DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Il minuscolo combattente. La storia del bambino abortito e sopravvissuto due giorni a Rossano Calabro, le domande dei medici e i limiti della legge.

di Nicoletta Tiliacos
Il cappellano dell’ospedale va a pregare
sul corpicino di un bambino
abortito il giorno prima (un aborto
“terapeutico” tardivo, alla ventiduesima
settimana di gravidanza). Lo trova
su un carrellino, in un angolo appartato
del reparto maternità, coperto da
un lenzuolino sanitario. Il lenzuolino
si muove. Il prete lo spalanca, e quando
vede che il bambino respira – addirittura
sgambetta – chiama aiuto con
tutta la voce che ha. Sembra l’inizio di
un cupo romanzo d’appendice, il racconto
molte volte ripetuto in questi
giorni da don Antonio Martello, cappellano
dell’ospedale civile Nicola
Giannettasio di Rossano Calabro, in
provincia di Cosenza. Ma non è un romanzo
d’appendice. E’ solo cronaca
brutale e senza lieto fine, è la storia
del breve passaggio tra i vivi di un
bambino maschio, abortito da una madre
alla sua prima gravidanza, dopo
un’ecografia – una sentenza capitale –
che mostrava una malformazione nel
nascituro. Forse un difetto genetico
del labbro e del palato, è stato scritto.
Quel bambino senza nome, trecento
grammi di peso, è sopravvissuto
due interi giorni all’aborto. Il primo
giorno da solo, dato per morto, ancora
sporco del sangue placentare che nessuno
si cura di lavar via dal corpo di
un feto abortito. Il secondo giorno nell’incubatrice
del reparto di terapia intensiva
neonatale dell’ospedale dell’Annunziata
di Cosenza, dove è stato
portato dopo l’allarme del cappellano.
Don Antonio Martello parla al Foglio
con prudenza (“sono testimone nell’inchiesta”,
spiega) ma conferma che
sui tempi non ci possono essere dubbi:
“L’intervento di interruzione di
gravidanza è avvenuto alle tredici e
trenta di sabato 24 aprile, e io sono salito
in maternità domenica alle undici,
quasi ventiquattro ore dopo. Quando
ho chiamato aiuto e sono arrivati
un pediatra e l’anestesista, che hanno
praticato le prime cure, hanno constato
a loro volta che il bambino respirava,
che si muoveva, che il cuore batteva”.
Qualcuno s’è forse fatto prendere
la mano dal romanzo d’appendice, ed
era circolata la voce che il sacerdote
fosse stato avvisato in confessione di
qualcosa di anomalo in atto nel reparto
maternità del Giannettasio. Don
Martello nega: “Ma no, sono stato solo
avvisato, come è successo altre volte,
del fatto che un bambino era stato
abortito. Io vado sempre a pregare
per i bambini abortiti e per i nati morti.
Adesso, per esempio, arrivo dall’obitorio,
dove ho benedetto un settimino
nato morto. I genitori, disperati,
hanno chiesto l’autopsia. Ma quello
che ho visto accadere domenica scorsa
non mi era mai capitato prima”.
Come è stato possibile? A ventidue
settimane, dicono i neonatologi, non
sgambetta nessuno, e i segnali di vitalità
sono così minimi che può riconoscerli
solo un esperto. Un bambino di
ventidue settimane di norma non ha
gli alveoli polmonari, l’aria non può
entrargli nei polmoni e quindi non potrebbe
respirare da solo, senza aiuto e
senza essere accudito e soccorso. Non
per un intero, lunghissimo giorno, ma
nemmeno per un’ora. Tanto che, quando
incombe un parto (nel caso di un
parto) così prematuro, per aumentare
le speranze che il bambino sopravviva
bisogna somministrare cortisone alla
mamma nelle ore precedenti il parto,
Il cortisone aiuta il nascituro a sviluppare
i polmoni, nei quali va messa subito
una sostanza particolare che li fa
dilatare e favorisce la respirazione.
Claudio Fabris, direttore della cattedra
di Neonatologia dell’Università
di Torino, che ha sede all’ospedale
Sant’Anna, e presidente della Società
italiana di neonatologia fino al 2009,
spiega che “proprio in considerazione
della pur labile possibilità di sopravvivenza
a ventidue settimane gestazionali,
molte aziende sanitarie, compreso
l’ospedale Sant’Anna, si sono date
regolamentazioni interne che vietano
gli aborti terapeutici dopo quel periodo”.
La stessa cosa succede dal 2004,
per esempio, alla clinica Mangiagalli
di Milano, anche se sia il Tar sia il
Consiglio di stato hanno respinto l’atto
di indirizzo della Lombardia che voleva
garantire in tutti gli ospedali della
regione il limite di ventidue settimane
e tre giorni come termine massimo per
praticare l’aborto. Dice ancora il professor
Fabris che “ancora sei o sette
anni fa, la sopravvivenza a ventidue
settimane gestazionali non esisteva.
Oggi succede, raramente ma succede.
