DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

La risurrezione senza il risorto. Di Massimo Borghesi

tratto da: 30 Giorni, ottobre 2006.

Per l'idealismo moderno la risurrezione sorge dall'idealizzazione postuma di Gesù morto. La gloria nasce da una sconfitta. Viene così capovolto il racconto evangelico, per il quale la fede nasce dalla percezione reale del Risorto, di Colui che ha vinto la morte


La risurrezione senza miracolo

«La risurrezione non solo non è un miracolo, ma non è neppure un avvenimento empirico. E la fede nella risurrezione non dipende dal fatto che si accetti o respinga la realtà storica del sepolcro vuoto». Così recita il motto di copertina messo a commento del testo di Andrés Torres Queiruga, «La risurrezione senza miracolo», da poco tradotto in italiano (1). L'opuscolo è interessante nella misura in cui è l'espressione compiuta di una tendenza che, dopo Bultmann, è divenuta egemone negli studi esegetici e teologici: quella per la quale la risurrezione è una pietra errante, un masso erratico che la critica deve rimuovere onde rendere comprensibile, all'uomo moderno, il contenuto della fede cristiana. Il Cristo risorto di Piero della Francesca o L'incredulità di Tommaso di Caravaggio appartengono all'arte del passato. Nel futuro non si potrà più dare una lettura realistica della risurrezione, solo quella "simbolica" potrà essere ammessa. In un singolare capovolgimento dei processi cognitivi la fede non presuppone il sepolcro vuoto e l'esperienza tangibile del Risorto; al contrario è il Cristo risorto che "appare" tale solo nella precomprensione della fede. In tal modo una parte cospicua della letteratura teologica - quella che dà per scontata l'opposizione tra il "Cristo storico" e il "Cristo della fede" - abbandona la posizione realistica e si incontra, necessariamente, con il punto di vista idealistico. Per esso non è la realtà, ciò che concretamente accade, che muove e spiega la "persuasione"; al contrario è la "visione del mondo", la fede preliminare, che rende evidenti, "visibili", fatti che altrimenti non sussistono. La fede, privata di ogni ragionevolezza, non è più "giudizio" ma pre-giudizio che "vede" in modo difforme dalla realtà, luogo di un'esperienza "mistica", affettiva, idealizzante. La fede idealizza, grazie alla mediazione immaginativa, il suo oggetto. Nel caso del cristianesimo ciò significa che Cristo "appare" come il risorto nella fede, grazie alla fede. Fuori dalla fede c'è solo il mistero di una tomba vuota, di un cadavere scomparso. Un problema che non interessa la fede per la quale ciò che importa è solo il Cristo ideale, divino. La risurrezione non ha bisogno della carne di Gesù di Nazareth, della sua persona singolare; è sufficiente l'idea, il simbolo dell'Uomo-Dio. La fede vive dell'idea, non della realtà.

