DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Il Bronx d'Europa. Romanzo criminale di Bruxelles, la supercapitale trasformata in un’enorme banlieue

di David Carretta
Il “lunedì nero” per la capitale dell’Unione
europea è caduto il 12
aprile. Le ceneri vulcaniche non avevano
ancora bloccato i cieli d’Europa.
La Grecia non aveva ancora attivato il
piano di salvataggio adottato dalla zona
euro. E non era ancora caduto il
governo belga per le solite divisioni
comunitarie che hanno costretto il
premier, Yves Leterme, a dimettersi
cinque volte in tre anni. Ma il 12 aprile
è stato comunque un “lunedì nero”,
come hanno titolato i principali giornali
belgi. Una giornata “particolarmente
violenta”, iniziata con una rapina
mortale in una gioielleria, proseguita
con un attacco a un commissariato
di polizia come rappresaglia a
un inseguimento in autostrada, inframmezzata
da un altro attacco sanguinario
a una gioielleria, e conclusa
con auto in fiamme e molotov lanciate
contro le forze dell’ordine. “Bisogna
aver paura di vivere a Bruxelles?”,
era l’interrogativo in apertura
sulla Libre Belgique il 14 aprile.
“Non più oggi di ieri”, rispondono le
statistiche. Bruxelles “non è diversa”
dalle altre grandi città in materia di
criminalità, spiega il capo della polizia
federale, Fernand Koekelberg.
Eppure, secondo un reportage di marzo
della televisione francese France
2, Bruxelles è diventata “il Bronx
d’Europa”. O, come ha scritto nell’ottobre
del 2009 Die Welt, un “Eldorado
per criminali”.
Città di poco più di un milione di
abitanti, divisa in diciannove comuni,
capitale di due regioni (Bruxelles e le
Fiandre), capitale di un paese (il Belgio),
capitale di un continente (l’Europa),
Bruxelles non è un “melting
pot” di culture e religioni come Londra,
o una cipolla che stratifica le
classi sociali sulla base degli arrondissement
come Parigi. Bruxelles è
più piccola, un grande villaggio dove
il cambiamento climatico ha persino
portato il sole e un po’ di gioia di vivere.
E come in un villaggio, quando
ci scappa il morto o si incendia un
cassonetto, tutti ne parlano. Soprattutto
se all’interno si concentrano sul
suo territorio tre grandi fasce di popolazione,
diverse per ricchezza, cultura,
religione e stili di vita.
Duecentomila tra funzionari internazionali,
lobbisti e affaristi (più familiari)
dai redditi stratosferici, arrivano,
consumano e ripartono in pochi
giorni, mesi o anni, oppure ci restano
perché – dicono – Bruxelles è “una
città a misura d’uomo”. Duecentomila
alloctoni e immigrati di origine maghrebina,
africana, turca e armena,
arrivati dagli anni Sessanta in poi,
hanno occupato interi quartieri nel
centro della città e, in parte, vivono
alle spalle del generoso stato sociale.
In mezzo, ci sono i belgi rimasti, quelli
che non hanno le risorse per trasferirsi
nella verdeggiante campagna immediatamente
a ridosso della capitale
e rimpiangono i bei tempi in cui
Jacques Brel cantava di Madeleine e
del Tram 33.
L’assedio del crimine a Bruxelles
non è nuovo. Complici frontiere molto
aperte e una debole centralizzazione
dello stato, dagli anni Settanta la
capitale belga è diventata la piattaforma
attorno a cui circolano varie
forme di criminalità e traffici. Mafia
siciliana, camorra napoletana,
’ndrangheta calabrese vi hanno aperto
pizzerie e cantieri immobiliari. La
mafia albanese e dell’est europeo fanno
transitare decine di migliaia di auto
rubate. Dall’Olanda passano ogni
anno tonnellate di hashish in direzione
della Francia e della Germania.
Lo scandalo pedofilia degli anni Novanta
– il “caso Marc Dutroux” – ha
scoperchiato una parte della tratta di
bambini e prostitute. A Bruxelles si è
sperimentato il car-jacking, poi esportato
in altri paesi: i proprietari di
grosse cilindrate bloccati ai semafori,
vengono costretti a “cedere” la propria
auto sotto la minaccia di una pistola.
