DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Germania d’Arabia L’Oman volto dell’islam moderno tra tolleranza e svolta economica

EUGENIO FATIGANTE
L
a chiamano 'la Germania d’Arabia' e capisci subito perché. Tu dici 'sul­tanato dell’Oman' e, nell’immagina­rio collettivo, si pensa a profumi d’incen­so e colori da ' Mille e una notte', come normale nella leggendaria terra di Sinbad il marinaio. Poi arrivi all’aeroporto di Mu­scat, o Mascate, e trovi ad accoglierti, lun­go gli ampi viali che ti portano in città, cu­ratissimi praticelli verdi e ordinate aiuole con fiori di ogni colore. Possibile? Sì, sia­mo sempre in terra d’Arabia ma, come mo­stra la prima immagine di Muscat, di que­sta penisola l’Oman è la parte che più si è spinta avanti in un compromesso che sem­bra riuscito. «Questo stato è la dimostrazione che l’I­slam può essere conciliabile con la moder­nità, il rispetto della tradizione islamica non è incompatibile con i concetti di tolleran­za e apertura» che, spiega Cesare Capitani, ambasciatore qui da oltre due anni, «in­cludono anche l’aspetto religioso» (qui ci sono 4 chiese cattoliche). «Lo straniero è benvenuto, non abbiamo preclusioni » , conferma il segretario generale del mini­stero degli Esteri, Sayyd Badr. Per inten­derci: nella terra di Sinbad non trovi la 'sco­piazzatura' degli stili di vita dell’Occiden­te come a Dubai, fra mega-grattacieli e pi­ste da sci artificiali (e anche altro), ma nem­meno quella 'cappa' che si respira in Ara­bia Saudita o la pura tradizione che avver­ti nel vicino Yemen. Sia chiaro: nel suq di Mutrah e nelle vie lun­go il porto è facile imbattersi in persone che indossano gli abiti tradizionali, bianco per gli uomini con il kanjhar (il pugnale ricur­vo in fodero d’argento lavorato) e nero per le donne. Il panorama fa risaltare, sulla co­rona di montagne rocciose che circonda la città, moschee dalla cupole blu o dorate e caseggiati mai troppo alti, tutti coi caratte­ristici muri bianchi, con l’unica variazione cromatica di un giallo morbido.
È una tradizione che ha saputo stempera­re la Sharia (che resta la fonte del diritto) grazie alla corrente ibadhita, qui dominante e che prende il nome del mistico del VII se­colo Abdullah ibn Ibadh, contrario all’uso della forza. Per questo, oltre alla tradizione, si scopre anche altro. Ovvero il volto e gli sforzi del Paese più giovane della penisola arabica. E anche il meno conosciuto e me­no fortunato. Sta qui il segreto dell’opera di modernizzazione impostata dal sultano Qaboos bin Said Al Said, quasi 70enne ma senza figli, vicino (il prossimo autunno) ai 40 anni di regno ininterrotto dopo aver de­posto nel luglio 1970 il padre, un conser­vatore che aveva tenuto il sultanato in un limbo medievale. Si dice che all’epoca esi­stessero appena 4 chilometri di strade a­sfaltate. Qaboos, che ha studiato anche in Inghilterra, all’accademia militare di Sandhurst (la stessa della famiglia reale in­glese), conduce una vita riservata e non a­ma partecipare ai vertici arabi. Rispetto ad altri governi dell’area ha però il grande me­rito di aver aperto l’Oman all’esterno. An­che all’Italia, da lui frequentata in più oc­casioni con il panfilo reale di 154 metri e mezzo e dotato di elicottero (famosa è quel­la volta che, data la stazza, non riuscì ad at­traccare nel porticciolo di Capri).
Il sultano vuole trasformare il Paese anche sul piano economico, guardando oltre la dipendenza dal petrolio (circa 820mila ba­rili prodotti al giorno) che garantisce oggi quasi il 70% del prodotto interno lordo. U­na scelta in parte obbligata perché si dice (ecco la minor fortuna) che le riserve locali di 'oro nero' garantiscono l’estrazione so­lo per pochi altri decenni. Poi finirà. E le ri­sorse di gas naturale sono state già ven­dute in concessione ai cinesi. Ecco che, con il denaro ricavato finora, il sultano sta avviando un’ingente opera di potenzia­mento delle opere pubbliche e di diversi­ficazione. Porti e aeroporti, strade e centrali elettriche. Poi c’è il turismo: 25 grandi strut­ture alberghiere e
