di Umberto Silva
Dagli spalti dei colossei mediatici
il Secolo superbo e sciocco incita
un fiero Papa a chiedere perdono, a
battersi il petto e a esibirsi in gesti di
contrizione sempre più clamorosi.
Piange il Papa, ma agli occhi del Secolo
pare sempre troppo poco; “un po’
di più” – lo si incoraggia – “ancora un
po’”, e tutti a ridere. No, signori, un
Pontefice non s’inchina a chiedere
l’assoluzione, il Secolo non lo merita:
merita un sacco di legnate chi soltanto
negli ultimi decenni vanta qualche
centinaio di milioni di bambini uccisi
o lasciati morire. Il Santo Padre piange,
si vergogna e intanto pensa di che
cosa debba vergognarsi: quel che è accaduto
è complesso e misterioso e la
chiesa non può abbassarsi a spiegazioni
frettolose, che suonerebbero ridicole.
Cosa dire di sacerdoti che molestano
gli stessi che stanno confessando,
stuprano i bambini loro affidati,
danno la comunione a chi due minuti
prima hanno sodomizzato e proibiscono
la masturbazione nel mentre
si masturbano? Difficile dirne qualcosa,
ci vorrebbe la mano di Dostoevskij
e l’occhio di Dreyer, siamo al crocevia
dei cerchi angelici con i gironi infernali,
tra Svidrigajlov, Stavrogin e
Humbert Humbert, ma anche oltre,
come se il santo starec Zosima allungasse
le mani su Alesa Karamazov.
La grandezza della chiesa si estende
anche ai suoi peccati, il barocco è
ovunque, i trompe-l’oeil ti guardano
beffardi; di tutto questo difficile dirne
qualcosa, le chiacchiere del mondo
confondono e distraggono. Dacché il
primo bambino o ex bambino ha osato
dire “il prete è nudo!”, il grido
echeggia dai salotti tivù dove si allestiscono
processi sommari cui partecipa
una varia umanità, e naturalmente
i più accaniti sono tipi che ne
hanno fatte di ogni. Furono perdonati
quando non sapevano quello che facevano
e dicevano, ma sono imperdonabili
ora che credono di saperlo. La
chiesa viene infangata, ma guai a cadere
nella trappola di difenderla, guai
se la chiesa si difende: nell’orto del
Getsemani, incollando l’orecchio al
servo del sommo sacerdote, Cristo l’aveva
detto chiaramente all’iracondo
Simon Pietro. Il lavoro di mozzorecchi
va lasciato ai giustizialisti, gente che
un tempo non faceva la carità ai mendicanti
con la scusa che l’elemosina
rallentava l’avvento della rivoluzione;
gente che ora pensa di essere depositaria
della verità e che mente anche
quando chiede: ‘passami il sale’. Patetico
quindi che il Papa impieghi il suo
tempo a smentire, precisare, promettere,
manco fosse un chierichetto sorpreso
a bere vin santo. Alle feroci accuse
risponda la suprema distanza del
pensiero, lui solo generoso e giusto.
Anche la peggiore efferatezza deve diventare
un’occasione di meditazione e
di parola, limitarsi a condannarla senza
darle un’adeguata lettura è il modo
migliore per reiterarla. La sciatteria
con cui se ne parla e lo sdegnato profluvio
di luoghi comuni offendono le
vittime, il cui dolore esige ben altro.
Troppo facile, innanzitutto, catalogare
il peccato dei preti nella cosiddetta
“pedofilia”. Ah che bella parolina
amorosa e come fila liscia sulla
carne morbida; la si pronuncia con gusto,
giusto per confondere acque già
tanto torbide, che sennò ci si prenderebbe
la pena di chiamarla misopedia,
odio per i bambini. Un po’ di coraggio
almeno, chiamiamo le cose con
il loro nome santocielo, è un’occasione
di chiarezza in una questione già di
per sé così complicata! Perdere un’occasione
è il peccato più triste e frequente,
tanto che rammaricati siamo
soliti esclamare: ‘ah, che peccato!’. Gli
umani sono assai compiaciuti dei peccati
che hanno commesso mentre non
si perdonano quelli che non hanno
commesso: la viltà brucia in eterno.
Ne so qualcosa. La mattina del suo
matrimonio X. e io c’innamorammo.
Audace ma non troppo, la rapinai ma
non la rapii. Per quest’ultima rinuncia
la chiesa mi annovera tra i suoi santi,
io per molti anni mi annoverai tra i
grandi coglioni. Fino a quando, raccontandola
nel mio primo romanzo,
riuscii a trasformare l’occasione perduta
in una mezza riuscita. La viltà è
il motore delle nequizie umane e la
parola il riscatto: oportet ut verba eveniant,
e le parole sono quanto di più
scandaloso. Misopedia quindi il delitto
dei preti, la cui causa è da reperire
nel celibato? Da sempre i preti, proprio
per la loro vicinanza a Dio, sono
assai ricercati dalle donne; state tranquilli
stimati ecclesiofobi, i sacerdoti
hanno molteplici e brillanti opportunità
per soddisfare i morsi della carne.
