DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Joseph Ratzinger. Beethoven e la scintilla di Dio; Schubert, i Lieder della speranza

La IX sinfonia suscita sempre di nuovo la mia meraviglia: dopo anni di auto-isolamento e di vita ritirata, in cui Beethoven aveva da combattere con difficoltà interne ed esterne che minacciavano di soffocare la sua creatività artistica, il compositore ormai totalmente sordo, nell’anno 1824, sorprende il pubblico.
Con una composizione che rompe la forma tradizionale della sinfonia e, nella cooperazione di orchestra, coro e solisti, si eleva ad uno straordinario finale di ottimismo e di gioia.
Che cosa era accaduto?
Per ascoltatori attenti, la musica stessa lascia intuire qualcosa di ciò che sta alla base di questa esplosione inaspettata di giubilo. Il travolgente sentimento di gioia trasformato qui in musica non è qualcosa di leggero e di superficiale: è un sentimento conquistato con fatica, superando il vuoto interno di chi dalla sordità era stato spinto nell’isolamento – le quinte vuote all’inizio del primo movimento e l’irrompere ripetuto di un’atmosfera cupa ne sono l’espressione.
La solitudine silenziosa, però, aveva insegnato a Beethoven un modo nuovo di ascolto che si spingeva ben oltre la semplice capacità di sperimentare nell’immaginazione il suono delle note che si leggono o si scrivono. Mi si affaccia alla mente, in questo contesto, un’espressione misteriosa del profeta Isaia che, parlando di una vittoria della verità e del diritto, diceva: «udranno in quel giorno i sordi le parole di un libro \; liberati dall’oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno». Si accenna così ad una percettività che riceve in dono chi da Dio ottiene la grazia di una liberazione esterna ed interna.
Così, allorché il Coro e Orchestra della Radio Bavarese, in occasione della caduta del muro fra Berlino Est e Ovest nel 1989, eseguendo sotto la guida di Leonard Bernstein la sinfonia appena ascoltata, modificarono il testo dell’Ode alla gioia in «Libertà, bella scintilla di Dio», espressero ben più della semplice emozione del momento storico: la vera gioia è radicata in quella libertà che, in ultimo, solo Dio può donare. Egli – talvolta proprio in tempi di vuoto e di isolamento interiori – vuole renderci attenti alla sua muta presenza non solo «sopra la volta stellata», ma anche nel più intimo di noi stessi. È lì che arde la scintilla dell’amore divino, il quale può liberarci a ciò che siamo veramente.

Schubert, i Lieder della speranza

Questo concerto ci ha dato l’occasione di vedere il felice accostamento della poesia di Wilhelm Müller alla musica di Franz Schubert in un genere melodico a lui caro. Sono in effetti oltre seicento i Lieder che Schubert ci ha lasciato: il grande compositore, non sempre compreso dai suoi contemporanei, fu, com’è noto, il «principe del Lied». Egli, come recita il suo epitaffio, «fece risuonare la poesia e parlare la musica». Poc’anzi abbiamo potuto assaporare il capolavoro della liederistica schubertiana: Die Winterreise (Il viaggio d’inverno). Ben 24 Lieder composti su liriche di Wilhelm Müller, nei quali Schubert esprime un’intensa atmosfera di triste solitudine, da lui particolarmente avvertita dato lo stato d’animo di prostrazione causatogli dalla lunga malattia e dal susseguirsi di non poche delusioni sentimentali e professionali. È un viaggio tutto interiore, che il celebre compositore austriaco scrisse nel 1827, solo un anno prima della prematura morte, che lo colse a 31 anni.
Quando Schubert fa calare un testo poetico nel suo universo sonoro, lo interpreta attraverso un intreccio melodico che penetra nell’anima con dolcezza, portando anche chi l’ascolta a provare lo stesso struggente rimpianto avvertito dal musicista, lo stesso richiamo di quelle verità del cuore che vanno al di là di ogni raziocinio. Nasce così un affresco che parla di schietta quotidianità, di nostalgia, di introspezione, di futuro. Tutto riaffiora lungo il percorso: la neve, il paesaggio, gli oggetti, le persone, gli eventi, in un fluire struggente di ricordi. In particolare, è stata per me un’esperienza nuova e bella ascoltare quest’opera nella versione che ci è stata proposta, cioè con il violoncello al posto della voce umana. Non sentivamo le parole della poesia, ma il loro riflesso ed i sentimenti in esse contenuti espressi con la «voce» quasi umana del violoncello.
Presentando Il viaggio d’inverno agli amici, Schubert ebbe a dire: «Vi canterò un ciclo di Lieder che mi hanno coinvolto più di quanto non mi sia mai successo prima. Mi piacciono più di tutti, e piaceranno anche a voi». Sono parole a cui possiamo assentire anche noi, dopo averli ascoltati nella luce della speranza della nostra fede. Il giovane Schubert, spontaneo ed esuberante, è riuscito a comunicare anche a noi questa sera ciò che egli ha vissuto e sperimentato. Meritato è pertanto il riconoscimento che universalmente viene tributato a questo illustre genio della musica, che onora la civiltà europea e la grande cultura e spiritualità dell’Austria cristiana e cattolica.

© Copyright La Stampa, 29 aprile 2010