DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Foibe, una ferita ancora aperta. La tragedia degli esuli istriani nel libro-testimonianza di Maria Antonietta Marocchi

di Francesca Pica

Ci sono dolori che non passano e lutti che non trovano rassegnazione, soprattutto se le tombe sono senza nome e se, al silenzio dei morti, si aggiunge quello, colpevole, dei vivi. È di questo dolore che ci parla Maria Antonietta Marocchi nel suo ultimo libro, Foibe (s)conosciute, pubblicato dalla collana “I libri del Borghese”. L'autrice, figlia di esuli di Capodistria, da molti anni è impegnata in una battaglia affinché la pagina di storia riguardante i fatti accaduti nelle terre d'Istria, fra il 1943 e il 1947 venga conosciuta interamente, sia per quanto riguarda la tragica fine di tanti italiani nelle foibe, sia per descrivere il triste esodo di 350mila esuli dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia.

Le foibe sono cavità carsiche di origine naturale simili ad imbuti rovesciati con un ingresso a strapiombo. È in quelle voragini del Carso e dell'Istria che hanno trovato la morte migliaia di italiani, accusati di essere criminali nemici del popolo; furono, invece, vittime di una furia omicida alimentata da un nazionalismo esasperato.
La prima ondata di violenza esplode all'indomani della firma dell'armistizio dell'8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi si vendicano contro gli italiani non comunisti, torturano, massacrano, affamano e poi gettano nelle foibe migliaia di persone. La violenza aumenta nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupa Trieste, Gorizia e l'Istria. Le truppe del Maresciallo Tito si scatenano contro gli italiani. A cadere dentro le foibe furono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini sotto il silenzio degli alleati, nel caos postbellico e nella mancanza totale di testimoni. La memoria di queste vittime è stata sepolta per molti anni: dopo una spietata 'pulizia etnica' gli esuli hanno dovuto subire anche una 'pulizia storiografica' che ha fatto dimenticare la loro tragedia.
Finalmente, dopo tanto oblio, il Parlamento italiano ha approvato nel marzo 2004 la legge di istituzione della "Giornata del ricordo", restituendo così dignità al sacrificio delle vittime uccise sul confine orientale e dei 350mila connazionali costretti all'esilio dalle loro terre per sfuggire alla repressione dei partigiani del maresciallo Tito e alla sistematica epurazione attuata nei confronti dei cittadini italiani.
Nell'ambito di un rinnovato interesse intorno a questa oscura vicenda della storia contemporanea, la Marocchi affronta l'analisi di quegli anni attraverso il vaglio di documenti rilevati da fonti ufficiali. Tuttavia, ed è l'autrice stessa ad avvisarci, un'obiettività assoluta non esiste, perché ogni ricostruzione storica riflette esperienze e forse pregiudizi di chi vi si accinge a scrivere o a parlarne. Di certo, sostiene la Marocchi, quando si parla di foibe non ci si riferisce solo alle persone gettate nelle cavità carsiche, ma a tutte le esecuzioni e sparizioni di cittadini avvenute tra il settembre del 1943 fino ad oltre il giugno del 1945. Allo stesso fenomeno 'foibe' si possono ascrivere le migliaia di deportati civili e militari di nazionalità italiana catturati in quei territori alla fine delle ostilità che risultano ufficialmente scomparsi.
Oltre l'interesse della studiosa, leggendo il libro della Marocchi si scorge lo sguardo della figlia che racconta anche una storia di famiglia, la sua. Un piccolo romanzo nel cuore del libro è infatti, la vicenda di Serafino e Margherita, genitori dell'autrice, narrata con grazia e partecipazione. Due giovani che negli anni '30 a Capodistria si incontrano, si innamorano, si sposano. Una vita che scorre felice, allietata dalla nascita di molti figli fino a quando la storia entra brutalmente nella loro vita: la città in cui vivevano viene invasa dalle 'berrette rosse', i soldati del maresciallo Tito. La guerra era appena finita, ma per loro ricominciava. Le autorità slovene abolirono i mercati e la fame cominciava a farsi sentire. Quando anche la casa gli fu sottratta, Serafino decise di abbandonare la città. Partirono, come tanti altri, un esodo di cittadini che lasciavano la terra italiana perché improvvisamente non lo era più. Si allontanarono per rimanere italiani ma da un'altra parte, portandosi dietro solo qualche lettera, un oggetto prezioso nascosto nelle tasche, qualcosa che potesse aiutarli a ricostruire la vita altrove.
Nel libro ancora piccoli camei, storie di uomini e donne che danno il senso di ciò che in quegli anni avvenne, come la testimonianza di Graziano Udovisi, ottantenne, istriano di Pola, unico superstite italiano alla tragedia delle foibe ancora vivo. È da poco tempo che Udovisi ha trovato il coraggio di raccontare la sua vicenda personale. Poche frasi e siamo già nel dramma: l'arresto, le torture, il fil di ferro, i colpi di fucile che gli spaccano i timpani e infine, legato insieme ad altri sei prigionieri, viene trascinato fin davanti ad una foiba. Mentre gli slavi cominciano a sparare, Udovisi si getta nella voragine e finisce in acqua. Quel gesto disperato sarà la sua salvezza: nel salto si spezza il fil di ferro, le mani si liberano, riesce a risalire e a tirare per i capelli un compagno vicino a lui. Fermi negli anfratti per ore, i due risalgono in superficie la sera successiva. Dopo otto giorni torna a casa: la sorella sulla porta non lo riconosce. La foiba gli ha risparmiato la vita ma gli ha inghiottito l'esistenza.
Forte ed eroico il ritratto di monsignor Antonio Santin, vescovo di Trieste e di Capodistria: egli assunse un ruolo fondamentale quando le istituzioni del confine orientale svanirono dopo l’armistizio, diventando il punto di riferimento della comunità religiosa e della società civile. Per i triestini, per gli istriani e per i giuliani monsignor Santin è stato un costante riferimento, una garanzia di comprensione dei problemi e delle difficoltà, che rendono così difficile la ricostruzione di una vita.
Il libro di Maria Antonietta Marocchi vuole anche ricordare che, dal 1947, gli esuli attendono giustizia per i diritti riguardanti le case, i beni e tutte le proprietà che furono loro confiscate e mai indennizzate. Costretti a optare tra rimanere italiani e andarsene, oppure divenire jugoslavi pur di restare nella propria terra, la maggior parte di loro intraprese la via dell'esilio come una scelta di libertà lasciando la famiglia, gli amici, la casa, i beni, i ricordi, le tradizioni, le radici che affondano nella terra in cui si è cresciuti e al legame inesprimibile con i propri morti.
Questi esuli vennero accolti in Patria con l'ostilità e il fastidio che si prova per gli indesiderati. Dopo tanti anni, la giustizia negata deve tornare a trionfare, è un atto dovuto alle migliaia di vittime e alle loro famiglie che aspettano da troppo tempo.



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