E neppure il loro crimine concerne,
in prima battuta, la misopedia: la
natura del peccato dei preti è piuttosto
legata al loro stesso essere preti. Il
sacerdote che abusa dei minori si suicida
sopprimendo così quel Dio che è
in ciascuno ma di cui lui si sente lo
scrigno. Una responsabilità di cui è
ansioso di disfarsi, a costo di sfregiare
la Creazione e stuprarne le creature.
Il peccato dei preti è il satanismo, ecco
perché le scienze illuminate a poco
servono mentre funzionano quelle occulte.
Al centro della scena ricompare
un personaggio che la chiesa negli
ultimi tempi ha ampiamente riabilitato,
presaga forse della sventura imminente:
il Diavolo. Chi altri può indurre
un uomo di Dio a compiere l’atto
più blasfemo, stuprare quel bambino
della cui innocenza dovrebbe essere
l’angelo custode a costo della sua stessa
vita? Il Diavolo. Ma chi è il Diavolo?
L’uomo che tale si rivela a se stesso
in una macabra epifania: “Ecco chi
sei, prete! Tu sei tutto quello che hai
fino ad ora combattuto, questo tu sei!”.
Ciò ben poco ha da spartire con il sadico
sporcaccione che va ai tropici a
caccia di bambini: costui di Dio se ne
sbatte. Ben altra è la consapevolezza
del prete: sa che quel bambino che offende
è Gesù Bambino, Dio nel momento
in cui per amore si consegnò
inerme nelle mani dell’uomo.
Cosa spinge quel prete a un atto così
blasfemo, a tradire quanto di più sacro?
Non i trenta denari e nemmeno i
tremila, anzi prima o poi ogni credito
gli sarà tolto. E’ Giuda che fa suo l’estremo
grido di Cristo e accusa Dio
d’averlo abbandonato, accusa la chiesa
di non averlo ascoltato. Per questa
mancanza, vera o presunta che sia, si
abbandona alla vendetta; avrebbe potuto
gettare la tonaca invece se la tiene
ben stretta, che s’imbratti tutta, che
i sacri paramenti dicano del torto che
pensa gli sia stato fatto. Per vendicarsi
di Dio Padre e della Madre Chiesa
distrugge tutto quel che ha creato ma
che non sente suo e si presenta nudo,
avvolto solo nella sua empietà. Che vedano
il suo fallimento, che capiscano
che è anche il loro, che tremino, che
non dormano più sonni tranquilli. Che
muoiano e lo seguano all’inferno. Ma
c’è anche una supplica: “Dio fermami!”,
grida dentro di sé il prete che come
Abramo sul monte si appresta a
scannare il figlio; “Io sto uccidendo in
Tuo nome e ti chiedo di mandare l’angelo
a fermarmi”. L’angelo è la chiesa,
se non lo ferma è complice. L’accusa
che il prete muove a Dio è potente: la
chiesa non ha inteso che il desiderio
di quel suo figliolo era altro, che non
era pronto a divenire Padre. Non ha
inteso o, per un suo tornaconto, non
ha voluto intendere, nemmeno ora
che il figlio l’ha detto nel modo più orrendo
ma lampante; fa orecchio da
mercante e gli risponde che sì, lo sarai
Padre un giorno, devi solo avere pazienza
e chiedere perdono. Come certe
mogli che nemmeno davanti al marito
con la pistola puntata vogliono arrendersi
all’evidenza.