Poi è arrivato l’home-jacking: i
ladri aspettano fuori dal garage e, oltre
alle auto di grossa cilindrata, si
portavano via mezza casa. Ora che i
controlli alle frontiere sono stati aboliti
del tutto, la nuova moda è la rapina
“hit and run”: nuove mafie dell’est
si sono specializzate in rapine arriva
a Bruxelles “prendi i soldi e scappa”
il più presto possibile in patria. Quasi
impossibile fermare questo nuovo
“turismo del crimine”, spiegano le autorità.
La criminalità a Bruxelles è diventata
una questione internazionale da
quando è stato preso di mira il quartiere
che ospita le istituzioni comunitarie.
Considerate ultrasicure, assiduamente
pattugliate dalla polizia, le
vie che si diramano da Rond-Point
Schuman oggi sono sempre più pericolose.
La lista degli attacchi, degli
scippi e delle aggressioni a funzionari
comunitari si allunga ogni mese
che passa. Il 18 settembre 2009, l’eurodeputata
tedesca Angelika Niebler
è stata malmenata a pochi passi dalla
Commissione europea da un gruppo
che le ha rubato la borsetta. L’anno
scorso, altri due parlamentari sono
stati scippati nel Parc Leopold, che
costeggia la sede dell’Europarlamento.
Il 1°gennaio, uno stagista bulgaro
di 22 anni è stato aggredito e gettato
sui binari della stazione della metro
di Porte de Namur da un gruppo di
giovani africani. “Sono molto preoccupata,
e non da ieri – spiega la lussemburghese
Astrid Lulling, all’Europarlamento
dal 1979 – Una delle mie
colleghe è stata aggredita davanti alla
mia porta. Non oso più uscire senza
auto la sera, né fare un passo senza
essere accompagnata. E’ terribile”.
Passeggiando nel quartiere europeo,
dove quotidianamente transitano 40
mila funzionari internazionali, quotidianamente
si vedono automobili con
i vetri infranti. “Ho l’impressione che
il passatempo nazionale sia rompere
i vetri”, spiega Martin, funzionario alla
Commissione.
L’Europarlamento è una vittima eccellente
della criminalità. La sua fortezza
teoricamente inespugnabile –
decine di agenti di sicurezza vigilano
agli ingressi, dove chiunque entri è
costretto a controlli aeroportuali – è
stata violata nel febbraio del 2009,
quando un uomo con il volto coperto
ha svaligiato la succursale interna
della banca Ing, mentre tre piani sopra
Mikhail Gorbaciov e il Principe
Alberto di Monaco partecipavano a
una conferenza su “Acqua e pace nel
mondo”. Per il presidente del Partito
popolare europeo, Joseph Daul, “la
sicurezza non è assicurata in questa
città, né ci sono risposte da parte delle
autorità”. Ma le autorità – federali,
regionali o comunali – rispondono tutte
e sempre allo stesso modo: Bruxelles
“non è diversa da altre capitali”.
Anzi, il quartiere europeo è il più sicuro.
Nel 2009 ci sono state 15 aggressioni
violente, contro più di 300 nel
centro di Bruxelles. In realtà, il problema
vero sta altrove.
La prima rapina di lunedì 12 aprile
è avvenuta in una gioielleria a meno
di un chilometro dalla sede dell’Europarlamento.
Chaussé de Wavre è una
via nel cuore di Ixelles, un comunequartiere
alla moda dove migliaia di
giovani funzionari europei convivono
affianco a una consistente comunità
africana, concentrata nell’enclave di
Matongé. All’ora di pranzo, un gioielliere
di 61 anni molto conosciuto nella
zona – “lo salutavo tutte le mattine”,
dice al Foglio una giornalista italiana
che abita nella via affianco – viene abbattuto
nel suo negozio da tre rapinatori
estoni. Nessuno reagisce, tranne
Narcisse, ex membro delle forze speciali
del dittatore congolese Mobutu,
che si lancia all’inseguimento e riesce
a fermare uno dei membri della banda
degli estoni. Un secondo rapinatore
è stato arrestato dalla polizia, mentre
il terzo è riuscito a fuggire. Ma la
valigetta con dentro la refurtiva è stata
ritrovata vuota: probabilmente
qualche passante si è “intascato” il
bottino, spiegano fonti della polizia.
