Contro il Papa convergono interessi su tre livelli: uno interno alla Chiesa che non condivide il pontificato di Benedetto XVI, uno mediatico-economico che vede avvocati pronti a tutto per guadagnare, uno delle lobby che vogliono limitare il potere vaticano. L’impressione è che in questi giorni ci si trovi di fronte a un regolamento di conti
Anche dietro alla pubblicazione della lettera a firma di Joseph Ratzinger che nel 1985 chiedeva al vescovo di Oakland di temporeggiare in merito alla riduzione allo stato laicale di padre Stephen Kiesle, prete colpevole di abusi su minori, c’è l’avvocato Jeff Anderson, il legale intenzionato a portare Benedetto XVI alla sbarra. Lo stesso avvocato che aveva rilanciato il caso di padre Murphy, il molestatore dei bambini sordomuti di Milwuakee, cercando di dimostrare una responsabilità del governo centrale della Chiesa. In quest’ultimo caso, il sacerdote non era stato ridotto allo stato laicale perché moribondo. Mentre nel caso di padre Kiesle, la dimissione era arrivata dalla Santa Sede nel 1987, dopo qualche anno dall’iniziale richiesta, in quanto si è atteso che il sacerdote compisse 40 anni.
Nella bufera mediatica delle ultime ore, hanno rischiato di perdersi alcuni punti fermi, che vale la pena ricordare. Kiesle tra l’aprile del 1977 e il maggio 1978 aveva molestato almeno sei bambini e ragazzi di età compresa tra gli undici e i tredici anni. Era stato denunciato, arrestato dalla polizia, processato e condannato a tre anni con la condizionale. Non gli era stato più permesso di avvicinare i giovani. Nel momento in cui il suo vescovo scrive a Roma per sostenere la richiesta dello stesso sacerdote di essere dimesso dallo stato clericale, la Santa Sede stava attuando nuove direttive stabilite da Giovanni Paolo II in merito alle dispense. Negli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, infatti, queste venivano concesse con molta facilità. Papa Montini chiamava quei dossier con le richieste dei preti decisi a lasciare l’abito, «la mia corona di spine». Con l’avvento di Wojtyla, si era deciso di dare un giro di vite, concedendole meno facilmente e soprattutto attendendo di norma il compimento del quarantesimo anno d’età. Va ricordato che nel caso di padre Kiesle, la competenza dell’eventuale processo canonico per gli abusi sui ragazzi era della diocesi, non della Congregazione per la dottrina della fede, che avocherà a sé questi casi solo dal 2001. L’ex Sant’Uffizio si doveva pronunciare soltanto sulla riduzione allo stato laicale del prete, il quale, nel frattempo, veniva comunque tenuto sotto controllo: non si registrano né si segnalano denunce a suo carico tra il 1981 e il 1987, cioè negli anni in cui il suo caso viene esaminato dal Vaticano.
L’avvocato Anderson fa bene il suo lavoro e le parcelle milionarie che ha incassato in questi anni lo stanno a dimostrare. È vero che non è facile districarsi nella selva delle procedure canoniche e delle competenze di questo o di quel dicastero, ma fanno il loro lavoro molto meno bene coloro che rilanciano documenti senza contestualizzarli, finendo per fare il gioco di chi vuole far apparire a tutti i costi colpevole Papa Ratzinger, per trascinarlo in tribunale. Che questo sia lo scopo dichiarato, e che vi sia un accanimento in questo senso, è sotto gli occhi di tutti. Accanto all’avvocato Anderson, durante la conferenza stampa a New York dello scorso 25 marzo, dedicata al caso di padre Murphy, era seduto il domenicano Thomas Doyle, da anni impegnato in favore delle vittime di abusi ma oggi anche impegnato a dimostrare una responsabilità vaticana. Così come bisogna ricordare che all’inizio del caso pedofilia in Germania ci sono state le denunce del preside del Canisius College, padre Klaus Mertel, impegnato per una rivalutazione teologica dell’omosessualità, il quale ha invitato per iscritto tutti gli alunni a riferire se avessero mai sentito parlare di abusi in passato. Al di là dei casi specifici, c’è davvero l’impressione che in queste settimane si sia di fronte a una sorta di regolamento di conti con il pontificato ratzingeriano. Un pontificato al quale non si perdonano il motu proprio che ha riabilitato la messa antica, la revoca della scomunica ai lefebvriani e il decreto sulle virtù eroiche di Pio XII, firmato lo scorso dicembre. Ma anche, forse più nascostamente, c’è chi non sopporta parole di un certo tipo sulla globalizzazione, sullo sfruttamento delle risorse naturali, sulla dignità del lavoro. Sembra che ogni atto del Papa «irriti» certi ambienti e «uno si deve chiedere il perché», ha osservato il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, intervistato dalla Cnn, mentre nei giorni scorsi l’ex Segretario di Stato Angelo Sodano aveva messo direttamente in rapporto gli attacchi a Ratzinger con il messaggio della Chiesa su vita e famiglia.
