A vent’anni dalla fine della guerra fredda, le democrazie faticano ad arginare la prima e vera crisi economica della globalizzazione. La Cina comunista, al contrario, non solo ne contiene l’impatto, ma sfrutta la contrazione della domanda estera per avviare riforme sociali ed economiche rivoluzionarie. Tra queste: maggiori garanzie per i lavoratori e un nuovo sistema monetario internazionale, possibilmente ancorato alla moneta nazionale.
Il nord della bussola della stabilità economica si sta inesorabilmente spostando in Cina grazie a una serie di cataclismi economici che ridisegnano l’aspetto macroeconomico del pianeta. L’ultimo, la crisi del credito e la recessione, ha catapultato Pechino tra le nazioni più potenti del mondo. Nessuno oggi può negare che il New Deal cinese sia stato l’ancora di salvezza della recessione e abbia evitato che questa degenerasse in una nuova grande depressione. E molti sono convinti che i cambiamenti in atto finiranno per spodestare il primato economico statunitense.
Le metamorfosi cinesi non sono però circoscritte all’economia. La crescita del Pil va a braccetto con riforme sociali e politiche impensabili al tempo del maoismo, una strana coppia in un paese ancora comunista. Dalla difesa dei diritti umani al potenziamento dell’energia rinnovabile, fino al rispetto delle regole del World Trade Organization e all’esperimento della democrazia partecipativa, questa nazione è impegnata in un nuovo modello di società. E sebbene per ora la democrazia di stampo occidentale non rientri tra i traguardi che si prefigge, è pur vero che da almeno un decennio ha preso definitivamente le distanze dal totalitarismo post bellico e guarda solo al futuro. Possiamo parlare di capi-comunismo? Potrebbe essere proprio questo il modello del ventunesimo secolo.
Chi visita città come Shangai o Pechino ha infatti un anteprima delle metropoli del domani. Il loro dinamismo è una droga che intossica tutti, specialmente gli stranieri. Migliaia di giovani occidentali scelgono di vivere a Shangai, perché intuiscono che questa è la piattaforma di lancio del nuovo mondo, e non solo per via dell’Expo del 2010. Chi vive in Cina da tempo ne è cosciente, sa di far parte del laboratorio del futuro, una fucina socio-economica, ma anche politica, dove si lavora giorno e notte per dar vita alla modernità. Un’immagine totalmente diverse emanano le metropoli occidentali. Un senso di decadenza impregna le istituzioni socio-economiche e la macchina politica è arrugginita dal tempo e dalle intemperie finanziarie. Siamo vecchi, si legge sui visi dei pendolari che ogni giorno salgono sui mezzi di trasporto sempre più pieni e sempre meno efficienti. Siamo vecchi, ci dicono i nostri giovani destinati al precariato e alla disoccupazione. Siamo vecchi e la ricchezza futura dell’Europa potrebbe ridursi al patrimonio storico e culturale del continente, trasformato nel più grande museo del mondo. Anche l’economia è vecchia, e persino la nostra democrazia risente dell’età avanzata. I giovani occidentali che trovano occupazione percepiscono salari troppo bassi rispetto al costo della vita; le discriminazioni nei confronti degli immigrati, che svolgono i lavori più umili, sono all’ordine del giorno; ce la prendiamo con loro per gli errori commessi dalla nostra classe politica, un’èlite cha non rappresenta più la volontà della popolazione e lavora esclusivamente per rimanere al potere. E la stampa sembra impossibilitata ad esercitare quella libertà che è costata tante battaglie e tante vite umane. Osservando con attenzione, è evidente che la genesi della senilità dell’occidente è la stessa del rinascimento socio-economico cinese: la caduta del Muro di Berlino. Quella che per noi è un’assurdità, ovvero il binomio capitalismo-comunismo o capi-comunismo, per i cinesi è un dato di fatto. Ed è una coppia felice, benedetta da Karl Marx. I leader cinesi hanno letto Il Capitale e capito che si tratta semplicemente dell’analisi sullo sviluppo del capitalismo. Marx non ha mai scritto di distruggere il sistema di produzione per rimpiazzarlo con un altro, non predicava di bruciare le fabbriche e di tornare ad un’economia agraria, non ha parlato di protezionismo né della fine del commercio internazionale, piuttosto ha spiegato la necessità storica di sostituirne la guida con la dittatura del proletariato per poi arrivare al capolinea di questa evoluzione: la società senza classi. E questa è la direzione in cui si muovono i cinesi.
