DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Interessante disputa tra Mons. Charles J. Chaput Vescovo di Denver ed il Prof. Diotallevi


LA VOCAZIONE DEI CRISTIANI NELLA VITA PUBBLICA AMERICANA

di Charles J. Chaput



Una delle ironie nel mio discorso di stasera è questa. Sono un vescovo cattolico, che parla a un'università battista nel cuore protestante dell'America. Ma sono stato accolto con più calore e amicizia di quanta ne possa trovare in tanti luoghi cattolici. Questo è un fatto che merita di essere discusso. Vi tornerò verso la fine della mia conferenza. [...]

Prima di dedicarmi alla sostanza della nostra discussione mi preme avvertirvi di tre cose.

La prima è questa: i miei pensieri di questa sera sono strettamente miei personali. Non parlo a nome della Santa Sede, o dei vescovi americani, o della comunità cattolica di Houston. Nella tradizione cattolica, il vescovo locale è il primo proclamatore e maestro della fede e il pastore della Chiesa locale. Qui a Houston avete un vescovo di valore – un uomo di grande fede e intelletto cristiani – nel cardinale Daniel DiNardo. In tutto ciò che è cattolico questa sera, sono felice di rispettare la sua guida.

La mia seconda avvertenza è quest'altra: sono qui come cattolico americano e come cittadino americano, in quest'ordine. Entrambe queste identità sono importanti. Non devono confliggere. Ma neppure sono la stessa cosa. E non hanno il medesimo peso. Io amo il mio paese. Apprezzo lo spirito dei suoi documenti fondanti e delle sue pubbliche istituzioni. Ma nessuna nazione, nemmeno quella che amo, ha diritto alla mia acquiescenza, o al mio silenzio, nelle materie che appartengono a Dio o che minano la dignità della persona umana che Egli ha creato.

Il mio terzo avvertimento è che i cattolici e i protestanti hanno memorie differenti della storia americana. Lo storico Paul Johnson una volta scrisse che l'America "è nata protestante" (1). Questo è sicuramente vero. Quale che sia o diventi l'America di oggi o di domani, la sua origine è profondamente modellata da uno spirito cristiano protestante, e il frutto di questo spirito è stato, tirate le somme, una grande benedizione per l'umanità. Ma è anche vero che, sebbene i cattolici siano sempre stati presenti e in crescita negli Stati Uniti, essi hanno vissuto per due secoli subendo discriminazioni, fanatismo religioso e violenze intermittenti. I protestanti naturalmente ricorderanno le cose in un modo un po' differente. Ricorderanno la persecuzione cattolica dei dissenzienti in Europa, gli intrecci tra la Chiesa romana e i poteri statali, le diffidenze papali nei confronti della democrazia e della libertà religiosa.

Non possiamo cancellare queste memorie. E non possiamo – né dobbiamo – voltar pagina sulle questioni che ancora ci dividono come credenti in termini di dottrina, di autorità e di concezione della Chiesa. Un ecumenismo basato sulle buone maniere invece che sulla verità è vuoto. È anche una forma di menzogna. Se condividiamo l'amore di Cristo e vincoli familiari nel battesimo e nella Parola di Dio, allora a un livello fondamentale noi siamo fratelli e sorelle. I membri di una famiglia si scambiano gli uni e gli altri più che una cortesia di superficie. Noi ci scambiamo gli uni e gli altri quel tipo di rispetto fraterno che "dice la verità nell'amore" (Efesini 4, 15). Inoltre urge scambiarci gli uni e gli altri solidarietà e sostegno nell'affrontare una cultura che sempre più irride la fede religiosa in generale e la fede cristiana in particolare. E questo mi porta al cuore di ciò che vi voglio dire.

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Il nostro tema di questa sera è la vocazione del cristiano nella vita pubblica americana. È un tema piuttosto ampio. Tanto ampio che vi ho scritto un libro. Questa sera voglio concentrarmi in modo speciale sul ruolo dei cristiani nella nostra vita civile e politica. La parola chiave della nostra discussione sarà "vocazione". Essa viene dalla parola latina "vocare", che significa "chiamare". I cristiani credono che Dio chiama ciascuno di noi singolarmente, e tutti noi come comunità credente, a conoscerlo, amarlo e servirlo nelle nostre vite quotidiane.

