Dovrebbe sempre funzionare così, il rapporto medico-paziente, nel ventunesimo secolo, quello del poderoso progresso medico-scientifico: una corretta informazione sui media, il contatto dei familiari con gli specialisti, l’arrivo degli studiosi, l’applicazione di protocolli medici innovativi, e qualche volta anche una diagnosi più adeguata. Sempre, comunque, uno scambio proficuo di conoscenze fra gli addetti ai lavori, dagli studiosi del settore a chi si occupa dell’assistenza quotidiana.
Nessuna guarigione improvvisa, intendiamoci, ma nuove diagnosi e soprattutto un approccio diverso nei confronti di persone che, nella migliore delle ipotesi, sono ben curate ed assistite nel quotidiano ma "abbandonate" scientificamente. D’altra parte, per quale motivo un giovane studioso di medicina dovrebbe impegnarsi a osservare e capire le condizioni di una persona che da quattordici anni (come uno dei tre pazienti visitati) non dà segni di consapevolezza di sé? Persone con cui non si riesce a comunicare, a stabilire un contatto? Che illustri scienziati non esitano a definire «vegetali», «né morti né vivi», con una «vita artificiale», e potremmo continuare nell’elenco, tanto lungo quanto offensivo di espressioni ed epiteti buoni solo a descrivere una vita non più degna di essere vissuta, e quindi ancor meno di essere compresa, studiata e accompagnata?
Il motivo è semplice, e lo hanno ben capito coloro che hanno incontrato medici e studiosi (come quelli venuti dal Belgio, ma non solo) che di questo si occupano: quelle in stato vegetativo sono innanzitutto persone, pienamente persone. E come tali vanno trattate.
Esseri umani in uno stato ancora poco conosciuto, dei quali sappiamo solo che con loro non riusciamo a stabilire un contatto come si fa abitualmente: con la parola, lo sguardo, i gesti. Non siamo in grado di escludere ma neppure di ipotizzare, e tanto meno di immaginarne le sensazioni, i sentimenti, i pensieri, il grado di coscienza e di consapevolezza di sé.
Vegliano e dormono, respirano come noi, e il resto è mistero. Un mistero che nuove conoscenze stanno cercando di sondare, e i primissimi risultati sono promettenti. Lo sviluppo delle neuroscienze – di queste stiamo parlando – inizia ad aprire una finestra affacciata su un mondo finora buio e inaccessibile, quello delle persone con gravi disturbi della coscienza, coloro che si trovano in stato vegetativo: la tecnologia e le conoscenze necessarie per i nuovi percorsi di diagnosi sono a portata di chiunque intenda servirsene, non ci sono ostacoli insormontabili. Non si tratta di alimentare illusioni, ma di incoraggiare fortemente gli studi nel settore, perché solo da questi potranno venire – forse, un giorno – percorsi riabilitativi o modalità impreviste per relazionarsi e comunicare con persone colpite da disabilità profonde ed estreme.
Risultati che arriveranno solamente a condizione che ci si ricordi sempre di avere di fronte uomini e donne come noi, vivi, con la nostra stessa dignità, tutta intera. Misteriosamente, incomprensibilmente, ma pienamente persone.
La speranza riparte ai confini della vita
«La nostra sfida di medici dal Belgio all’Italia per dare futuro ai malati in stato vegetativo»
Il grido di aiuto lanciato da tre famiglie italiane è stato raccolto a Liegi da due specialisti di fama Nei giorni scorsi visite e test a Milano condotti con protocolli innovativi Ed ecco che una nuova luce s’accende
Pio Albergo Trivulzio di Milano, reparto Vassalli, la stanza con le tende arancioni, il via vai delle infermiere per il pranzo. Sta qui Luca, da 14 anni. «Assente», «apallico», «vegetativo », «senza speranza»: mamma Luciana e papà Guido hanno appuntato l’opinione di decine di specialisti, da quel 26 ottobre del 1996, quando il figlio è caduto dal motorino. Nessuna uguale all’altra. Sta qui Luca, e nella stanza arancione venerdì scorso è successo qualcosa di nuovo. |
© Copyright Avvenire 21 aprile 2010
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