L’impressione è che Oltretevere non sia ancora percepito in tutta la sua devastante portata quanto sta accadendo e che rischia di minare la credibilità morale della Chiesa nell’opinione pubblica. Giorno dopo giorno, vescovi e cardinali vengono accusati di aver sottovalutato o coperto. Il sospetto lambisce la curia di Wojtyla e con il caso del fondatore dei Legionari di Cristo Marcial Maciel arriva all’entourage papale più stretto. Lo stillicidio di documenti, lettere, denunce non accenna a diminuire. Mai come in questo momento agli inquilini dei sacri palazzi servirebbe un’exit strategy per uscire dall’angolo. In molti sperano che, ancora una volta, intervenga Benedetto XVI.
Nella bufera mediatica delle ultime ore, hanno rischiato di perdersi alcuni punti fermi, che vale la pena ricordare. Kiesle tra l’aprile del 1977 e il maggio 1978 aveva molestato almeno sei bambini e ragazzi di età compresa tra gli undici e i tredici anni. Era stato denunciato, arrestato dalla polizia, processato e condannato a tre anni con la condizionale. Non gli era stato più permesso di avvicinare i giovani. Nel momento in cui il suo vescovo scrive a Roma per sostenere la richiesta dello stesso sacerdote di essere dimesso dallo stato clericale, la Santa Sede stava attuando nuove direttive stabilite da Giovanni Paolo II in merito alle dispense. Negli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, infatti, queste venivano concesse con molta facilità. Papa Montini chiamava quei dossier con le richieste dei preti decisi a lasciare l’abito, «la mia corona di spine». Con l’avvento di Wojtyla, si era deciso di dare un giro di vite, concedendole meno facilmente e soprattutto attendendo di norma il compimento del quarantesimo anno d’età. Va ricordato che nel caso di padre Kiesle, la competenza dell’eventuale processo canonico per gli abusi sui ragazzi era della diocesi, non della Congregazione per la dottrina della fede, che avocherà a sé questi casi solo dal 2001. L’ex Sant’Uffizio si doveva pronunciare soltanto sulla riduzione allo stato laicale del prete, il quale, nel frattempo, veniva comunque tenuto sotto controllo: non si registrano né si segnalano denunce a suo carico tra il 1981 e il 1987, cioè negli anni in cui il suo caso viene esaminato dal Vaticano.
L’avvocato Anderson fa bene il suo lavoro e le parcelle milionarie che ha incassato in questi anni lo stanno a dimostrare. È vero che non è facile districarsi nella selva delle procedure canoniche e delle competenze di questo o di quel dicastero, ma fanno il loro lavoro molto meno bene coloro che rilanciano documenti senza contestualizzarli, finendo per fare il gioco di chi vuole far apparire a tutti i costi colpevole Papa Ratzinger, per trascinarlo in tribunale. Che questo sia lo scopo dichiarato, e che vi sia un accanimento in questo senso, è sotto gli occhi di tutti. Accanto all’avvocato Anderson, durante la conferenza stampa a New York dello scorso 25 marzo, dedicata al caso di padre Murphy, era seduto il domenicano Thomas Doyle, da anni impegnato in favore delle vittime di abusi ma oggi anche impegnato a dimostrare una responsabilità vaticana. Così come bisogna ricordare che all’inizio del caso pedofilia in Germania ci sono state le denunce del preside del Canisius College, padre Klaus Mertel, impegnato per una rivalutazione teologica dell’omosessualità, il quale ha invitato per iscritto tutti gli alunni a riferire se avessero mai sentito parlare di abusi in passato. Al di là dei casi specifici, c’è davvero l’impressione che in queste settimane si sia di fronte a una sorta di regolamento di conti con il pontificato ratzingeriano. Un pontificato al quale non si perdonano il motu proprio che ha riabilitato la messa antica, la revoca della scomunica ai lefebvriani e il decreto sulle virtù eroiche di Pio XII, firmato lo scorso dicembre. Ma anche, forse più nascostamente, c’è chi non sopporta parole di un certo tipo sulla globalizzazione, sullo sfruttamento delle risorse naturali, sulla dignità del lavoro. Sembra che ogni atto del Papa «irriti» certi ambienti e «uno si deve chiedere il perché», ha osservato il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, intervistato dalla Cnn, mentre nei giorni scorsi l’ex Segretario di Stato Angelo Sodano aveva messo direttamente in rapporto gli attacchi a Ratzinger con il messaggio della Chiesa su vita e famiglia.
L’impressione è che Oltretevere non sia ancora percepito in tutta la sua devastante portata quanto sta accadendo e che rischia di minare la credibilità morale della Chiesa nell’opinione pubblica. Giorno dopo giorno, vescovi e cardinali vengono accusati di aver sottovalutato o coperto. Il sospetto lambisce la curia di Wojtyla e con il caso del fondatore dei Legionari di Cristo Marcial Maciel arriva all’entourage papale più stretto. Lo stillicidio di documenti, lettere, denunce non accenna a diminuire. Mai come in questo momento agli inquilini dei sacri palazzi servirebbe un’exit strategy per uscire dall’angolo. In molti sperano che, ancora una volta, intervenga Benedetto XVI.
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