Ma c'è di più. Egli ci chiede anche di fare discepoli in tutte le nazioni. Ciò significa che abbiamo il dovere di predicare Gesù Cristo. Abbiamo il mandato di propagare il suo Vangelo di verità, misericordia, giustizia e amore. Queste sono parole di missione, parole di azione. Non sono facoltative. Hanno conseguenze pratiche sul modo in cui pensiamo, parliamo, facciamo scelte e viviamo le nostre vite, non solo a casa ma sulla pubblica piazza. L'autentica fede cristiana è sempre personale, ma non è mai privata. E dobbiamo riflettere su questo semplice fatto alla luce di un particolare anniversario.

Nell'autunno di cinquant'anni fa, nel settembre del 1960, il senatore John F. Kennedy, candidato democratico alla presidenza, parlò alla Greater Ministerial Association di Houston. Aveva un obiettivo: doveva convincere 300 pastori protestanti piuttosto diffidenti, e il paese nel suo insieme, che un cattolico come lui era in grado di servire con lealtà come capo supremo della nostra nazione. Kennedy convinse il paese, se non proprio i pastori, e riuscì ad essere eletto. E il suo discorso lasciò un'impronta durevole nella politica americana. Fu sincero, convincente, argomentato... e sbagliato. Non sbagliato sul patriottismo dei cattolici, ma sbagliato sulla storia americana e ancor più sul ruolo della fede religiosa nella vita della nostra nazione. E non fu semplicemente "sbagliato". Il suo discorso di Houston minò dalle fondamenta il ruolo non solo dei cattolici, ma di tutti i credenti religiosi, nella vita pubblica e nello spazio politico dell'America. Oggi, mezzo secolo dopo, ancora paghiamo quel danno.

Queste parole suonano dure? Allora cercherò di spiegarle in tre modi. Anzitutto voglio guardare al problema stando a ciò che Kennedy disse realmente. In secondo luogo voglio riflettere su quale può essere un approccio propriamente cristiano alla politica e al pubblico servizio. E da ultimo voglio esaminare dove ci ha portati il discorso di Kennedy. In altre parole: la situazione reale entro cui ci troviamo oggi, e ciò che i cristiani devono fare in questa realtà.

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John Kennedy era un grande oratore. Ted Sorensens, che aiutò a comporre il discorso di Houston, era uno scrittore di talento. Di conseguenza, è facile leggere al volo le tesi di Kennedy a Houston come un appassionato appello alla tolleranza. Ma il testo ha almeno due grosse falle (2). La prima è politica e storica. La seconda è religiosa.

All'inizio della sua esposizione, Kennedy disse: "Io credo in un'America nella quale la separazione tra Chiesa e Stato è assoluta". Posta la diffidenza storicamente presente nei confronti dei cattolici nel nostro paese, le sue parole furono scelte con accortezza. Peccato che la Costituzione americana non dica questo. I Padri Fondatori non credevano in questo. E la storia degli Stati Uniti lo smentisce. Diversamente dai capi rivoluzionari in Europa, i fondatori della nazione americana guardavano con favore alla religione. Molti erano personalmente credenti. Di fatto, uno dei motivi principali per cui fu scritta la clausola del Primo Emendamento che vieta ogni sostegno federale a una Chiesa, fu che diversi padri della Costituzione vollero proteggere le Chiese protestanti sostenute da fondi pubblici che già si erano stabilite nei loro Stati. John Adams davvero preferì un "dolce ed equo stabilimento della religione" e aiutò a includere questo nella Costituzione del 1780 del Massachusetts (3).

I fondatori dell'America incoraggiarono il mutuo supporto tra religione e governo. Le loro ragioni erano pratiche. Nella loro visione, una repubblica come gli Stati Uniti ha bisogno di un popolo virtuoso per sopravvivere. La fede religiosa, correttamente vissuta, forma un popolo virtuoso. Quindi il moderno, drastico, concetto di "separazione tra Chiesa e Stato" ha avuto scarso peso nella coscienza americana fino a quando il giudice Hugo Black lo tirò fuori da una lettera privata che il presidente Thomas Jefferson aveva scritto nel 1802 alla Danbury Baptist Association (4). Il giudice Black usò poi la frase di Jefferson nella sentenza della corte suprema Everson v. Board of Education, nel 1947.

