E’ morta Dorothy Height, storica
icona e leader dei diritti civili
sin dagli anni 60, quando marciava al
fianco di Martin Luther King. E’ stata
una paladina della lotta per i diritti
degli afrocamericani. E il presidente
Barack Obama ha giustamente commentato
ieri la perdita dicendo che
“ha dedicato la sua vita a combattere
per l’uguaglianza”. Ma le eulogie celebrative
di Height non contemplano
un lato più oscuro della sua militanza.
Quello per garantire il “diritto all’aborto”
delle donne afroamericane.
Allora, negli anni 70, si chiamava “libertà”.
Trent’anni dopo è vista quantomeno
come una piaga drammatica.
E non a caso una nipote del dottor
King, Alveda King, oggi si batte per la
restrizione dell’aborto e la revisione
della sentenza Roe vs.Wade che ne
sancì l’assolutismo e la copertura costituzionale.
“Come può ‘The dream’
sopravvivere se uccidiamo i bambini?”,
ha chiesto Alveda in una bella
riformulazione del celebre sogno di
suo zio. Anche lei, come Dorothy, è
una militante di solida fede democratica,
una liberal, anche lei orgogliosamente
nera. Ma a differenza di Dorothy
è diventata pro life. E’ stata Alvida
a denunciare che l’80 per cento
delle cliniche abortive si trova nelle
comunità afroamericane. Gli afroamericani
sono l’unica minoranza in
America in declino demografico. Anche
a causa delle scelte irresponsabili
che le femministe stile Height fecero,
alleandosi con Margaret Sanger:
razzista ed eugenista, ma soprattutto
madrina della “libertà riproduttiva”.
Il Los Angeles Times ha scritto che i
neri americani stanno diventando
sempre più contro l’aborto così come
è stato sancito dalla sentenza del
1973. Pro life è anche la bisnipote di
Dred Scott, il celebre schiavo al centro
del caso con cui la Corte suprema
stabilì che i neri erano “non persone”.
Si calcola che tredici milioni di
neri americani siano stati abortiti negli
ultimi trent’anni. Forse andrebbe
ricordato nel giorno del lutto per una
“paladina della libertà”.
© Copyright Il Foglio 23 aprile 2010
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