Il censimento nei reparti italiani di terapia
intensiva neonatale aveva registrato,
nel 2005, cinque nati vivi di ventidue
settimane senza nessun sopravvissuto.
Nel 2006 erano stati dieci con
un sopravvissuto. Nel 2007, nessun sopravvissuto
su tredici nati, mentre nel
2008 c’è stata una sopravvivenza del
dodici per cento su quarantuno nati di
ventidue settimane. Come si vede, i numeri
sono estremamente esigui. Ma
abbiamo l’obbligo di trattare il neonato
in estrema prematurità come qualsiasi
persona in condizioni di rischio e
dobbiamo assisterlo adeguatamente”.
La cosa, piaccia o no, vale anche
per i bambini abortiti quando già potrebbero
sopravvivere, ed è proprio
questo (lo ha dimostrato da solo) il caso
del bambino di Rossano Calabro.
Non c’è bisogno di interpretazioni ardite
o tendenziose. La legge 194 sull’aborto
dice che “quando sussiste la
possibilità di vita autonoma del feto,
l’interruzione della gravidanza può
essere praticata solo nel caso di cui alla
lettera a) dell’articolo 6 (cioè quando
la gravidanza o il parto comportino
un grave pericolo per la vita della
donna, ndr) e il medico che esegue
l’intervento deve adottare ogni misura
idonea a salvaguardare la vita del feto”.
Dunque, se c’è possibilità di vita
autonoma del feto – e a ventidue settimane
quella possibilità esiste, sia pure
in un numero limitato di casi di una
casistica già estremamente limitata –
l’unica circostanza in cui sarebbe lecito
procedere all’interruzione di gravidanza
è in presenza di un grave pericolo
di vita per la madre (non basta un
generico pericolo per la salute fisica e
psichica, come avviene per l’aborto fino
alla dodicesima settimana) e comunque
va garantito il tentativo di
salvare la vita del bambino.
Quindi, se pure l’interruzione della
gravidanza non fosse evitabile perché
ne va della vita della madre, rimane il
dovere, i medici che eseguono l’intervento
sono tenuti ad “adottare ogni
misura idonea a salvaguardare la vita
del feto”. E’ scritto nella legge, che
non ha messo limiti temporali precisi
proprio per lasciare spazio a progressi
medici che di anno in anno possono
rendere possibile una sopravvivenza
un tempo impensabile. Un documento
firmato nel febbraio del 2008 dai direttori
delle cliniche di Ostetricia e
Ginecologia delle facoltà di Medicina
delle quattro università romane (La
Sapienza, Tor Vergata, la Cattolica e il
Campus Biomedico), afferma che “con
il momento della nascita la legge attribuisce
la pienezza del diritto alla vita
e, quindi, all’assistenza sanitaria”. Significa
che se un feto nasce vivo dopo
un’interruzione di gravidanza, il neonatologo
deve intervenire per rianimarlo,
“anche se la madre è contraria,
perché prevale l’interesse del neonato”.
La madre, naturalmente, ha tutto
il diritto di abbandonare il neonato alla
nascita (diritto garantito dalla legge)
ma il personale sanitario ha il dovere
di assistere il bambino abortito,
quando può sopravvivere.
Potrebbe esserci stato un errore nel
valutare l’età gestazionale, nel caso
del bambino di Rossano, aggrappato
da solo alla vita per un giorno? Potrebbe,
certo. Fabris pensa che “la
precisa valutazione dell’epoca gestazionale
sia estremamente difficile, anche
se ora le ecografie la rendono più
attendibile. E un margine di errore di
quattro-cinque giorni può essere non
importante ma, addirittura, fondamentale
per spiegare la sopravvivenza
di quel bambino”. Una volta tanto,
si può concordare anche con il ginecologo
Carlo Flamigni, sostenitore dell’aborto
come diritto assoluto eppure
convinto – lo ha detto ieri in un’intervista
– che “è stato commesso un errore:
non si pratica un’interruzione di
gravidanza alla ventiduesima settimana.
Esiste il rischio che il feto sopravviva”.
A parte quel “rischio” riferito
alla sopravvivenza del bambino (niente
a confronto del Corriere della Sera,
che del caso di Rossano ha scritto che
“la madre si era dovuta sottoporre all’aborto”:
proprio così, “dovuta”), e a
parte il resto delle considerazioni di
Flamigni, che se la prende con “i medici
obiettori” e con il solito Vaticano,
la sostanza è chiara. Quell’aborto, pure
fosse stato indispensabile per preservare
la madre da un pericolo di vita,
doveva avvenire in una struttura
capace di soccorrere il feto (ma se lo
chiamassimo “bambino”, una volta
per tutte? Due giorni di permanenza
su questo mondo, il primo dei quali
aggrappato da solo con il suo povero
respiro alla vita, gli dà ben diritto a
essere chiamato così). Quella capacità
di soccorso forse al Nicola Giannettasio
non c’era (manca certamente la terapia
intensiva neonatale, presente
invece a Cosenza). Ma, allora, si può
dire che quella struttura non doveva
essere abilitata a effettuare un aborto
a ventidue settimane gestazionali?