La data di questa sentenza della corte è importante, poiché un anno dopo – nel 1948 – i vescovi cattolici americani scrissero una splendida lettera pastorale intitolata "Il cristiano in azione". Essa merita di essere letta. In quella lettera, i vescovi fecero due cose. Sostennero con forza la democrazia americana e la libertà religiosa. E anche contestarono con forza la logica del giudice Black nella sentenza Everson.

I vescovi scrissero che "sarebbe una completa distorsione della storia e del diritto americani" spingere le pubbliche istituzioni della nazione verso una "indifferenza verso la religione e una esclusione di cooperazione tra religione e governo". Respinsero il rigido nuovo concetto del giudice Black di separazione tra Chiesa e Stato come "parola d'ordine del laicismo dottrinario" (5). E i vescovi argomentarono la loro posizione sulla base dei fatti della storia americana.

Ricordare stasera questi pronunciamenti pastorali ha valore per questo: Kennedy citò la lettera dei vescovi del 1948 nel suo discorso di Houston. Volle dimostrare il profondo sostegno cattolico alla democrazia americana. E giustamente. Omise però di menzionare che gli stessi vescovi, nella stessa lettera, ripudiavano la nuova e radicale dottrina della separazione che egli stava predicando.

Il discorso di Houston creò anche un problema religioso. A suo merito, Kennedy disse che, se i suoi compiti come presidente "mi chiedessero di violare la mia coscienza o di violare l'interesse nazionale, io rinuncerei alla mia carica". Avvertì anche che "non rinnegherei le mie convinzioni o la mia Chiesa al fine di vincere queste elezioni". Ma nei suoi effetti il discorso di Houston fece esattamente questo. Diede inizio al progetto di alzare un muro tra la religione e il processo del governare in una forma nuova e aggressiva. Divise le credenze private della persona dai suoi compiti pubblici. E collocò "l'interesse nazionale" sopra e contro "le pressioni o i precetti religiosi esterni".

Al suo uditorio di pastori protestanti, l'insistenza di Kennedy sulla coscienza personale può essere suonata familiare e rassicurante. Ma ciò che Kennedy fece in realtà, secondo lo studioso gesuita Mark Massa, fu qualcosa di estraneo e di nuovo. Egli "secolarizzò la presidenza americana al fine di conquistarla". In altre parole, "proprio perché Kennedy non apparteneva alla corrente dominante della religiosità protestante che aveva creato e sostenuto le 'strutture di plausibilità' della cultura politica americana almeno a partire da Lincoln, egli dovette 'privatizzare' le credenze religiose presidenziali – incluse specialmente le proprie – al fine di conquistare questa carica" (6).

Nella visione di Massa, il modello di secolarità proposto dal discorso di Houston "rappresentò una quasi totale privatizzazione del credo religioso: una privatizzazione così spinta che degli osservatori religiosi sia di parte cattolica che di parte protestante discussero le sue evidenti implicazioni ateistiche per la vita e l'azione pubblica". E l'ironia – anch'essa rilevata da Massa – è che alcune di quelle stesse persone che in pubblico si dicevano in ansia per la fede cattolica di Kennedy, ottennero un risultato molto diverso da quello che si aspettavano. In effetti, "lo stesso sollevare la questione cattolica aprì decisamente la strada verso una secolarizzazione dello spazio pubblico americano, privatizzando le credenze personali. Proprio lo sforzo di 'salvaguardare' l'aura religiosa [essenzialmente protestante] della presidenza... contribuì in modo significativo alla sua secolarizzazione".

Cinquant'anni dopo il discorso di Houston, abbiamo cattolici in cariche pubbliche nazionali più numerosi che in passato. Ma io mi chiedo se ne abbiamo mai avuti anche solo alcuni che possano coerentemente spiegare come la loro fede ispiri le loro opere, o almeno si sentano obbligati a provarci. La vita del nostro paese non è più "cattolica" o "cristiana" di quanto lo fosse cento anni fa. Di fatto si può pensare che lo sia di meno. E almeno uno dei motivi è il seguente: troppi cattolici confondono le loro opinioni personali con una reale coscienza cristiana. Troppi vivono la loro fede come se fosse un'idiosincrasia privata: una cosa che non permetteranno mai diventi una seccatura per gli altri. E troppi semplicemente non credono. Forse negli ambienti protestanti è diverso. Ma spero che mi perdoniate se dico: "Ne dubito".

