Un nuovo saggio sulla cultura nata dal software ci racconta chi sono i rivoluzionari della contemporaneità. Oggi sono sconosciuti ma in futuro saranno considerati geni
di Alessandro Gnocchi
Tutti conosciamo i nomi degli artisti rinascimentali che diffusero l’utilizzo della prospettiva lineare nell’arte occidentale (come Brunelleschi o Leon Battista Alberti) o i creatori del linguaggio cinematografico dei primi del Novecento (come D.W. Griffith o Eisenstein). Ma a pochi sono noti i nomi dei pionieri del digitale, capaci di rivoluzionare il nostro modo di intendere, esperire e creare la cultura attraverso i nuovi media. Eppure, soprattutto negli Stati Uniti, si è diffusa la convinzione che proprio questi anonimi visionari del mondo dei computer saranno considerati in futuro alla stregua dei geni del XVI secolo.
Esagerato? Forse. Ma senz’altro chiunque può verificare immediatamente come sarebbe diversa la propria vita, sia sul lavoro sia nel tempo libero, senza software quali Word o Photoshop o Flash. Difficile negare, ad esempio, che i programmi di videoscrittura abbiamo influenzato il nostro rapporto con la scrittura o addirittura modificato la nozione stessa di documento, divenuta sempre più flessibile e multimediale se non addirittura interattiva. Impossibile non accorgersi come i media digitali abbiano rivoluzionato la nostra estetica, basti pensare all’universo visivo della computer graphic applicata al cinema da Matrix ad Avatar. Per non dire dell’importanza di programmi Cad nella ridefinizione del disegno architettonico. In realtà non è esagerato affermare che tutte le discipline che hanno a che fare con la cultura - architettura, design, arte, letteratura, sociologia, insomma le discipline umanistiche in generale - siano profondamente legate e continuamente plasmate dallo strumento principe utilizzato nella società contemporanea: il software, in continua evoluzione, caricato nei nostri computer.
Lev Manovich, docente di New Media Art e Storia della cultura digitale presso il dipartimento di Arti Visive delll’università della California, ha scritto Software Culture (appena pubblicato dall’editore Olivares, pagg. 240, euro 30), un libro che potremmo sintetizzare così. Primo. Il software è di fatto il nuovo motore della cultura. Secondo. Il software, almeno in alcuni casi, è di per sé un’opera dell’ingegno molto simile a un’opera d’arte. Terzo. Per capire le possibilità dei nuovi media è utile conoscere la biografia e gli scritti dei pionieri dell’informatica. Quarto. Il futuro di tutte le arti consiste nella loro ibridazione grazie alla versatilità del digitale.
Ma chi sono dunque i nuovi Brunelleschi? Secondo Manovich, questi: «J.C. Licklider, Ivan Sutherland, Ted Nelson, Douglas Engelbart, Alan Kay, Nicholas Negroponte e i loro collaboratori che, tra il 1960 e il 1978 circa, hanno trasformato gradualmente il computer nell’elaboratore culturale che è oggi». Quasi nessuno, tra loro, era attivo in ambito accademico. Fu l’industria, interessata all’innovazione, a sostenere i costi della rivoluzione incipiente. Molti facevano capo, o hanno fatto capo almeno per qualche tempo, ai laboratori dello Xerox Parc e dei Media Lab del MIT. Altri centri decisivi furono i Bell Labs e l’IBM Watson Research.
L’«eroe» di Manovich è Alan Kay, allo Xerox Parc fra il 1970 e il 1981. Dal suo Learning Research Group sono usciti: l’interfaccia grafica con finestre e icone, lo schermo a pixel, la grafica a colori, il collegamento in rete via Ethernet, il mouse, le stampanti laser. Ma anche programmi per la videoscrittura, il disegno, l’animazione e l’editing musicale. L’idea di Kay era che l’utente, attraverso un linguaggio informatico chiamato Smalltalk, il medesimo utilizzato dai programmatori, potesse contribuire a creare i propri strumenti. Quando Kay entra in scena, il Research Center for Augmenting Human Intellect di Douglas Engelbart ha già sviluppato la nozione di ipertesto e l’Architecture Machine Group (poi Media Lab) di Nicholas Negroponte, a partire dal 1967, ha fornito i primi esempi di Cad (disegno al computer, destinato a rivoluzionare l’architettura) e studia le possibilità di interazione diretta fra uomo e macchina. Quest’ultimo è lo stesso ambito in cui si muove, con risultati brillanti, Ivan Sutherland. La sua azienda, verso la fine degli anni Sessanta, inizia a prendere molto sul serio l’idea di creare nel computer «uno spazio virtuale tridimensionale» a cui aggiunge una qualità chiave: che sia «navigabile» dall’utente.
Il computer è pronto a trasformarsi da macchina di calcolo a mezzo di comunicazione di massa. Come aveva immaginato J.K. Licklider negli anni Cinquanta al Mit. Nel decennio successivo Licklider, forte di questa convinzione, guiderà per conto del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti l’Intergalactic Computer Network, nome fantascientifico che porterà nel 1969 a un risultato molto concreto: Arpanet, il «papà» di Internet. Tra i visionari della rete, c’è Ted Nelson, lo scienziato e sociologo che odia il World Wide Web di Tim Berners-Lee: il suo progetto Xanadu proponeva un tipo diverso di navigazione, meno vincolante, più libero nella gestione dei collegamenti e dei link.