Il figlio ribelle a un destino che non
ritiene suo e vuole a tutti i costi credere
che gli sia stato imposto, è il figlio
che non vuole incontrare il Padre,
l’autorità e l’impegno che tale statuto
comporta. Ma c’è anche un altro caso,
il figlio che vuole diventare il Padre, e
a tal fine si getta con entusiasmo nell’impresa
sacerdotale, per poi rovinosamente
soccombere. Sacerdoti distintisi
per generosità e capacità tali
da suscitare moti entusiastici di speranza
e di amore che a un certo punto,
al vertice della loro gloria, decidono
di annientare tutto ciò che hanno
creato. Che dire di questo misterioso
evento? Dai tempi dei tempi ci soccorre
il Libro dei Libri: “Tu eri un modello
di perfezione, pieno di sapienza,
perfetto in bellezza. Eri come un cherubino
ad ali spiegate a difesa; io ti posi
sul monte santo di Dio, e camminavi
in mezzo a pietre di fuoco. Perfetto
tu eri nella tua condotta, da quando
sei stato creato, finché fu trovata in te
l'iniquità. Crescendo i tuoi commerci
ti sei riempito di violenza e di peccati;
io ti ho scacciato dal monte di Dio e ti
ho fatto perire, cherubino protettore,
in mezzo alle pietre di fuoco”. Come si
diventa Lucifero? Non nascono angeli
o diavoli gli umani, anche se qualche
buontempone starà scoprendo il “gene
del pedofilo”. Ci sono preti che diventano
angeli combattendo la mafia,
fondando comunità, costruendo ospedali;
salvano i bambini e Dio per questo
li ama. Sennonché alcuni di loro,
per l’idea d’essersi avvicinati troppo
al supremo Creatore e, forse, d’averLo
addirittura superato, sono travolti da
quel senso di colpa che accompagna
ogni impresa audace… che tuttavia
non è abbastanza audace se a quel
senso non sorride, come a un annuncio
di gloria. Inascoltato, il senso di
colpa diverrà oppressivo, un angoscioso
sentimento di colpevolezza che
per allentare la presa esigerà una preda;
esigerà che nel reale ci si procuri
una colpa che dia un senso al tutto. E’
il sentimento di colpevolezza a provocare
il delitto, e non viceversa; sentendosi
diavolo lo si diventa.
Tutto questo avviene in un isolemento
spaventoso: tutti vediamo il
prete dibattersi nella sua angoscia e
non muoviamo un dito. Ci accontentiamo
di applaudirlo festosi, riversiamo
su di lui i nostri tormenti, i peccati
e le impotenze, riempiendolo di
un’esplosiva onnipotenza. E può accadere
che il sacerdote scambi la riconoscenza
per riconoscimento, sentendosi
Dio. Alla fine la colpa è solo della
chiesa. La colpa è sempre di chi fa,
di chi si sporca le mani. E questo secondo
caso è il più terribile, perché
davvero Lucifero era una grande promessa,
un portatore di luce. Il prete
creatore si fa distruttore ma, preda
dell’onnipotenza, non rinuncia alla
creazione, non si denuncia né abdica,
né passa a un dichiarato brigantaggio;
in un ermafroditismo spirituale egli
sarà entrambe le cose, angelo e diavolo
al contempo. Si aprono così scene
grottesche e tormentose di autopunizioni
e autoassoluzioni. Nessuna compensazione
tuttavia di bene e di male,
tutt’altro, la bilancia pende a precipizio
verso l’inferno. Non solo, infatti, gli
ermafroditi distruggono il bene ma
tolgono la speranza, insinuando il
dubbio letale che il bene altro non sia
che la maschera del male. Ma se nel
padre che ami può nascondersi il Diavolo,
se le sue carezze affettuose possono
essere l’inizio della molestia, se
il suo premuroso accompagnarti al bagno
quando ti scappa la pipì può degenerare
in stupro, la vita tutta diventa
un inferno. Il non potere distinguere
l’amico dal nemico è l’inferno, una
folie de doute che porta al marasma.
Collassato il pater certus, l’io si rifiuterà
di crescere. Oppure, per superare
l’angoscia e in qualche modo sopravvivere,
il bambino si costringerà
ad abbandonare ogni illusione, aggrappandosi
alla sicurezza di un peggio
che peggio di così non è possibile.
Si affiderà al Diavolo, a costo d’inventarlo.
“Il mondo è questo, signori miei,
restituite pure il biglietto se non vi
va!”– esorta Satana con il più convincente
degli argomenti: i bambini non
hanno speranza dal momento che i loro
migliori amici sono i loro peggiori
nemici. La speranza i bambini l’hanno
solo se un Padre esiste.
Che fare in tanto sconcerto? Progettare,
pensare, senza soffermarsi a rimuginare
e ad accusare. Nel frattempo,
essendo caduta in gran sospetto la
figura del padre, sicché perfino i migliori
si teme siano in realtà loschi
demòni en travesti, è opportuno sostituire
al Credo in Onnipotentem Patrem
qualcosa di meno trionfante e
proprio per questo più accettabile
dalle menti turbate. Penso al geniale
motto di Tertulliano “credo quia absurdum”
quale purgatoriale spiaggia
di una chiesa messa alle corde dal
buon senso. Il buon senso m’innervosisce.
Ho sempre pensato che un verbo
assurdo come ‘credo’ debba trovarsi
come partner qualcosa di altrettanto
absurdum: la chiesa prospera nel
mistero e lì i fedeli devono rifugiarsi.
Almeno per un po’, fino a quando il
grande e tragico Benedetto XVI, l’inquisitore
inquisito, il fustigatore fustigato,
avrà espiato i peccati della chiesa
permettendo al suo successore di
raccogliere con fierezza la lacera ma
gloriosa bandiera.
© Copyright Il Foglio 21 aprile 2010