resort sono stati realiz­zati dal 2004. E altri complessi sono in via di realizzazione. Come ' The Wave', il sob­borgo di lusso nei pressi dell’aeroporto in­ternazionale realizzato in joint-venture fra il governo dell’Oman e la società d’inve­stimenti Mafi, con ville disegnate dall’ar­chitetto romano Carlo Santini e dal greco Tombazis.
Ma, soprattutto, c’è il sogno-progetto di in-
stallare vere industrie 'pe­santi', per garantire lavoro e profitti (quando il petro­lio non ci sarà più) alla po­polazione, che ha il pregio di una bassa età media: il 43% sta sotto i 15 anni e ap­pena il 3% supera i 65 (con­tro il 20% italiano). È una non facile opera di avvia­mento e anche, per così di­re, di 'educazione' al lavo­ro quella che il sultano si è prefisso. Da sem­pre, infatti, a lavorare per conto degli oma­niti è stata una massiccia immigrazione, pari grosso modo a un quarto della popo­lazione e proveniente soprattutto dalle Fi­lippine e dall’India, ma pure da Sudan e Sri Lanka. Ce ne rendiamo conto di persona scoprendo un insolito assembramento, nel quartiere delle ambasciate, davanti a quella di Nuova Delhi: sono centinaia di in­diani in fila per la proroga del visto, ci racconta Jamal in un inglese stentato, la lin­gua usata nei contatti (stringati) con gli omaniti. Il governo ha però fissato l’obiettivo, lungimirante per quanto problematico, dell’'omanizzazione': Qa­boos vuole - e questo rappresenta un vin­colo non da poco per gli investitori stra­nieri - che circa il 40% della forza-lavoro sia nativa.
In campo politico la modernizzazione è meno veloce, tuttavia ci sono donne al go­verno, e 4 sono procuratori di giustizia. Dal 2003 c’è anche un parziale diritto di voto (u­na
Camera Bassa con 84 membri eletti, an­che se solo da quasi 200mila omaniti sopra i 21 anni, una fascia ristretta di residenti con maggior prestigio sociale). Ancor più si­gnificativi sono i progressi sul piano socia­le: se le prime donne poliziotto sono ap­parse nel 1972, «i progressi maggiori li ab­biamo avuti nell’assistenza sanitaria e nel­la scolarità femminile», ci racconta Majid, che lavora in uno degli alberghi della capi­tale. La prima è totalmente gratuita, con numerosi ospedali a fronte dell’unico che esisteva 35 anni fa: riprova ne è che la ma­­laria, ancora forte nei primi anni 70, è sta­ta debellata e la speranza di vita si è allun­gata a 72 anni (per gli uomini). Fra gli uni­versitari poi, i due terzi sono ragazze, al­l’interno di un sistema dell’istruzione cui va il 4% del Prodotto interno lordo ( quasi quanto l’Italia, per intenderci); appena un terzo, però, di quelle spese militari che as­sorbono l’11,4% e che rendono l’Oman il nostro secondo principale mercato fuori dalla Nato per i sistema di difesa.
È solo un 'assaggio' degli spazi aperti in questa terra, dove non si pagano tasse in­dividuali e in cui è ora più facile entrare: per una società mista basta avere il 30% di capitale locale (fino a poco fa era il 51%), ma accanto al
partner serve la figura di uno sponsor che presenti l’imprenditore stra­niero. Un Paese di opportunità, l’Oman, do­ve finora non sembra aver attecchito il con­tagio fondamentalista (malgrado la sua po­sizione geografica, sullo stretto di Hormuz, ne faccia un sito strategico per i traffici del­l’area). Anche questo per opera del sultano che – si dice – abbia scacciato alcuni mul­lah
che predicavano violenza. Ma lo Yemen è a un passo. E la guardia resta alta.