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John Kennedy non creò le tendenze nella vita americana che ho appena descritto. Ma, almeno per i cattolici, il suo discorso di Houston chiaramente le alimentò. Il che mi porta al secondo punto del mio discorso: quale può essere un approccio propriamente cristiano alla politica? John Courtney Murray, lo studioso gesuita che parlò così intensamente della dignità della democrazia americana e della libertà religiosa, una volta scrisse: "Lo Spirito Santo non discende sulla Città dell'Uomo in forma di colomba. Viene solo nell'energia senza fine dello spirito di giustizia e di amore che abita nell'uomo della Città, il laico" (7).

Ecco cosa ciò significa. Il cristianesimo non riguarda prevalentemente – o almeno in misura significativa – la politica. Riguarda il vivere e diffondere l'amore di Dio. E l'impegno politico cristiano, quando c'è, non è mai prevalentemente il compito del clero. Questo compito appartiene ai laici credenti che vivono nel modo più pieno nel mondo. La fede cristiana non è una lista di precetti etici o di dottrine. Non è un insieme di teorie sulla giustizia sociale ed economica. Tutte queste cose hanno il loro posto. Tutte possono essere importanti. Ma la vita cristiana comincia in una relazione con Gesù Cristo; e porta frutti di giustizia, misericordia e amore che noi mostriamo agli altri a motivo di questa relazione.

Gesù disse: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti" (Matteo 22, 37-40). Questa è la prova della nostra fede, e senza una passione per Gesù Cristo nei nostri cuori che modelli le nostre vite, il cristianesimo è solo un gioco di parole e una leggenda. Una relazione ha delle conseguenze. Un uomo sposato impegnerà se stesso a certe azioni e comportamenti, non importa ciò che costano, se non per l'amore che porta per la propria sposa. La nostra relazione con Dio è la stessa. Dobbiamo vivere e provare il nostro amore con le nostre azioni, non solo nelle nostre vite personali e familiari, ma anche nello spazio pubblico. Di conseguenza i cristiani come singoli e la Chiesa come comunità credente si impegnano a livello politico come per un comandamento della Parola di Dio. La legge umana insegna e forma così come pone delle regole; e la politica umana è l'esercizio del potere: il che significa che entrambe hanno implicazioni morali che il cristiano non può ignorare, se vuol rimanere fedele alla sua vocazione come luce per il mondo (Matteo 5, 14-16).

Robert Dodaro, sacerdote e studioso agostiniano, ha scritto un bel libro pochi anni fa intitolato: "Cristo e la società giusta nel pensiero di Agostino". In questo libro e altrove, Dodaro fissa in alcuni punti chiave la visione di Agostino del cristianesimo e della politica (8).

Anzitutto, Agostino non ha mai realmente prodotto una teoria politica, e il motivo c'è. Egli non crede che l'essere umano possa conoscere o creare una giustizia perfetta in questo mondo. Il nostro giudizio è sempre segnato dalla nostra condizione di peccatori. Quindi, il giusto punto di partenza per ogni politica cristiana è l'umiltà, la modestia e un realismo molto misurato.

Secondo, nessun ordine politico, non importa quanto sembri buono, può mai costituire una società giusta. Errori nel giudizio morale non possono essere evitati. Questi errori aumentano esponenzialmente nella loro complessità quando muovono dai bassi agli alti livelli della società e del governo. Perciò il cristiano deve essere leale alla sua nazione e obbediente ai suoi legittimi governanti. Ma deve anche coltivare una vigilanza critica sull'una e sugli altri.

