di Arrigo Petacco
A gli inizi si chiamavano «badogliani», perché la prima resistenza contro i tedeschi dopo l’8 settembre 1943 fu condotta esclusivamente da quei militari che, invece di sbandarsi, obbedirono all’ordine del governo Badoglio di resistere agli eventuali attacchi dell’ex alleato tedesco. Poi, quando si scoprì che il maresciallo Pietro Badoglio non era, in fin dei conti, tanto meglio di Benito Mussolini, si chiamarono «ribelli» per distinguersi dai «repubblichini» che avevano aderito alla Repubblica di Salò. Il termine più consono di «patrioti» fu invece rifiutato perché la retorica fascista aveva troppo inflazionato il patriottismo.
Lo mantennero invece gli Alleati, tanto è vero che il famoso diploma Alexander, rilasciato a guerra finita a chi aveva combattuto contro i tedeschi, è testualmente definito «Certificato al patriota» e non «al partigiano». D’altra parte, quest’ultimo termine non tornava gradito agli Alleati perché evocava i «partizan» sovietici e iugoslavi di ispirazione comunista. Infatti entrò in uso da noi molto più tardi, non prima dell’estate del 1944, quando le bande si politicizzarono e alcune di esse adottarono anche il sistema gerarchico dell’Armata rossa, creando una figura nuova senza precedenti nella nostra tradizione militare. Quella del commissario politico, quasi sempre comunista, che esercitava maggior autorevolezza dello stesso comandante militare. Questa duplicità, che distinse anche le bande (da una parte rispetto del superiore, la fedeltà al giuramento, dall’altra nessuna distinzione di grado, uguaglianza formale e pesante indottrinamento politico), degenererà purtroppo anche in scontri.
La premessa era necessaria per fare un po’ di chiarezza sul polverone propagandistico sollevato nel dopoguerra, che ha finito per «sollevare», come scriveva Mario Pannunzio, «il Pci sopra tutti gli altri partiti nella lotta contro il fascismo ed espellendo dal condominio dei vincitori tutti gli ospiti non graditi». Gli ospiti non graditi erano molti di più delle decine di migliaia di partigiani che componevano le brigate comuniste. Erano le centinaia di migliaia di soldati che combatterono tedeschi e fascisti indossando il grigioverde, ma anche quei partigiani che rifiutarono il fazzoletto rosso al collo rischiando, come accadde a Porzus e altrove, di perdere la vita per questo rifiuto.
Una cappa di interessato silenzio ha gravato per lungo tempo sulla Resistenza dei «partigiani con le stellette» che, dopo l’8 settembre, a Cefalonia, a Lero, sulla corazzata Roma, in Iugoslavia, in Italia col Corpo volontari per la libertà e altrove, hanno lasciato sul campo oltre 90 mila caduti.
Altrettanto è stato fatto nei riguardi dei 600 mila soldati italiani deportati in Germania che preferirono languire e morire nei lager piuttosto che aderire alla Repubblica di Salò. Basti dire che il futuro segretario del Pci Alessandro Natta nel 1954 aveva scritto un libro sulla sua vicenda di prigioniero in Germania, ma il suo partito aveva giudicato «non opportuna» la pubblicazione. Natta riuscì a pubblicarlo, col titolo L’altra Resistenza, solo nel 1997, dopo la caduta del Muro.
Fu dunque grazie a una subdola operazione di maquillage che il Pci riuscì a tingere di rosso la ricorrenza del 25 aprile che avrebbe dovuto essere (e lo sarà, si spera, d’ora in poi) una celebrazione condivisa da tutti gli italiani.
- Giovedì 29 Aprile 2010
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