E a questo punto, vale la pena di sottolineare le conclusioni di Manovich: non tutte le opzioni e le possibilità immaginate dai geni di cui sopra sono state realizzate. È stata una scelta determinata da molti fattori, non tutti legati alla qualità (a causa, caso per caso, di costi, scontri industriali, monopoli etc.). Il computer e il web avrebbero potuto essere molto diversi. Ciò che in parte è andato perso è proprio ciò su cui insisteva Alan Kay: permettere «all’utente di programmare rapidamente i propri strumenti, i propri media». Secondo Kay, un ragazzino di dodici anni avrebbe dovuto avere la possibilità di compilare un programma a sua misura per disegnare in allegria. Non è andata proprio così. Ma quasi, per fortuna.
Esagerato? Forse. Ma senz’altro chiunque può verificare immediatamente come sarebbe diversa la propria vita, sia sul lavoro sia nel tempo libero, senza software quali Word o Photoshop o Flash. Difficile negare, ad esempio, che i programmi di videoscrittura abbiamo influenzato il nostro rapporto con la scrittura o addirittura modificato la nozione stessa di documento, divenuta sempre più flessibile e multimediale se non addirittura interattiva. Impossibile non accorgersi come i media digitali abbiano rivoluzionato la nostra estetica, basti pensare all’universo visivo della computer graphic applicata al cinema da Matrix ad Avatar. Per non dire dell’importanza di programmi Cad nella ridefinizione del disegno architettonico. In realtà non è esagerato affermare che tutte le discipline che hanno a che fare con la cultura - architettura, design, arte, letteratura, sociologia, insomma le discipline umanistiche in generale - siano profondamente legate e continuamente plasmate dallo strumento principe utilizzato nella società contemporanea: il software, in continua evoluzione, caricato nei nostri computer.
Lev Manovich, docente di New Media Art e Storia della cultura digitale presso il dipartimento di Arti Visive delll’università della California, ha scritto Software Culture (appena pubblicato dall’editore Olivares, pagg. 240, euro 30), un libro che potremmo sintetizzare così. Primo. Il software è di fatto il nuovo motore della cultura. Secondo. Il software, almeno in alcuni casi, è di per sé un’opera dell’ingegno molto simile a un’opera d’arte. Terzo. Per capire le possibilità dei nuovi media è utile conoscere la biografia e gli scritti dei pionieri dell’informatica. Quarto. Il futuro di tutte le arti consiste nella loro ibridazione grazie alla versatilità del digitale.
Ma chi sono dunque i nuovi Brunelleschi? Secondo Manovich, questi: «J.C. Licklider, Ivan Sutherland, Ted Nelson, Douglas Engelbart, Alan Kay, Nicholas Negroponte e i loro collaboratori che, tra il 1960 e il 1978 circa, hanno trasformato gradualmente il computer nell’elaboratore culturale che è oggi». Quasi nessuno, tra loro, era attivo in ambito accademico. Fu l’industria, interessata all’innovazione, a sostenere i costi della rivoluzione incipiente. Molti facevano capo, o hanno fatto capo almeno per qualche tempo, ai laboratori dello Xerox Parc e dei Media Lab del MIT. Altri centri decisivi furono i Bell Labs e l’IBM Watson Research.
L’«eroe» di Manovich è Alan Kay, allo Xerox Parc fra il 1970 e il 1981. Dal suo Learning Research Group sono usciti: l’interfaccia grafica con finestre e icone, lo schermo a pixel, la grafica a colori, il collegamento in rete via Ethernet, il mouse, le stampanti laser. Ma anche programmi per la videoscrittura, il disegno, l’animazione e l’editing musicale. L’idea di Kay era che l’utente, attraverso un linguaggio informatico chiamato Smalltalk, il medesimo utilizzato dai programmatori, potesse contribuire a creare i propri strumenti. Quando Kay entra in scena, il Research Center for Augmenting Human Intellect di Douglas Engelbart ha già sviluppato la nozione di ipertesto e l’Architecture Machine Group (poi Media Lab) di Nicholas Negroponte, a partire dal 1967, ha fornito i primi esempi di Cad (disegno al computer, destinato a rivoluzionare l’architettura) e studia le possibilità di interazione diretta fra uomo e macchina. Quest’ultimo è lo stesso ambito in cui si muove, con risultati brillanti, Ivan Sutherland. La sua azienda, verso la fine degli anni Sessanta, inizia a prendere molto sul serio l’idea di creare nel computer «uno spazio virtuale tridimensionale» a cui aggiunge una qualità chiave: che sia «navigabile» dall’utente.
Il computer è pronto a trasformarsi da macchina di calcolo a mezzo di comunicazione di massa. Come aveva immaginato J.K. Licklider negli anni Cinquanta al Mit. Nel decennio successivo Licklider, forte di questa convinzione, guiderà per conto del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti l’Intergalactic Computer Network, nome fantascientifico che porterà nel 1969 a un risultato molto concreto: Arpanet, il «papà» di Internet. Tra i visionari della rete, c’è Ted Nelson, lo scienziato e sociologo che odia il World Wide Web di Tim Berners-Lee: il suo progetto Xanadu proponeva un tipo diverso di navigazione, meno vincolante, più libero nella gestione dei collegamenti e dei link.
E a questo punto, vale la pena di sottolineare le conclusioni di Manovich: non tutte le opzioni e le possibilità immaginate dai geni di cui sopra sono state realizzate. È stata una scelta determinata da molti fattori, non tutti legati alla qualità (a causa, caso per caso, di costi, scontri industriali, monopoli etc.). Il computer e il web avrebbero potuto essere molto diversi. Ciò che in parte è andato perso è proprio ciò su cui insisteva Alan Kay: permettere «all’utente di programmare rapidamente i propri strumenti, i propri media». Secondo Kay, un ragazzino di dodici anni avrebbe dovuto avere la possibilità di compilare un programma a sua misura per disegnare in allegria. Non è andata proprio così. Ma quasi, per fortuna.
«Il Giornale» del 17 aprile 2010