Dal catalogo della mostra "Gesù. Il corpo, il volto nell'arte" (Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2010, pagine 336, euro 35) allestita alla Venaria Reale in occasione dell'ostensione della Sindone, pubblichiamo ampi stralci del saggio scritto dal nostro direttore.
Al centro della fede cristiana sta la realtà dell'incarnazione di Dio. E a mostrarlo bastano due testi emblematici del Nuovo Testamento. Meno di trent'anni dopo la conclusione della vicenda terrena di Gesù di Nazaret, Paolo detta intorno all'anno 57 la sua lettera più importante. Lo scopo è presentarsi a una comunità, quella di Roma, che ancora non conosce, e il risultato è il capolavoro del giudeo di Tarso divenuto il propagandista più fervido della nuova "via" (hodòs). Proprio all'esordio della lettera Paolo si definisce "scelto per annunciare il vangelo di Dio", e questo annuncio, promesso dalle Scritture ebraiche, "riguarda il figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne (katà sàrka), costituito figlio di Dio con potenza, secondo lo spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore" (Romani, 1, 1-4).
A una data non precisabile ma altrettanto antica (se non addirittura anteriore) risale un altro testo, che apre il quarto vangelo canonico. Si tratta del celeberrimo prologo giovanneo, il cui inizio solenne - "in principio" (en archè) - richiama esplicitamente quello del Libro della Genesi; poco più avanti questo testo abissale identifica Dio con il Verbo creatore incarnatosi in Gesù di Nazaret: "E il Verbo (Lògos) si fece carne (sarx)" (Giovanni, 1, 14).
Centrale in queste affermazioni è dunque l'incarnazione, fondamentale nel complesso dei testi neotestamentari e sulla quale piuttosto presto s'intrecciano riflessioni e dibattiti che si protrarranno per molto tempo prima di arrivare alle sintesi dottrinali dei grandi concili: nell'anno 325 quello di Nicea giungerà alla più importante formulazione della fede cristiana - il "simbolo" che, ripreso e completato nel concilio di Costantinopoli del 381, costituisce l'attuale Credo, detto appunto niceno-costantinopolitano, condiviso da tutte le Chiese e confessioni cristiane - mentre al concilio di Calcedonia, nel 451, Cristo sarà definito vero Dio e vero uomo. Per oltre due secoli ancora continueranno però le controversie cristologiche, concluse dalle decisioni del terzo concilio di Costantinopoli (680-681), sulla base delle definizioni di quelli precedenti.
L'unione degli estremi contenuta nell'espressione del prologo giovanneo - ha sintetizzato con efficacia il gesuita spagnolo Antonio Orbe - "è uno scandalo per la filosofia. Gli gnostici la manterranno facendo a meno della "carne". Qualche giudeocristiano sacrificherà il Lògos. Secondo la migliore tradizione cristiana, il Lògos non cancella l'immagine umana del Salvatore". In questo contesto dottrinale, che si va configurando progressivamente, il motivo dell'incarnazione è invece esplicitato in senso ortodosso intorno all'anno 95 dal terzo successore di Pietro sulla sede di Roma, Clemente, che scrive in greco alla comunità cristiana di Corinto: per salvare l'essere umano nella sua completezza, Cristo ha assunto per intero la natura umana, e così "diede per noi il suo sangue, la sua carne (sàrka) per la nostra carne, la sua anima per la nostra anima".
Dunque Cristo ha un corpo umano reale. Ma com'era questo corpo? E quali tratti aveva il suo volto? Come già aveva sostenuto intorno alla metà del ii secolo il palestinese Giustino, anche Tertulliano afferma - allo scopo di enfatizzare l'umanità di Cristo contro Marcione e gli eretici negatori della carne del Figlio di Dio - che l'aspetto esteriore di Gesù era privo di bellezza, come si può desumere dalle sofferenze subite durante la passione, secondo quanto avevano annunciato le profezie messianiche (cfr. Giustino, Dialogo con il giudeo Trifone, 88, 8, e Tertulliano, De carne Christi, 9), in particolare quella di Isaia: "Come molti si stupirono di lui, tanto era sfigurato per essere d'uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell'uomo, così si meraviglieranno di lui molte nazioni"; e poco più avanti: "Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima" (Isaia, 52, 14-15, e 53, 2-3).