Questo presupposto, vero e proprio apriori concettuale, è palese nel testo di Torres Queiruga. Per il filosofo di Santiago de Compostela le acquisizioni «irreversibili» dell'esegesi e della cultura attuale fanno sì che non si possa più concepire «la presenza attiva di Dio come un'irruzione puntuale, cioè, fisica e accessibile ai sensi, nella trama del mondo» (2). Una definizione perfetta dell'Incarnazione, che l'autore cancella con un semplice tratto di penna. Al pari di Bultmann, per il quale «mitologica è la concezione in cui il non mondano, il divino, appare come il mondano, umano, l'al di là come l'al di qua» (3), anche per Torres Queiruga Dio non può agire sensibilmente in questo mondo. Per questo «l'analisi della risurrezione di Gesù come "miracolo" - il più spettacolare - è sparita definitivamente dai trattati seri. A tal punto che perfino nei trattati più "ortodossi" si può leggere l'affermazione che la risurrezione non solo non è un miracolo, ma non è neppure un avvenimento "storico"» (4). L'"esperienza" del Risorto deve rimuovere ogni presenza di tipo empirico. «Se il Risorto fosse tangibile o mangiasse, sarebbe necessariamente limitato dalle leggi dello spazio, vale a dire non sarebbe risorto. E la stessa cosa succederebbe se fosse fisicamente visibile» (5). Credere diversamente significherebbe sottoporsi all'«imperialismo del principio empirista» (6), rendere impossibile «la ragionevolezza della fede nella risurrezione» (7). Per l'autore «i discepoli non videro con i loro occhi il Risorto né lo toccarono con le loro mani, perché questo era impossibile stando egli al di fuori della portata dei loro sensi» (8). Ciò che essi hanno "visto" «non può conservare nessun rapporto materiale con un corpo spazio-temporale» (9). Del resto, «nemmeno nella vita terrena il corpo può essere considerato il supporto assolutamente indispensabile dell'identità», né «si vede che cosa vi potrebbe apportare la trasformazione (?) del corpo morto, cioè del cadavere» (10). Per l'"idealista" Torres Queiruga la "realtà" del Cristo risorto non presuppone la sua realtà sensibile, corporea. Essa si fonda sulla soggettività del credente, sulle «esperienze psichiche, di visualizzazioni o immaginazioni di convinzioni intime. Convinzioni che possono avere un referente reale - il mistico nella sua visione si collega realmente a Cristo - senza che lo sia la forma in cui si presenta» (11). La "visione" presuppone l'esperienza interiore, la peculiare condizione personale e ambientale, a partire da cui la «mediazione immaginativa» (12) - che l'autore evoca richiamandosi a Kant - si attua dando forma all'oggetto della sua aspirazione. Nel caso dei discepoli, «dentro la cultura del tempo, aperta alle manifestazioni straordinarie ed empiriche del soprannaturale, poteva funzionare con tutta naturalezza lo schema immaginativo della risurrezione come una specie di ritorno in vita» (13). I discepoli cioè credettero di vederlo in quanto predisposti a ciò da un contesto, un ambito spirituale. All'interno di questo orizzonte l'elemento decisivo, la scintilla, è provocata dall'esperienza fondamentale della morte di Gesù: «Il contesto vivissimamente emotivo causato dal dramma del Calvario» (14). È qui, nel dramma della scomparsa della persona cara, che matura «quello che potremmo chiamare kantianamente lo "schema immaginativo" per comprendere la risurrezione come già avvenuta» (15). Nel contesto messianico-escatologico di Israele la morte di Gesù provoca un vuoto lancinante, un'esperienza di dolore che preme verso la sua risoluzione. La croce di Cristo si "tramuta" nella risurrezione: «La risurrezione avviene sulla croce stessa» (16). Cristo, il morto, nella fede ritorna vivo. Torres Queiruga segue alla lettera, senza citarlo, Rudolf Bultmann: «Croce e risurrezione come evento "cosmico" fanno tutt'uno» (17). La risurrezione non è un evento reale che segue alla morte di Gesù in croce. È, simbolicamente, la trasfigurazione ideale di Cristo indotta dall'esperienza tragica della sua fine. In una forma paradossale, che è al centro del modello idealistico, l'assenza produce la presenza, il vuoto dà luogo a una pienezza, la privazione si tramuta in vittoria. Questo richiede che dalla croce sia rimosso l'aspetto di scandalo, in senso paolino: il Figlio di Dio appeso a quella che per i moderni è la forca. Questo aspetto sarebbe, nei Vangeli, una costruzione letteraria, non già un elemento storico. Torres Queiruga riconosce che «un'abitudine inveterata, che si appoggia fortemente sulla lettera dei Vangeli, ha condotto a vedere la croce come un luogo di "scandalo", che decretava la fine della fede dei discepoli, i quali a questo punto sarebbero fuggiti, negando e tradendo il loro Maestro. Per spiegare la loro ulteriore conversione dovette accadere qualcosa di straordinario e miracoloso che, con la sua evidenza irrefutabile, li avrebbe restituiti alla fede. Questo qualcosa sarebbe la risurrezione, che ottiene così un'autentica "dimostrazione" storica. Non si può negare che l'argomento abbia una sua forza, e di fatto continua a essere il più corrente nei trattati in uso. Tuttavia una riflessione più attenta ha fatto vedere, ogni volta con maggior chiarezza e più ampia accettazione tra gli studiosi, la sua natura di "drammatizzazione" letteraria con taglio apologetico» (18). Questa conclusione sarebbe comprovata dal fatto che «l'ipotesi di un tradimento o di un rinnegamento risulta profondamente incomprensibile e ingiusta con i discepoli» (19). Questi avrebbero tradito Gesù nel momento della prova suprema, sarebbero stati ingrati e senza cuore. Il che, per l'autore, è inammissibile. D'altra parte lo scandalo vale per i romani, non per gli ebrei: «I criminali di Roma erano gli eroi del popolo da essi assoggettato» (20).