Nel 1989 Deng Xiaoping intuisce le vere motivazioni dietro i fatti di Tiananmen, sa bene che la popolazione confonde il capitalismo con la democrazia. La sua risposta è quindi l’apertura economica: rende accessibile il profitto al popolo e ne incoraggia la produzione. «Arricchitevi» è il mantra che riecheggia nella Cina ancora scossa dalla repressione. Come vedremo, ai contadini che a stento sopravvivono nelle campagne vengono concesse la proprietà dei prodotti e la mobilità; a chi vive nelle campagna viene data la possibilità di diventare lavoratori migranti e guadagnare in pochi anni quanto necessario per tornare a casa e avviare una propria attività commerciale. Si tratta di dinamiche politiche e sociali rivoluzionarie, avviate già alla fine degli anni Settanta, un paio di anni dopo la morte di Mao, per le quali il 1989 ha rappresentato una battuta di arresto che si protrae fino al 1992, quando l’esperimento riparte con successo e maggior impeto.
La storia ci dice che il capitalismo si evolve naturalmente verso la globalizzazione, perché il motore della crescita è il progressivo sfruttamento di nuove risorse. Anche la democrazia tende a globalizzarsi. Ma le numerose catastrofi economiche degli ultimi secoli sono lì a ricordarci che il binomio capitalismo-democrazia non funziona in questa fase di espansione, mentre il capi-comunismo potrebbe essere meglio equipaggiato per sfruttare sia le fasi ascendenti che quelle discendenti dell’economia globalizzata. Dietro la crisi del credito e la recessione c’è dunque una profonda rivoluzione che sta facendo crollare gran parte dei postulati del passato, incluso il primato sociale, economico e politico delle democrazie occidentali: un rivolgimento epocale che ridefinisce anche e soprattutto il concetto di modernità. Allora ha vinto Marx? Quel che è certo è che per comprendere i cambiamenti in atto c’è bisogno di una rilettura della teoria di marxista a Pechino. La via cinese si rivela infatti una lente potentissima per analizzare la società e il capitalismo occidentale, che potrebbe aiutarci a correggere gli errori commessi a casa nostra negli ultimi vent’anni.
Il nord della bussola della stabilità economica si sta inesorabilmente spostando in Cina grazie a una serie di cataclismi economici che ridisegnano l’aspetto macroeconomico del pianeta. L’ultimo, la crisi del credito e la recessione, ha catapultato Pechino tra le nazioni più potenti del mondo. Nessuno oggi può negare che il New Deal cinese sia stato l’ancora di salvezza della recessione e abbia evitato che questa degenerasse in una nuova grande depressione. E molti sono convinti che i cambiamenti in atto finiranno per spodestare il primato economico statunitense.
Le metamorfosi cinesi non sono però circoscritte all’economia. La crescita del Pil va a braccetto con riforme sociali e politiche impensabili al tempo del maoismo, una strana coppia in un paese ancora comunista. Dalla difesa dei diritti umani al potenziamento dell’energia rinnovabile, fino al rispetto delle regole del World Trade Organization e all’esperimento della democrazia partecipativa, questa nazione è impegnata in un nuovo modello di società. E sebbene per ora la democrazia di stampo occidentale non rientri tra i traguardi che si prefigge, è pur vero che da almeno un decennio ha preso definitivamente le distanze dal totalitarismo post bellico e guarda solo al futuro. Possiamo parlare di capi-comunismo? Potrebbe essere proprio questo il modello del ventunesimo secolo.