In realtà, gli autori cristiani che vogliono sottolineare l'umanità di Cristo sono ben coscienti che i testi messianici applicati a Gesù mettono in luce tanto la sua umanità del tutto normale, e dunque sofferente e sfigurata nella sua passione, quanto la sua divinità rivestita di splendore. A venire citate erano soprattutto le parole di Isaia da una parte, come si è accennato, e quelle del salmo dall'altra: "Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo" (Salmi, 44, 3). Ma soprattutto chiara è la coscienza che appunto di testi profetici si tratta, da non assumere come letteralmente descrittivi dell'aspetto di Cristo. Così argomenta Ireneo (cfr. Ireneo di Lione, Contro le eresie, iii, 19, 2), e così soprattutto ragiona Origene nella raffinata e stringente polemica contro il Discorso vero di Celso (scritto intorno al 180), nel rinfacciare all'intellettuale pagano debolezza nell'interpretazione delle Scritture: "Ora invece, dal momento che né i vangeli né gli apostoli affermano che Gesù "non aveva forma né bellezza", è chiaro che Celso è costretto ad ammettere come veritiero riguardo a Cristo ciò che deriva dalla profezia" (Origene, Contro Celso, v, 76).
Ed è proprio Ireneo ad attestare la più antica notizia su un ritratto di Gesù, che il vescovo di Lione connette a un gruppo gnostico, quello dei seguaci di Carpocrate, intorno alla metà del ii secolo: "Si dicono gnostici. Hanno anche immagini, alcune dipinte, altre fatte di altro materiale, e affermano che l'immagine di Cristo era stata fatta fare da Pilato, quando Gesù era stato fra gli uomini (dicentes formam Christi factam a Pilato, illo in tempore quo fuit Iesus cum hominibus). Tali immagini essi ornano di corone ed espongono con le immagini dei filosofi del mondo, cioè con le immagini di Pitagora, Platone, Aristotele e degli altri. Per il resto si comportano con queste immagini come i pagani" (Ireneo di Lione, Contro le eresie, i, 25, 6). Per quanto riguarda l'immagine di Cristo, l'interesse di questo testo sta innanzi tutto nella sua antichità, che spiega l'iniziale diffidenza, ereditata dal giudaismo, nei confronti delle immagini stesse, a proposito delle quali si mette in evidenza il rischio che favoriscano l'idolatria, con un atteggiamento destinato a essere superato (ma anche a persistere) nella storia del cristianesimo (cfr. A. Besançon, L'image interdite. Une histoire intellectuelle de l'iconoclasme, Paris, Fayard, 1994, e Il volto di Cristo, a cura di G. Morello - G. Wolf, Milano, Electa, 2000). Se questo però non meraviglia, è invece sorprendente l'antichità della connessione stabilita tra l'immagine del volto di Cristo e la sua passione.
