mia dottrina non è mia,  non propago le mie  idee o quanto mi piace, ma sono bocca e cuore di  Cristo e rendo  presente questa unica e comune dottrina, che ha creato  la Chiesa  universale e che crea vita eterna”.
Questo  fatto, che  il sacerdote cioè non inventa, non crea e non proclama  proprie idee in  quanto la dottrina che annuncia non è sua, ma di Cristo,  non  significa, d’altra parte, che egli sia neutro, quasi come un  portavoce  che legge un testo di cui, forse, non si appropria. Anche in  questo  caso vale il modello di Cristo, il quale ha detto: Io non sono da  me e  non vivo per me, ma vengo dal Padre e vivo per il Padre. Perciò,  in  questa profonda identificazione, la dottrina di Cristo è quella del   Padre e lui stesso è uno col Padre. Il sacerdote che annuncia la parola   di Cristo, la fede della Chiesa e non le proprie idee, deve anche dire:   Io non vivo da me e per me, ma vivo con Cristo e da Cristo e perciò   quanto Cristo ci ha detto diventa mia parola anche se non è mia. La vita   del sacerdote deve identificarsi con Cristo e, in questo modo, la   parola non propria diventa, tuttavia, una parola profondamente   personale. Sant’Agostino, su questo tema, parlando dei sacerdoti, ha   detto: “E noi che cosa siamo? Ministri (di Cristo), suoi servitori;   perché quanto distribuiamo a voi non è cosa nostra, ma lo tiriamo fuori   dalla sua dispensa. E anche noi viviamo di essa, perché siamo servi  come  voi” (Discorso 229/E, 4).
L’insegnamento  che il sacerdote è  chiamato ad offrire, le verità della fede, devono  essere  interiorizzate e vissute in un intenso cammino spirituale  personale,  così che realmente il sacerdote entri in una profonda,  interiore  comunione con Cristo stesso. Il sacerdote crede, accoglie e  cerca di  vivere, prima di tutto come proprio, quanto il Signore ha  insegnato e  la Chiesa ha trasmesso, in quel percorso di immedesimazione  con il  proprio ministero di cui san Giovanni Maria Vianney è testimone   esemplare (cfr Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale). “Uniti   nella medesima carità – afferma ancora sant’Agostino - siamo tutti   uditori di colui che è per noi nel cielo l’unico Maestro” (Enarr. in Ps.   131, 1, 7).
Quella del sacerdote,  di conseguenza, non di rado  potrebbe sembrare “voce di uno che grida nel  deserto” (Mc 1,3), ma  proprio in questo consiste la sua forza  profetica: nel non essere mai  omologato, né omologabile, ad alcuna  cultura o mentalità dominante, ma  nel mostrare l’unica novità capace di  operare un autentico e profondo  rinnovamento dell’uomo, cioè che Cristo è  il Vivente, è il Dio vicino,  il Dio che opera nella vita e per la vita  del mondo e ci dona la  verità, il modo di vivere.
Nella  preparazione attenta della  predicazione festiva, senza escludere quella  feriale, nello sforzo di  formazione catechetica, nelle scuole, nelle  istituzioni accademiche e,  in modo speciale, attraverso quel libro non  scritto che è la sua stessa  vita, il sacerdote è sempre “docente”,  insegna. Ma non con la  presunzione di chi impone proprie verità, bensì  con l’umile e lieta  certezza di chi ha incontrato la Verità, ne è stato  afferrato e  trasformato, e perciò non può fare a meno di annunciarla. Il   sacerdozio, infatti, nessuno lo può scegliere da sé, non è un modo per   raggiungere una sicurezza nella vita, per conquistare una posizione   sociale: nessuno può darselo, né cercarlo da sé. Il sacerdozio è   risposta alla chiamata del Signore, alla sua volontà, per diventare   annunciatori non di una verità personale, ma della sua verità.
Cari   confratelli sacerdoti, il Popolo cristiano domanda di ascoltare dai   nostri insegnamenti la genuina dottrina ecclesiale, attraverso la quale   poter rinnovare l’incontro con Cristo che dona la gioia, la pace, la   salvezza. La Sacra Scrittura, gli scritti dei Padri e dei Dottori della   Chiesa, il Catechismo della Chiesa Cattolica costituiscono, a tale   riguardo, dei punti di riferimento imprescindibili nell’esercizio del   munus docendi, così essenziale per la conversione, il cammino di fede e   la salvezza degli uomini. “Ordinazione sacerdotale significa: essere   immersi [...] nella Verità” (Omelia per la Messa Crismale, 9 aprile   2009), quella Verità che non è semplicemente un concetto o un insieme di   idee da trasmettere e assimilare, ma che è la Persona di Cristo, con  la  quale, per la quale e nella quale vivere e così, necessariamente,  nasce  anche l’attualità e la comprensibilità dell’annuncio. Solo questa   consapevolezza di una Verità fatta Persona nell’Incarnazione del  Figlio  giustifica il mandato missionario: “Andate in tutto il mondo e   proclamate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15). Solo se è la Verità è   destinato ad ogni creatura, non è una imposizione di qualcosa, ma   l’apertura del cuore a ciò per cui è creato.
Cari  fratelli e  sorelle, il Signore ha affidato ai Sacerdoti un grande  compito: essere  annunciatori della Sua Parola, della Verità che salva;  essere sua voce  nel mondo per portare ciò che giova al vero bene delle  anime e  all’autentico cammino di fede (cfr 1Cor 6,12). San Giovanni  Maria  Vianney sia di esempio per tutti i Sacerdoti. Egli era uomo di  grande  sapienza ed eroica forza nel resistere alle pressioni culturali e   sociali del suo tempo per poter condurre le anime a Dio: semplicità,   fedeltà ed immediatezza erano le caratteristiche essenziali della sua   predicazione, trasparenza della sua fede e della sua santità. Il Popolo   cristiano ne era edificato e, come accade per gli autentici maestri di   ogni tempo, vi riconosceva la luce della Verità. Vi riconosceva, in   definitiva, ciò che si dovrebbe sempre riconoscere in un sacerdote: la   voce del Buon Pastore.