Chi visita città come Shangai o Pechino ha infatti un anteprima delle metropoli del domani. Il loro dinamismo è una droga che intossica tutti, specialmente gli stranieri. Migliaia di giovani occidentali scelgono di vivere a Shangai, perché intuiscono che questa è la piattaforma di lancio del nuovo mondo, e non solo per via dell’Expo del 2010. Chi vive in Cina da tempo ne è cosciente, sa di far parte del laboratorio del futuro, una fucina socio-economica, ma anche politica, dove si lavora giorno e notte per dar vita alla modernità. Un’immagine totalmente diverse emanano le metropoli occidentali. Un senso di decadenza impregna le istituzioni socio-economiche e la macchina politica è arrugginita dal tempo e dalle intemperie finanziarie. Siamo vecchi, si legge sui visi dei pendolari che ogni giorno salgono sui mezzi di trasporto sempre più pieni e sempre meno efficienti. Siamo vecchi, ci dicono i nostri giovani destinati al precariato e alla disoccupazione. Siamo vecchi e la ricchezza futura dell’Europa potrebbe ridursi al patrimonio storico e culturale del continente, trasformato nel più grande museo del mondo. Anche l’economia è vecchia, e persino la nostra democrazia risente dell’età avanzata. I giovani occidentali che trovano occupazione percepiscono salari troppo bassi rispetto al costo della vita; le discriminazioni nei confronti degli immigrati, che svolgono i lavori più umili, sono all’ordine del giorno; ce la prendiamo con loro per gli errori commessi dalla nostra classe politica, un’èlite cha non rappresenta più la volontà della popolazione e lavora esclusivamente per rimanere al potere. E la stampa sembra impossibilitata ad esercitare quella libertà che è costata tante battaglie e tante vite umane. Osservando con attenzione, è evidente che la genesi della senilità dell’occidente è la stessa del rinascimento socio-economico cinese: la caduta del Muro di Berlino. Quella che per noi è un’assurdità, ovvero il binomio capitalismo-comunismo o capi-comunismo, per i cinesi è un dato di fatto. Ed è una coppia felice, benedetta da Karl Marx. I leader cinesi hanno letto Il Capitale e capito che si tratta semplicemente dell’analisi sullo sviluppo del capitalismo. Marx non ha mai scritto di distruggere il sistema di produzione per rimpiazzarlo con un altro, non predicava di bruciare le fabbriche e di tornare ad un’economia agraria, non ha parlato di protezionismo né della fine del commercio internazionale, piuttosto ha spiegato la necessità storica di sostituirne la guida con la dittatura del proletariato per poi arrivare al capolinea di questa evoluzione: la società senza classi. E questa è la direzione in cui si muovono i cinesi.
Nel 1989 Deng Xiaoping intuisce le vere motivazioni dietro i fatti di Tiananmen, sa bene che la popolazione confonde il capitalismo con la democrazia. La sua risposta è quindi l’apertura economica: rende accessibile il profitto al popolo e ne incoraggia la produzione. «Arricchitevi» è il mantra che riecheggia nella Cina ancora scossa dalla repressione. Come vedremo, ai contadini che a stento sopravvivono nelle campagne vengono concesse la proprietà dei prodotti e la mobilità; a chi vive nelle campagna viene data la possibilità di diventare lavoratori migranti e guadagnare in pochi anni quanto necessario per tornare a casa e avviare una propria attività commerciale. Si tratta di dinamiche politiche e sociali rivoluzionarie, avviate già alla fine degli anni Settanta, un paio di anni dopo la morte di Mao, per le quali il 1989 ha rappresentato una battuta di arresto che si protrae fino al 1992, quando l’esperimento riparte con successo e maggior impeto.
La storia ci dice che il capitalismo si evolve naturalmente verso la globalizzazione, perché il motore della crescita è il progressivo sfruttamento di nuove risorse. Anche la democrazia tende a globalizzarsi. Ma le numerose catastrofi economiche degli ultimi secoli sono lì a ricordarci che il binomio capitalismo-democrazia non funziona in questa fase di espansione, mentre il capi-comunismo potrebbe essere meglio equipaggiato per sfruttare sia le fasi ascendenti che quelle discendenti dell’economia globalizzata. Dietro la crisi del credito e la recessione c’è dunque una profonda rivoluzione che sta facendo crollare gran parte dei postulati del passato, incluso il primato sociale, economico e politico delle democrazie occidentali: un rivolgimento epocale che ridefinisce anche e soprattutto il concetto di modernità. Allora ha vinto Marx? Quel che è certo è che per comprendere i cambiamenti in atto c’è bisogno di una rilettura della teoria di marxista a Pechino. La via cinese si rivela infatti una lente potentissima per analizzare la società e il capitalismo occidentale, che potrebbe aiutarci a correggere gli errori commessi a casa nostra negli ultimi vent’anni.
Loretta Napoleoni
© Copyright Avvenire 21 aprile 2010
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