DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Droga, l’Asia «rinchiude» i suoi tossicodipendenti: la repressione preferita alla riabilitazione, anche con vessazioni e torture

DA B ANGKOK S TEFANO V ECCHIA
« U
no degli inservien­ti usava la fune (di fili d’acciaio in­trecciati) per punirci. A ogni col­po la pelle ci restava attaccata». Questo il ricordo peggiore che Choam Chao ha M’noh, 16 anni, conserva del Centro di riabilita­zione giovanile del ministero de­gli Affari sociali cambogiano. La sua colpa, quella di essere stato schedato come tossicodipen­dente.
Come sottolineato dal recente rapporto di Human Rights Wat­ch, scariche elettriche, frustate, permanenza in catene sotto il so­le cocente sono la 'cura' che Ph­nom Penh riserva ai suoi tossi­codipendenti, tuttavia in tutto il Sud-Est asiatico, come in Cina, uomini e donne arrestati mentre fanno uso di stupefacenti o so­vente anche solo perché sospet­tati di uso o di spaccio sono rin­chiusi i centri di riabilitazione, in condizioni sovente inumane. Sottoposti a tortura, stupri, per­cossi per il semplice fatto di es­sere là, ancora peggio se non si a­deguano al regime del campo o non si dimostrano sufficiente­mente produttivi nelle attività di lavoro forzato.
Si potrebbe pensare che nella grande varietà di sistemi politici, livello economico, diversità di sti­li di vita, culture e fedi il feno­meno tossicodipendenza abbia in Asia un trattamento altrettan­to vario. Se è vero che la tradi­zionale tolleranza ancora oggi
non individua nell’utilizzatore di sostanze stupefacenti un perico­lo a livello di vicinato, la risposta delle autorità è pressoché quasi univoca: repressione. Con poche sfumature, il continente com­batte la tossicodipendenza con strumenti coercitivi.
Ciò può apparire piuttosto scon­tato in realtà chiuse e sottoposte a regimi poco propensi a lascia­re crescere spazi di difformità e dissenso come Myanmar, Cam­bogia, Laos, Vietnam e la stessa Repubblica popolare cinese, che lo si ritrovi anche in Paesi dal pro­filo democratico come Thailan­dia, Filippine, Malaysia è più sor­prendente.
Come nel caso della prostituzio­ne o dell’Aids, quanti si impe­gnano a migliorare la condizio­ne dei tossicodipendenti si tro­vano davanti a politiche schizo­freniche. Da un lato, le agenzie internazionali e gli esperti della salute pubblica a livello nazio­nale affermano la necessità che questo gruppo di popolazione diventi oggetti di specifici pro­grammi di assistenza compati­bili con la loro reale condizione; dall’altro, gli organi di polizia considerano le stesse persone in termini di partecipazione ad at­tività illegali. In questo caso, i tossicodipen­denti – visti come irregolari e non come bisognosi di aiuto – sono sovente isolati, controllati e de­tenuti. Ufficialmente, questo può persino essere indicato come un approccio 'equilibrato', ma è un fatto che in molti Paesi la repres­sione ha molte più risorse e so­stegno politico della riabilitazio­ne. Con costi umani altissimi, co­me suggerito nei rapporti di Hu­man Rights Watch sui centri di detenzione per tossicodipen­denti in Cina e in Cambogia. Ini­ziative che, come in Malaysia, Laos, Thailandia e Vietnam, so­no indicate quali luoghi di cura, ma vengono gestite dai militari e non da personale medico, spes­so non offrendo alcun tratta­mento, se non esercitazioni di sti­le militare e la ripetizione di slo­gan come 'le droghe sono catti­ve, io sono cattivo'. Come sottolineano gli esperti dell’Unodc (Ufficio delle Nazio­ni Unite per la droga e la crimi­nalità) della sede Asia meridio­nale- Pacifico di Bangkok: «Que­ste istituzioni, sebbene identifi­cate come Centri per il tratta­mento della tossicodipendenza, non forniscono alcuno degli in­terventi considerati efficaci per tale scopo. In aggiunta, in molti casi non vi è neppure il tentativo di accertare che quanti sono af­fidati ai centri siano davvero tos­sicodipendenti.
Dall’ultima statistica disponibi­le sul numero delle istituzioni 'riabilitative', elaborata da U­nodc e riferita ai dati del 2006, ri­sultava che nel Laos i centri era­no tre con 900 'ospiti'; 66 centri in Myanmar con 1.500 detenuti; 49 centri in Thailandia, nel 2005, per 2.400 ospiti e altri 17 centri per minori con 3.500 giovani; in Vietnam, tra 60mila e 70mila tos­sicodipendenti risultavano rin­chiusi in 80 centri (quasi equiva­lenti agli 80.414 prigionieri co­muni censiti nel 2007) ai quali andavano aggiunti 35mila dete­nuti tossicodipendenti «Questo tipo di risposta – si dice ancora all’Unodc – indica che i centri sovente rappresentano u­na risposta ibrida all’uso di stu­pefacenti (un reato) e alla dipen­denza (ovvero un problema di salute). Sfortunatamente, di fre­quente i centri non sono né un’a­deguata risposta della giustizia criminale (quando, ad esempio, non viene seguito un procedi­mento giudiziario corretto). Per essere in regola con la legge, nes­suno dovrebbe essere mandato al centro senza una decisione del tribunale e, secondariamente, senza un esplicito consenso».




IL RAPPORTO

«IN CAMBOGIA CAMPI DI DETENZIONE CON ABUSI E SEVIZIE»


«Gli individui raccolti in questi centri non sono curati o riabilitati, ma illegalmente detenuti e spesso sottoposti a tortura». Strutture quindi detentive e coercitive «che non devono essere ammodernate o modificate, ma che devono essere chiuse». Così scrive Joseph Amon, direttore della Divisione Salute e Diritti umani dell’organizzazione Human Rights Watch, che ha pubblicato un rapporto dedicato alla situazione dei campi per la riabilitazione dei tossicodipendenti in Cambogia, successivo a uno simile sulla Cina. Nelle 93 pagine del Rapporto «Skin on the cable» (Pelle sulla fune), diffuso poche settimane fa, Human Rights Watch parla di detenuti picchiati, costretti a subire abusi sessuali e a donare il proprio sangue, sottoposti a dure punizioni. Nel testo si racconta anche di un gran numero di detenuti ridotti in precarie condizioni di salute dal cibo avariato o infestato da insetti, come pure di malattie derivanti dalle carenze alimentari. Oltre a analizzare in dettagli le cure 'riabilitative', che consistono soprattutto in esercitazioni, fatiche, privazioni, con la supervisione di diversi enti governativi, inclusa la polizia militare e civile. Alto il numero dei minori e di individui con problemi mentali tra gli 'ospiti', senza che si tenga conto delle loro condizioni. (
S.Vec.)

© Copyright Avvenire 7 aprile 2010