In previsione di una fine delle riserve energetiche, si tenta di installare una vera industria pesante. La maggiore difficoltà è «l’educazione al lavoro» dei cittadini, che oggi delegano tutto agli immigrati


Il culto è ammesso. Ma soltanto in chiesa


DAL NOSTRO INVIATO A MUSCAT

D
omenica pomeriggio, quartiere di Ruwi. Sono le 17 e 30. Picco­li gruppi di persone si avviano verso un edificio bianco ottagonale, af­fiancato da un campo sportivo. Se fos­simo in Europa si penserebbe al clas­sico 'prologo' di una Messa. Siamo in­vece a Muscat ma, a sorpresa, proprio di questo si tratta. Il campanile non c’è, però quella davanti a cui ci trovia­mo è la chiesa cattolica dei Santi Pie­tro e Paolo, una delle 4 ( fu consacrata il 4 novembre 1977) presenti in Oman. Nemmeno poche, in fondo, per un Paese strettamente musulmano di quasi 3 milioni di abitanti. Un’altra sor- ge sempre nella capitale, a Ghala: è la parrocchia dello Spirito Santo; la ter­za, dedicata a S. Antonio, si trova al nord, a Sohar, mentre quella di S. Fran­cesco Saverio è molto a sud, a Salalah, a oltre mille chilometri.
Tutte e 4 le chiese sono state erette, al pari di alcuni templi indù, su terreni donati dal sultano Qaboos e appar­tengono al Vicariato apostolico di A­rabia,
che ha sede ad Abu Dhabi. In O­man, insom­ma, i cristiani non possono dire messa al­l’aperto, ma nei luoghi ricono­sciuti dal sulta­nato non c’è problema. Di­mostrazione di una certa tolleranza, che è caratteristica del regno di Qa­boos. I presenti non superano i 40- 50, ma va ricordato che qui la domenica è giorno lavorativo. L’assemblea è com­posta quasi per intero da personale di­plomatico, più qualche lavoratore im­migrato. La celebrazione è in inglese.
Anche chi la presiede viene da lonta­no: è un religioso filippino, padre Raul Ramos, 55 anni, che stima ( « molto ap­prossimativamente » ) la sua comunità in 20mila persone. Diplomatici a par­te, in prevalenza « sono – ci dice – in­diani, filippini, nepalesi, pachistani, bengalesi e srilanchesi, cristiani in lin­gua araba provenienti dal Libano » . Per alcuni di loro venire a Messa non è u­na passeggiata: le loro case distano an­che decine di chilometri. Ma lo fanno,
anche perché in una terra simile la re­ligione è « un conforto amplificato, per chi soffre la lontananza da casa, acui­ta spesso dal fatto che non trovano qui tutto ciò che gli è stato promesso in patria » .
La chiesa, all’interno, è davvero bella ( si deve all’architetto Tony Lodge). Al centro, un cerchio contornato da fine­strelle inonda di luce la sala, candida, al cui fondo si staglia in una nicchia un gran­de crocifisso li­gneo; all’estrema destra c’è invece un’immagine della Madonna ( in parrocchia c’è la ' Legione di Maria'). Fra le attività, si fa ca­techismo il giovedì e il venerdì e ci so­no ben 126 lettori ( le messe si cele­brano anche in filippino, in urdu – lin­gua pachistana – e nei dialetti indiani del Kerala e di Goa).
Un crogiolo di etnie che apre uno sce­nario imprevisto, svelato sempre da padre Ramos: gli stranieri cristiani a volte sono « fonte di conversione » per loro connazionali, colpiti magari da dialoghi fatti sul luogo di lavoro. Ma per i non musulmani che si converto­no in Oman il consiglio, rivolto loro dagli stessi sacerdoti, è di farsi battez­zare alla prima occasione in cui tor­nano nel Paese d’origine, come « for­ma di rispetto per la libertà di culto che ci viene concessa qui dagli oma­niti
» .



© Copyright Avvenire 21 aprile 2010




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