Al di là delle rapine, delle aggressioni
e dei vetri rotti, a Ixelles la percezione
di insicurezza è alimentata da
una forte presenza di giovani musulmani,
spesso aggressivi. “La sera non
posso attraversare alcune vie – racconta
al Foglio una giovane funzionaria
che lavora alla Commissione – Una
volta, un ragazzo marocchino ha messo
un piede nella porta di ingresso,
mentre entravo nel palazzo dove abito,
invitandosi a salire con aria minacciosa.
Me la sono cavata, ma la
peggiore sensazione è l’impotenza”.
Di fianco ai grattacieli di vetro delle
istituzioni comunitarie, c’è un altro
quartiere-comune, Saint-Josse, abitato
al 70 per cento da alloctoni di origine
musulmana. Nel corso degli anni,
turchi e marocchini hanno acquisito
la nazionalità belga: “Soltanto il 20
per cento della popolazione aveva un
nonno belga”, spiegava il sindaco
Jean Demannez nel 2003. Saint-Josse
è anche il comune più povero del Belgio.
Ma il sito internet ufficiale di
Bruxelles vanta il suo multiculturalismo:
“Affianco agli hotel internazionali
di place Rogier, ai grattacieli di
place Madou e alla piccola Manhattan
del Nuovo quartiere nord, si estendono
quartieri in cui la popolazione, a
forte maggioranza turca, ha ricreato
l’atmosfera conviviale e animata delle
città orientali”. Il tutto in appena 1,1
chilometri quadrati. “Con la diversità
delle culture presenti nella sua popolazione,
Saint-Josse offre una perfetta
immagine di multifunzionalità urbana,
che allea habitat, uffici, cultura e
distensione”. L’altra gioielleria presa
d’assalto nella sera del “lunedì nero”
era al confine tra Saint-Josse e
Schaerbeek, altro comune a forte concentrazione
di immigrati e nuovi belgi
di origine maghrebina e turca. Il
proprietario ha sparato, mentre i due
rapinatori fuggivano. Uno è morto,
l’altro è rimasto gravemente ferito.
L’indomani la polizia ha arrestato il
gioielliere: non era legittima difesa la
sua. Ha sparato alle spalle. L’accusa è
di omicidio e tentato omicidio.
Il “lunedì nero” è cominciato e finito
nel quartiere-comune di Saint-Gilles,
confinante con la via dei negozi di
lusso dell’Avenue Louise, dove si trasferiscono
sempre più giovani funzionari
europei attratti dal suo coté
bohémien, che comprende la presenza
storica di diverse comunità di immigrati.
Tutto ha avuto inizio con un
inseguimento nella circonvallazione
esterna di Bruxelles: la polizia, dopo
aver intercettato due ricercati per
grande banditismo, ha sparato, uccidendo
il capo di una banda di Saint-
Gilles. In rappresaglia, intorno all’una,
alcuni giovani di origine maghrebina
hanno attaccato un’automobile
della polizia e il commissariato di
quartiere. La rivolta è ripresa a tarda
sera e fino alle due del mattino: scontri
con la polizia, automobili bruciate,
molotov contro le forze dell’ordine. Il
bilancio è di cinque poliziotti feriti e
trenta persone fermate, tutte rilasciate
tranne una. L’indomani, la stampa
locale ha registrato altri “incidenti
minori”: una molotov contro un’auto
della polizia di Saint-Gilles, la porta
di una sinagoga data alle fiamme e
una macchina bruciata nei quartieri
di Anderlecht e Molenbeek-Saint-
Jean, altri due comuni a forte concentrazione
di immigrazione, dove abitualmente
scoppiano rivolte stile banlieue
di Parigi. Il mercoledì a Saint-
Gilles, uno spazzino ha trovato una
ventina di bottiglie molotov pronte
per l’uso.