A Ponzio Pilato, principale protagonista pagano della passione di Cristo, è infatti attribuita la committenza di un ritratto di Gesù, secondo una tradizione - risalente al più tardi alla prima metà del ii secolo, stando a Ireneo - che ritornerà negli scritti apocrifi variamente elaborati nei secoli successivi intorno alla figura del prefetto della Giudea e divenuti molto popolari sia in Oriente che in Occidente (cfr. Écrits apocryphes chrétiens, ii, Paris, Gallimard, 2005, pp. 241-413). In questi scritti si affaccia il motivo di un ritratto miracoloso di Gesù, connesso con la figura di un inviato di Tiberio, Volusiano, e di una donna chiamata Berenice (Veronica) e identificata con la donna che soffriva di perdite di sangue guarita da Gesù. Dell'episodio, narrato dai vangeli sinottici (cfr. Matteo, 9, 20-22; Marco, 5, 25-29; Luca, 8, 42-48), agli inizi del iv secolo Eusebio di Cesarea aveva visto a Paneade (la cittadina alle pendici dell'Ermon che al tempo di Gesù era chiamata Cesarea di Filippo) un'antica raffigurazione in bronzo, fatta distruggere un sessantennio più tardi da Giuliano l'Apostata e che lo storico spiega e deplora come un uso antico e di origine pagana, quasi un residuo del passato da lasciarsi alle spalle: "E non v'è niente di straordinario nel fatto che un tempo i pagani beneficati dal Salvatore nostro abbiano fatto questo, poiché abbiamo saputo che anche dei suoi apostoli Pietro e Paolo e di Cristo stesso si conservano le immagini (eikònas) in dipinti, come è naturale, giacché gli antichi erano soliti onorarli incautamente in questo modo come salvatori, secondo l'uso pagano esistente tra loro" (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, vii, 18, 4).
I primi secoli cristiani mostrano dunque un panorama variegato che, se ignora i tratti fisici reali del corpo e del volto di Cristo, diffida delle immagini ma inizia comunque ad attestarne la presenza già verso la metà del ii secolo, come indica la notizia di Ireneo sui carpocraziani; a partire poi dalla prima metà del iii secolo, secondo testimonianze letterarie e dati archeologici convergenti, si diffondono raffigurazioni simboliche di Cristo (come il buon pastore) o rappresentazioni di episodi evangelici che lo vedono protagonista (come l'incontro con la donna samaritana o la resurrezione di Lazzaro).
Dell'iniziale diffidenza per le immagini, destinata a essere superata (ma anche a persistere nei vari iconoclasmi), resta comunque traccia nella loro connessione con il paganesimo, nei confronti del quale peraltro il cristianesimo presto supera imbarazzi ed esitazioni. Il legame con gli usi pagani è così esplicitato nelle critiche di Ireneo ed Eusebio, o implicitamente suggerito: come nell'attribuzione a Pilato del ritratto di Gesù ma anche nella Dottrina dell'apostolo Addai, un apocrifo siriaco collocato tra iii e iv secolo che narra di un ritratto di Gesù dipinto dall'archivista di Abgar, re pagano di Edessa (cfr. Écrits apocryphes chrétiens, i, Paris, Gallimard, 1997, 1471-1525), e ancora nell'Exègesis ton prachthènton en Persìdi (Racconto dei fatti persiani, Narratio de rebus Persicis), un testo greco datato tra v e vi secolo che riferisce di un'immagine del piccolo Gesù e di sua madre eseguita da un giovane pittore al seguito dei magi, anch'essi pagani, e da questi portata in Persia (cfr. M. Bacci, La fisionomia di Cristo nelle testimonianze letterarie del Medioevo, in Il volto di Cristo, cit., pp. 33-34). Un'altra soluzione per superare le diffidenze nei confronti delle immagini è quella dell'origine sovrumana delle raffigurazioni di Cristo, che si ritrova in quelle acheropite (cioè non attribuite a mano umana), culminanti nel velo della Veronica e nella stessa Sindone (cfr. H. Belting, Bild und Kult. Eine Geschichte des Bildes vor dem Zeitalter der Kunst, München, Beck, 1990, e Il volto di Cristo, cit.). Ricorrente in molte delle tradizioni accennate - che concorreranno allo sviluppo dell'iconografia cristiana e di una vera e propria teologia delle immagini - è il collegamento con la passione di Cristo, culmine dell'incarnazione del Figlio di Dio e della sua missione di salvezza, mentre tutte sono percorse dal desiderio, inesausto e inesauribile, di contemplarne il volto.
(©L'Osservatore Romano - 18 aprile 2010)