Gian Guido Vecchi
Se l' accostamento non suonasse bizzarro,  verrebbe in mente il verso d' una canzone di Fabrizio De André,  Smisurata preghiera: «Per chi viaggia in direzione ostinata e  contraria».
Nell' ultima udienza generale, mercoledì, Benedetto XVI  ripeteva una considerazione che ha accompagnato fin dall' inizio il suo  pontificato: «Quella del sacerdote, non di rado, potrebbe sembrare la  "voce di uno che grida nel deserto", ma proprio in questo consiste la  sua forza profetica: nel non essere mai omologato, né omologabile, ad  alcuna cultura o mentalità dominante».
C' è una coerenza  profonda in tutte le parole e i gesti che hanno accompagnato fin qui l'  «umile lavoratore nella vigna del Signore», come si presentò ai fedeli  dalla loggia di San Pietro il 19 aprile del 2005. 
I  gesti, sì: perché almeno dopo cinque anni si può finalmente lasciar  perdere il cliché un po' logoro del Papa teologo che comunica con la  sola parola, contrapposto al predecessore capace di gesti epocali, come  se non ci fossero parole memorabili di Wojtyla e altrettanto memorabili  gesti di Ratzinger.
Uno di questi, il 10 marzo 2009 - mentre  infuriavano le polemiche sul vescovo lefebvriano Williamson, quello che  nega la Shoah - fu senza precedenti e dice tutto del carattere di  Benedetto XVI: mai si era visto un Papa prendere carta e penna, a  scanso di equivoci e di quell' «ostilità pronta all' attacco» mostrata  anche tra i cattolici, per spiegare ai vescovi di tutto il mondo le  ragioni di una sua decisione.
Un «gesto discreto di  misericordia», la remissione della scomunica a quattro vescovi come  «invito alla riconciliazione» rivolto a un gruppo scismatico, si era  trasformato «nel suo contrario»: ed era stato letto come un atto ostile  verso gli ebrei, perché nessuno di quelli che in Curia curavano i  rapporti con i lefebvriani s' era accorto di quanto nel frattempo andava  vaneggiando uno degli (ex) scomunicati. Bastava andare su Internet,  osservò il Papa. Ma tant' è: Ratzinger si caricò sulle spalle tutta la  faccenda, proprio come aveva accettato di fare con la Chiesa dopo la  morte di Wojtyla. Spiegò. E ricordò le priorità del suo pontificato, a  cominciare da ciò che disse Gesù a Pietro: «Tu... conferma i tuoi  fratelli». Eccola, la «priorità suprema» della Chiesa e del successore  di Pietro, dalla quale discende tutto il resto: «Condurre gli uomini  verso Dio», soprattutto «in questo tempo». A distanza di anni tutto si  tiene, nel magistero di Benedetto XVI. Alla vigilia dell' elezione,  nella messa Pro eligendo romano Pontifice del 18 aprile 2005, l' allora  cardinale decano aveva denunciato l' esistenza di una «dittatura del  relativismo», il «lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di  dottrina» come unico atteggiamento considerato «all' altezza dei tempi  odierni». E le aveva opposto «la misura del vero umanesimo», ovvero «il  Figlio di Dio, vero uomo». Tre anni più tardi, il 12 settembre 2008,  rivolto agli studiosi nel Collège des Bernardins di Parigi, Benedetto  XVI si è cimentato in una riflessione vertiginosa sulle radici della  cultura europea e il ruolo decisivo del monachesimo nel custodire il  patrimonio del pensiero antico in quel «grande sconvolgimento», fino a  formare appunto la nuova cultura. Senza quei monaci non saremmo ciò che  siamo. Ma questo potè accadere grazie al fatto che «il loro obiettivo  era quaerere Deum, cercare Dio». E oggi che Dio è il «grande  Sconosciuto», concludeva il Papa, quella domanda è altrettanto  necessaria. Come ai tempi di San Benedetto, il patrono d' Europa e  fondatore del monachesimo occidentale del quale ha preso il nome, ci  troviamo a vivere in un «grande sconvolgimento». La stessa «piccola  barca del pensiero di molti cristiani» è agitata dalle onde relativiste.
E  il compito di Pietro è mantenere la barra diritta: un po' come il  kybernetes di Aristotele, il timoniere che «governa» la nave e sa  mantenere il «giusto mezzo». Che non è una mediocre e facile  equidistanza ma all' opposto la cosa più difficile: seguire la rotta  mentre la nave è sballottata dalla tempesta. Così si capisce la  preoccupazione sulle interpretazioni del Concilio Vaticano II, come  spiegò in un memorabile discorso alla Curia romana, il 22 dicembre 2005:  il Papa rigetta l' «ermeneutica della discontinuità e della rottura»,  l' idea sessantottina che il Concilio sia stato una sorta di «nuovo  inizio» della Chiesa. Ma questo non significa affatto che abbia una  posizione anticonciliare: l' «utopismo anarchico», piuttosto, è un  estremismo speculare a quello dei reazionari che rifiutano il Concilio.  Del resto Ratzinger partecipò da teologo alle Assise: e sostiene l'  ermeneutica «che ha portato e porta frutti», quella che legge il  Concilio come «riforma» della Chiesa, un «rinnovamento nella  continuità». Tutto si tiene. «Confermare i fratelli» nella fede.  «Condurre gli uomini a Dio». E quindi cercare l' «unità dei credenti»:  non solo lo sforzo di ricomposizione dello scisma lefebvriano o la porta  aperta agli anglicani, ma anche il dialogo ecumenico tra confessioni  cristiane e le grandi strategie «geopolitiche», la tutela della presenza  cristiana in Medio Oriente, il confronto con la Chiesa ortodossa, la  linea diplomatica con la Cina (aperta dalla lettera ai cattolici cinesi  del 27 maggio 2007) sull' esempio di Matteo Ricci, verso una non facile  ricomposizione tra la Chiesa clandestina e quella «patriottica»  controllata dal regime. E ancora il dialogo (nella chiarezza) con le  grandi religioni monoteiste, i «padri nella fede» ebrei e l' Islam. E  infine la sfida forse più drammatica: il confronto col saeculum, quel  mondo per il quale Dio è «il grande Sconosciuto». Il cuore del discorso  di Ratisbona del 12 settembre 2006 - di là dalle polemiche col mondo  islamico scatenate dalla riflessione su fede e violenza, con relativi  equivoci - stava proprio nell' idea che Dio è Lógos, parola e discorso  razionale: «Non agire secondo ragione», sýn lógo, è «contrario alla  natura di Dio». L' incontro tra fede e ragione, la razionalità del  Dio-Lógos, è per il Papa l' antidoto ai fondamentalismi e il terreno di  confronto con il mondo laico. Ratzinger propone una «critica della  ragione moderna dal suo interno», quella ragione che da Kant in avanti  si è «autolimitata» allontanando il divino - la verità - dal proprio  orizzonte. Tutto si riconduce a questo: anche dalla crisi economica  mondiale e dalle ingiustizie sociali non si uscirà se non si saprà  ancorare la carità alla verità: Caritas in Veritate, l' enciclica  sociale del Papa. È qui che la navigazione contemporanea si fa  controcorrente. Ma Benedetto XVI è deciso a mantenere la rotta. Ancora  pochi giorni fa ricordava che solo «il primato dell' obbedienza a Dio»  dà all' uomo la vera libertà: e la capacità di opporsi alla «dittatura  del conformismo».
© Copyright Corriere della sera, 18 aprile 2010
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