Ciò che stupisce leggendo i giornali
belgi è l’assenza dei nomi di responsabili,
in particolare quando si
tratta di musulmani. Se i rapinatori di
Ixelles e Schaerbeek sono stati identificati
come estoni, né i nomi né l’origine
dei due fuggitivi intercettati lunedì
mattina dalla polizia sono stati
diffusi. Silenzio anche sui trenta fermati
per la rivolta di Saint-Gilles. Così
come non sono stati diffusi i nomi
delle rivolte scoppiate nel settembre
2009 a Molenbeek-Saint-Jean, dopo
che la polizia aveva fermato un giovane
di origine marocchina. Ma basta
parlare con un giornalaio di quartiere
per scoprire che la “racaille” di
Bruxelles non è diversa da quella di
Parigi. Una piccola minoranza di giovani
di origine arabo-musulmana,
spesso indottrinata da gruppi islamisti,
ha preso in ostaggio alcune zone
della città, dove le forze dell’ordine
non osano più avventurarsi. Diventati
padroni di quartieri di “non diritto”,
attaccano quelli che chiamano i
“visi pallidi”, ma anche le ragazzine
della loro stessa comunità che non vogliono
indossare il velo. I politici locali,
che hanno nelle comunità alloctone
importanti bacini di voti, fingono
di non vedere. L’establishment politico-
mediatico nazionale non osa rompere
i tabù del politicamente corretto.
E così, a Bruxelles le molotov contro
la polizia o la porta di una sinagoga
data alle fiamme diventano “incidenti
minori”. “Cos’è un incidente
maggiore?”, è stato il commento di un
utente del forum della Libre Belgique:
“Trenta morti?”.
La classe dirigente ha una responsabilità
maggiore in una situazione
potenzialmente esplosiva. I politici
nazionali non osano rimettere in discussione
un sistema sociale che incentiva
la marginalità e la disoccupazione,
attraverso sussidi e allocazioni
varie. I quartieri di Bruxelles a forte
presenza musulmana hanno il 40 per
cento di disoccupazione. Un senza lavoro
riceve tra gli 800 e i 1.300 euro di
sussidio di disoccupazione. Al primo
figlio, lo stato garantisce tra gli 83 e i
174 euro al mese. Al secondo se ne aggiungono
180, dal terzo in poi altri 235.
Un capofamiglia disoccupato, con moglie
e cinque figli a carico, a Saint-Gilles,
Anderlecht e Molenbeek-Saint-
Jean, può ricevere dallo stato belga
più di 2.300 euro. Un lavoro regolare
è meno redditizio. Poco importa se i
figli degli immigrati o degli alloctoni
disoccupati diventeranno degli emarginati,
che domani potrebbero mettere
a fuoco i loro quartieri. Vista la facilità
di ottenere la nazionalità, per i
politici belgi, i disoccupati e i loro figli
emarginati sono tutti potenziali
elettori, da non disturbare. L’integrazione
è evocata come necessità fondamentale,
ma alla fine prevalgono il
comunitarismo e la ghettizzazione.
La soluzione all’insicurezza? Secondo
Carlo Luyckx del Brussels-Europe
Liaison Office, la struttura pubblica
di Bruxelles che accoglie i funzionari
comunitari, “il più importante
è che gli europei partecipino veramente
alla vita culturale, sociale, anche
politica bruxellese. Si sentiranno
a casa loro. E il sentimento di insicurezza
scomparirà”. E’ vero: Bruxelles
non è una città più insicura delle altre
capitali. Anzi, nonostante la presenza
di minoranze islamizzate, l’integrazione
funziona meglio che altrove.
Ora che il sole splende più spesso,
Bruxelles è sempre più vivibile. Ma
lasciata nelle mani della classe dirigente
belga rischia il collasso. Non
per le solite divisioni comunitarie tra
valloni e fiamminghi che, prima o poi
faranno esplodere il Belgio. Ma perché
politici valloni e fiamminghi, a
forza di politicamente corretto, la
stanno trasformando in una grande
banlieue di Parig

© Copyright Il Foglio 23 aprile 2010




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