Terzo, nonostante queste riserve critiche, i cristiani hanno il dovere di prendere parte alla vita pubblica secondo le capacità date loro da Dio, anche quando la loro fede li mette in conflitto con la pubblica autorità. Non possiamo semplicemente ignorare o ritirarci dalla cosa pubblica. La ragione è semplice. Le classiche virtù civiche enumerate da Cicerone – prudenza, giustizia, fortezza, temperanza – possono essere rinnovate ed elevate, a beneficio di tutti i cittadini, dalle virtù cristiane della fede, della speranza e della carità. Quindi l'impegno politico è un degno compito cristiano, e un pubblico ufficio è una onorevole vocazione cristiana.

Quarto, nel governare come meglio possono, mentre conformano le loro vite e i loro giudizi al contenuto del Vangelo, i leader cristiani nella vita pubblica possono compiere un bene reale, e possono fare la differenza. Il loro successo sarà sempre limitato e mescolato ad altro. Non sarà mai ideale. Ma con l'aiuto di Dio possono migliorare la qualità morale della società, il che basta a rendere il loro sforzo inestimabile.

Ciò che Agostino si attende dai leader cristiani, possiamo ragionevolmente estenderlo alla vocazione di tutti i cittadini cristiani. Le doti dei cittadini cristiani sono in definitiva semplici: uno zelo per Gesù Cristo e la sua Chiesa; una coscienza formata in umiltà e radicata nelle Scritture e nella comunità credente; la prudenza per vedere quali questioni nella vita pubblica sono vitali e fondamentali per l'umana dignità, e quali no; il coraggio di operare per ciò che è giusto. Non coltiviamo tali abilità da soli. Le sviluppiamo insieme come cristiani, in preghiera, in ginocchio, alla presenza di Gesù Cristo... e anche in discussioni come stasera.

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Prima di concludere, voglio toccare brevemente il terzo punto che ho menzionato all'inizio della conferenza: le situazioni reali entro cui ci troviamo oggi, e ciò che i cristiani devono fare per affrontarle. Mentre preparavo il testo per questa sera, ho messo in fila tutte le questioni urgenti che richiedono la nostra attenzione come credenti: aborto; immigrazione; i nostri obblighi per i poveri, i vecchi e i disabili; i problemi della guerra e della pace; la nostra confusione nazionale circa l'identità sessuale a la natura umana, e gli attacchi al matrimonio e alla famiglia che derivano da questa confusione; la crescente separazione della scienza e della tecnologia dalla riflessione morale; l'erosione della libertà di coscienza nel nostro dibattito sul sistema sanitario nazionale; il contenuto e la qualità delle scuole che formano i nostri bambini.

La lista è lunga. Io credo che l'aborto sia la fondamentale questione di diritti umani del nostro tempo. Dobbiamo fare tutto ciò che possiamo per aiutare le donne nella loro gravidanza e per far cessare l'uccisione legale di bambini prima della nascita. Dovremmo ricordare che i romani avevano un odio profondo per Cartagine non perché Cartagine era loro rivale nel commercio, o perché la sua gente aveva diversi la lingua e i costumi. I romani odiavano Cartagine soprattutto perché vi si sacrificavano i bambini a Baal. Per i romani, che pure non mancavano d'esser crudeli, quella era una forma di barbarie e di perversione unica al mondo. Come nazione, dovremmo utilmente chiederci a chi e a che cosa sacrifichiamo i nostri 40 milioni di aborti "legali", dal 1973.

Tutte le questioni che ho messo ora in fila dividono il nostro paese e le nostre Chiese in un modo che Agostino avrebbe trovato abbastanza comprensibile. La Città di Dio e la Città dell'Uomo si sovrappongono in questo mondo. Solo Dio conosce a quale Città ciascuno appartenga. Ma nel frattempo, mentre cerchiamo di vivere il Vangelo in cui diciamo di credere, ci capita di trovare amici e fratelli in luoghi inattesi, in posti improbabili; e quando ciò accade, anche un luogo straniero può sembrare come un luogo di casa.