Le cose saranno chiarite (forse) sia
dall’inchiesta avviata dall’autorità
giudiziaria (sono già stati emessi avvisi
di garanzia per omicidio volontario
a carico di un medico e di due infermieri)
sia dagli ispettori inviati dal ministero
della Salute – cominceranno a
lavorare solo lunedì – sia dalla risposta
a un’interrogazione parlamentare,
il cui disbrigo è stato rinviato alla
prossima settimana, quando si capirà
qualcosa di più. Si chiarirà (forse) se
c’è stato un errore nel calcolo dell’età
gestazionale. E dall’autopsia (in corso
anche oggi, al Policlinico di Bari) si
capirà di che natura fosse la malformazione
che ha condannato il piccolo
di Rossano a essere abortito. Si capirà
se quel difetto fosse una semplice palatoschisi
– fenditura più o meno estesa
della parte anteriore del palato duro,
a volte accompagnata da labbro leporino,
che colpisce una persona su
mille e che si presta nella maggior
parte dei casi a essere trattata chirurgicamente
– o se si trattava di qualcosa
di molto più grave, di cui la malformazione
evidente è solo una spia.
Anche se, bisogna ricordarlo, in Italia
l’aborto per motivi eugenetici è
proibito dalla legge: la disabilità, anche
gravissima, del nascituro, non costituisce
da sola ragione per l’aborto a
quell’avanzata età gestazionale. Un
aborto a ventidue settimane significa
che un bambino atteso è diventato all’improvviso
un indesiderabile. E’ azzardato
immaginare il panico della
coppia di futuri genitori, di fronte all’idea
che quel bambino – il primo, oltretutto,
con tutte le aspettative del caso
– potesse essere “difettoso”, addirittura
“mostruoso”? Quanto pesa, in
vicende di cui la brutta storia dell’ospedale
di Rossano è solo l’espressione
più tragica e inaccettabile, l’idea
che la salute promessa e garantita del
figlio sia condizione indispensabile
per attribuire al figlio stesso il diritto
a nascere? Quanta paura, quanto terrore
sono seminati dalle indagini prenatali
sempre più sofisticate, sempre
più ineludibili e non raramente fallaci?
Il genetista Bruno Dallapiccola,
che da poco è stato nominato direttore
scientifico dell’Ospedale pediatrico
romano Bambino Gesù dopo aver
diretto per molti anni l’Istituto Mendel,
ci spiega che “andrebbe garantita
un’informazione misurata sulle possibili
implicazioni di una patologia rilevata
ecograficamente. Nella mia personale
esperienza – parlo di migliaia
di casi – l’ottanta per cento delle patologie
trovate ecograficamente, dopo
una consulenza genetica competente
si rivelano del tutto compatibili con la
normalità del nascituro. Bisogna dare
informazioni oneste, sia se ci si trova
di fronte a situazioni davvero gravi,
sia negli altri casi. Ma la medicina è
fondamentalmente vile: non tutti azzardano
di mettere nero su bianco che
non ci saranno i problemi paventati
per il bambino dopo un’ecografia. Il
problema è: chi informa davvero gli
ecografisti? Che tipo di accompagnamento
dei genitori possono garantire,
per aiutarli a decidere? Le parole sono
sassi. Da me le coppie arrivano terrorizzate,
con diagnosi quasi sempre,
per fortuna, senza conseguenze vere”.
“Non si registra più, o si registra
sempre meno, una vera resistenza individuale
e sociale alla paura del figlio
imperfetto”, commenta Roberto
Volpi, statistico ed esperto di questioni
sanitarie. Secondo lui, l’Italia è
messa piuttosto male, sotto questo
aspetto, complice “l’autentico battage
pubblicitario, sviluppato con intensità
sempre crescente, attorno alle tecniche
invasive di diagnosi prenatale (soprattutto
l’amniocentesi e la villocentesi)
con cui si tende da parte della
medicina a convincere della loro necessità
anche le donne sotto i trent’anni
con rischio pressoché nullo di anomalia
genetica. Questa ‘necessità’ non
può non esser vissuta, infatti, da strati
sempre più ampi di donne investite in
pieno da un tale battage, come la prova
provata della corrispondente necessità
di evitare sempre e comunque,
quando il difetto o l’anomalia siano
diagnosticabili, la nascita di bambini
con questi difetti e anomalie”.
La notizia della vicenda di Rossano,
di quel minuscolo combattente di un
giorno abbandonato su un carrello
metallico dopo un aborto, è arrivata
ieri sul sito della Cnn, e anche in Gran
Bretagna, sul Dailynews online. “Vogliamo
sapere che cosa è successo –
dice al Foglio l’attivista pro-life Josephine
Quintavalle – perché quel
bambino sopravvissuto in condizioni
terribili può aiutarci a combattere la
nostra battaglia per ottenere che il limite
per l’aborto su semplice richiesta,
in Inghilterra, scenda almeno da
ventiquattro a venti settimane”.

© Copyright Il Foglio 30 aprile 2010