La vocazione dei cristiani nella vita pubblica americana non ha una specifica etichetta battista o cattolica o greca ortodossa o altra. Le parole di Giovanni 14, 6 – "Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me" – che sono la chiave dell'identità della Houston Baptist University, bruciano come fuoco in questo cuore e nel cuore di ogni cattolico che comprende veramente la sua fede. Il nostro compito è di amare Dio, predicare Gesù Cristo, servire e difendere il popolo di Dio e santificare il mondo come suoi inviati. Per fare questo lavoro, dobbiamo essere uniti. Non "uniti" in parole pie o buone intenzioni, ma uniti davvero, uniti perfettamente, nella mente nel cuore e nell'azione, come Cristo ha voluto. Questo è ciò che Gesù intendeva quando disse: "Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Giovanni 17, 20-21).

Noi viviamo in un paese che fu una volta – nonostante i suoi peccati e mancanze – profondamente modellato dalla fede cristiana. Può essere così di nuovo. Tuttavia, o lo faremo assieme, o non lo faremo per nulla. Dobbiamo ricordare le parole di sant'Ilario, di tanto tempo fa: "Unum sunt, qui invicem sunt", si è una cosa sola quando si è l'uno per l'altro (9). Voglia Dio donarci la grazia di amarci l'un l'altro, aiutarci l'un l'altro e vivere pienamente l'uno per l'altro in Gesù Cristo, così che possiamo lavorare assieme nel rinnovare questa nazione che ha servito così bene l'umana libertà.

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(1) Paul Johnson, “An Almost-Chosen People", First Things, Giugno-luglio 2006; testo ricavato dalla sua Erasmus Lecture.

(2) Il testo integrale del discorso di Kennedy a Houston è disponibile online presso la John F. Kennedy Presidential Library and Museum.

(3) John Witte, Jr., “From Establishment to Freedom of Public Religion£, Emory University School of Law, Public Law and Legal Theory Research Paper Series, Research Paper No. 04-1, 2003, p. 5.

(4) Ibid., p. 2-3.

(5) Vescovi cattolici degli Stati Uniti, lettera pastorale “The Christian in Action", n. 11, 1948; vedi anche n. 12-18; ristampata in "Pastoral Letters of the American Hierarchy 1792-1970", Hugh J. Nolan, Our Sunday Visitor, 1971.

(6) Mark Massa, S.J.; le citazioni di Massa sono riprese da “A Catholic for President? John F. Kennedy and the ‘Secular’ Theology of the Houston Speech, 1960", Journal of Church and State, Spring 1997.

(7) John Courtney Murray, S.J., “The Role of Faith in the Renovation of the World", 1948; le opere di Murray sono disponibili online presso la Woodstock Theological Center Library.

(8) Robert Dodaro, O.S.A.; vedi la corrispondenza privata con l'autore di questa conferenza, assieme ai saggi "Christ and the Just Society in the Thought of Augustine", Cambridge University Press, 2008 (prima edizione 2004), ed “Ecclesia and Res Publica: How Augustinian Are Neo-Augustinian Politics?", raccolti in "Augustine and Post-Modern Thought: A New Alliance Against Modernity?", Peeters, Bibliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium, 2009.

(9) Citato in Murray, “The Construction of a Christian Culture"; saggio originalmente pubblicato in tre conferenze nel 1940, disponibili come sopra.



> Salvate il cattolico Kennedy. Una replica a monsignor Chaput

E ora l'arcivescovo di Denver critica le critiche di Diotallevi e ribadisce e chiarisce le proprie tesi, nel testo riprodotto più sotto.

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Ma dagli Stati Uniti sono arrivati a www.chiesa anche altri commenti alle posizioni di Diotallevi. Ne segnaliamo tre.

1. James Brady ci ha scritto da Gering, nel Nebraska, che Kennedy, rivolgendo il suo storico discorso del 1960 a una platea di pastori protestanti, sapeva che la loro diffidenza riguardava proprio il suo essere cattolico. E allora "egli svendette il suo credo cattolico in cambio di vantaggi politici. Io ricordo ciò molto bene perché i miei parenti protestanti erano preoccupati di avere un 'cattolico' come presidente. Ma appena fatta la 'svendita', la loro preoccupazione svanì".

2. Anche Christopher C. Caron ci ha scritto, da Washington, DC, che la "decattolicizzazione" del candidato Kennedy era ciò che i protestanti esigevano, e che lui concesse di buon grado. Intenzionale o no, l'effetto fu rovinoso: "Il cattolico medio negli Stati Uniti capì che non doveva più attingere alla religione nel fare politica pubblica. Questa fu la lezione che tanti impararono, e praticamente nessun vescovo rifiutò questo errore di base. L'effetto di quel discorso fu di secolarizzare i cattolici americani".

3. Infine, è degno di nota il commento che ci ha inviato James Hitchcock, professore di storia alla St. Louis University e autore di saggi sulla religione in America, tra i quali "Catholicism and Modernity", Crossroads, 1978, e "The Supreme Court and Religion in American Life", Princeton University Press, 2004.

Il professor Hitchcock nega che il teologo gesuita John Courtney Murray abbia ispirato il discorso di Kennedy, come sostenuto da Diotallevi.

Nega anche che i pastori protestanti ai quali Kennedy parlava si aspettassero da lui un'attenuazione del posto della religione nella vita pubblica. La loro diffidenza era concentrata sull'appartenenza del candidato presidente alla Chiesa cattolica.

Soprattutto, Hitchcock mostra che il discorso di Kennedy segnò un reale distacco dalla grande tradizione americana di amicizia pubblica tra la religione e la democrazia. Un distacco iniziato da una sentenza della corte suprema del 1947, che cambiò il significato della separazione tra Chiesa e stato, e favorito dall'insegnamento secolarizzante di un filosofo influentissimo come John Dewey.

Il commento del professor Hitchcock è riprodotto integralmente in questa stessa pagina, dopo quello dell'arcivescovo Chaput.

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UNA REPLICA AL PROFESSOR DIOTALLEVI

di Charles J. Chaput



Sono grato al professor Diotallevi per il suo commento al mio discorso del 1 marzo alla Baptist University di Houston. Lui e io chiaramente divergiamo nell'interpretare il discorso di John Kennedy a Houston nel 1960 sul ruolo della religione nella vita pubblica americana. Divergiamo anche nella comprensione precisa della "separazione di Chiesa e stato" nella luce della storia e dei documenti fondanti della mia nazione. Offro qui alcuni pensieri in risposta alle sue osservazioni.

Primo. Il professor Diotallevi sostiene che l'influenza del gesuita John Courtney Murray sul discorso di Kennedy sia "facilmente rintracciabile". Purtroppo padre Murray, per sua ammissione, ebbe una minima influenza sul discorso di Kennedy. In realtà, se Murray avesse giocato il ruolo che Diotallevi gli assegna, ne sarebbe uscito un discorso diverso e molto migliore. È vero che Murray, con John Cogley e altri, fu consultato nella preparazione del testo di Kennedy. Ma come lo stesso Murray fece poi notare, la maggior parte dei suoi consigli furono ignorati. Nelle parole stesse di Murray, Kennedy "era molto più separazionista di quanto fossi io". Chiunque conosca gli scritti di Murray, leggendo il discorso di Kennedy del 1960 capirà perché Murray prese le distanze da quel testo. La visione di Kennedy della religione come materia essenzialmente privata, con poche relazioni con i doveri pubblici di un leader, differisce nettamente dalle convinzioni di Murray circa le relazioni tra Chiesa e stato, tra fede e vita pubblica.

Secondo. Diotallevi sostiene che Kennedy non avrebbe mai predicato una radicale separazione della fede dalla sfera pubblica a una platea di ministri protestanti decisi a che "l'esperienza cristiana si manifestasse in ogni aspetto della vita pubblica". Ma di nuovo, purtroppo, il professore ha letto male il mio testo del 1 marzo. Come lo studioso gesuita Mark Massa nota nel suo saggio (che cito ampiamente nel mio discorso) il discorso di Kennedy del 1960, nel contesto dell'epoca, suonava piuttosto congeniale alle orecchie protestanti poiché neutralizzava i timori circa le radici cattoliche di Kennedy. Ma esso aveva una carica nascosta con forti implicazioni a lunga distanza, aliene dall'esperienza storica americana. Il danno divenne chiaro solo col passare del tempo. Che Kennedy avvertisse o no le forti conseguenze secolariste del suo discorso, è irrilevante. L'importante è che egli impresse alla discussione americana su "fede e vita pubblica" una direzione veramente nuova, e preparò il terreno sul quale due generazioni di leader politici cattolici separarono le loro convinzioni morali religiosamente plasmate dal loro operato politico, in un modo a loro conveniente ma moralmente distruttivo.

Terzo. Mettendo in questione l'uso che faccio della parola "Chiesa" nel mio discorso, purtroppo Diotallevi sembra perdere di vista i passaggi chiavi delle mie osservazioni. Forse si tratta di un problema di traduzione, sta di fatto che io non ho capito le sue preoccupazioni. In realtà ho detto:

“Il cristianesimo non riguarda prevalentemente – o almeno in misura significativa – la politica. Riguarda il vivere e diffondere l'amore di Dio. E l'impegno politico cristiano, quando c'è, non è mai prevalentemente il compito del clero. Questo compito appartiene ai laici credenti che vivono nel modo più pieno nel mondo". Poche righe più avanti, ho notato che “i cristiani come singoli e la Chiesa come comunità credente si impegnano a livello politico come per un comandamento della Parola di Dio".

Contrariamente a quanto il professore sembra dire, non c'è nulla di "tanto complicato" in queste idee. Sono semplici e dirette, sgorganti in modo naturale dal Vangelo. In nessuna parte del discorso io sostengo che la struttura gerarchica della Chiesa è la modalità preferita perché i cattolici interagiscano con l'ordine politico. In realtà, dico proprio l'opposto. Diotallevi sembra scoprire nei miei commenti una specie di cripto-integralismo. Posto un quadro di riferimento europeo, ciò può essere comprensibile. Ma nulla nel testo effettivo delle mie critiche sostiene questa curiosa veduta, e per buone ragioni. Come quasi ogni altro cittadino degli Stati Uniti, incluso lo scomparso John Courtney Murray, io credo fortemente nella separazione di Chiesa e stato, adeguatamente compresa e come i Padri Fondatori la intesero.

E che cosa intendo come comprensione "adeguata" della separazione di Chiesa e stato? Intendo esattamente ciò che i vescovi americani intendevano quando parlarono del patrimonio costituzionale della nostra nazione in quell'eccellente lettera pastorale del 1948 intitolata "I cristiani in azione". Per ragioni di calcolo pragmatico John Kennedy citò selettivamente – ed anche ignorò selettivamente – il contenuto di quella lettera pastorale, nel suo discorso del 1960. Il professor Diotallevi sembra ignorarla. Ma come studioso, potrebbe risultargli utile per completare la sua conoscenza della tradizione politica americana, e del distacco di Kennedy da essa.

Infine, il professore sembra preoccupato che le mie critiche corrano il rischio di incoraggiare "alcune delle posizioni 'evangelical' o neoconservatrici più diffuse nel mondo protestante americano, ma anche in alcune frange del mondo cattolico". Semplicemente rispondo facendo notare che la testimonianza pro-life e pro-family degli "evangelical" americani è ammirevole. Vorrei solo che fosse emulata con più forza da molti di quei cattolici americani che si definiscono essi stessi "liberal" e progressisti. Gli "evangelical" e i cattolici che (assieme ai cristiani ortodossi d'oriente, ai mormoni, a molti ebrei osservanti e ad altri) parlano in difesa della santità della vita e della dignità del matrimonio meritano lode, non derisione. Essi operano nella tradizione degli attivisti per i diritti civili – una causa morale guidata da credenti religiosi – che rifiutarono di "privatizzare" la loro fede. La loro testimonianza può essere dissonante rispetto al discorso di John Kennedy a Houston, ma essi sono pienamente nello spirito delle azioni di Martin Luther King a Selma.

Certo, ogni movimento politico ha i suoi zeloti e si suoi opportunisti. L'impegno politico sarà talvolta segnato da eccessi di entusiasmo e da mancanza di prudenza. E alcuni inevitabilmente cercheranno di piegare il Vangelo e la Chiesa al loro vantaggio personale. Ma i cristiani sono chiamati ad essere i migliori dei buoni cittadini. Abbiamo il dovere di lavorare per la giustizia e per il bene comune. Non possiamo sottrarci a questo obbligo invocando l'insensatezza, l'egoismo o l'ipocrisia di altri, o le umane imperfezioni delle cause politiche che esigono il nostro risoluto sostegno.


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