La croce di Cristo, nell'ottica tutta positiva dipinta da Torres Queiruga, non è ciò che allontana, il luogo della solitudine. Al contrario è il punto coagulante della fede: «La crocifissione, con l'orribile scandalo della sua ingiustizia, appare come il catalizzatore più determinante per comprendere che quanto è accaduto sulla croce non poteva essere la conclusione definitiva» (21). La croce non è un punto di fuga, ma di "svolta". Conclusione obbligata, questa di Torres Queiruga, nella misura in cui tra la morte di Gesù e la fede della Chiesa nascente non accade nulla. L'idealismo, come filosofia del non accadimento, implica un corto circuito per il quale la fede deve precedere l'evento, non seguirlo. L'argomento secondo cui i discepoli fuggono, impauriti e demoralizzati, ha una "sua forza", come riconosce l'autore, e, tuttavia, non può essere ammesso. Il vuoto deve produrre il pieno, la morte farsi idea del Risorto, non già generare scandalo, fuga, disorientamento. Diversamente avremmo "apologetica", non storia. Nella sua effettualità il morto è una bandiera, il simbolo di una vita che non poteva tramontare.

Nell'orbita di Hegel

È singolare che Torres Queiruga citi a più riprese Kant - per la mediazione immaginativa della fede - e non richiami invece Hegel. Singolare perché la sua riflessione si colloca, in forma perfetta, all'interno dell'orizzonte speculativo idealistico, ricalcando la sua cristologia quella hegeliana, con discordanze che, per il tema trattato, sono del tutto marginali (22). Come per Hegel, così per il filosofo spagnolo, la rivelazione «non consiste nell'irruzione di qualcosa di esterno, bensì nella scoperta di una presenza che, forse ignorata e magari presentita, era già dentro e tentava di farsi conoscere» (23). Il cristianesimo riguarda l'ontologia, non la storia. Rivela ciò che è già da sempre presente, sia pure velato, nell'interiorità dell'io; è un rapporto immanente, non mosso dall'esterno. «Non è che in un dato momento Dio "entri" nel mondo per rivelare qualcosa con un intervento straordinario. Egli è sempre presente e attivo nel mondo, nella storia e nella vita degli individui, e sta sempre cercando di far conoscere la sua presenza, affinché riusciamo a interpretarla in modo corretto» (24). Per questo «quello che serve non è che il sole incominci a brillare, ma che le finestre siano aperte e pulite» (25). La Rivelazione non è Dio che si "rivela", poiché Egli lo fa sempre, ma la scoperta umana «che costituisce rivelazione in senso stretto» (26). Torres Queiruga destoricizza radicalmente il cristianesimo. Lo risolve in una struttura ideale, in una concezione gnostico-panteistica per la quale il Dio-nel-mondo brama di rendersi conoscibile perforando il velo d'ombra dell'umana ignoranza. Il Cristo storico, come in Hegel, è solo l'"occasione" del destarsi, nella coscienza, della consapevolezza del Cristo ideale. Al pari di Socrate Egli è la "levatrice" la cui arte maieutica porta alla luce il Dio-in-noi secondo la «ricca e profonda tradizione del magister interior» (27).

Questa prospettiva, l'idea di una rivelazione immanente, rispetto a cui il Cristo storico è solo una provocazione contingente, chiarisce il secondo punto di vicinanza tra Hegel e Torres Queiruga: la negazione della dimensione empirica della fede. Nelle sue «Lezioni sulla filosofia della religione» Hegel distingue una duplice fede: la fede esteriore e la fede interiore. La fede "esteriore" si fonda sul Cristo storico, sulla sua persona e autorità. Questa però, per Hegel, è una fede limitata, contingente. È «un modo esteriore, accidentale, della fede. La fede vera e propria riposa nello spirito di verità. L'altra concerne ancora un rapporto con la presenza sensibile immediata. La fede vera e propria è spirituale, è nello spirito: essa ha per suo fondamento la verità dell'idea» (28). Rispetto ad essa «la fede esteriore deve dunque essere considerata solo come un mezzo per giungere alla vera fede; in quanto esteriore è sottomessa alla contingenza e lo spirito raggiunge la sua verità non secondo la contingenza ma secondo la libera testimonianza»29. La fede interiore riposa sull'idea eterna, sull'ideale immanente dello spirito, non sui miracoli o su una rivelazione empirica. È quella fede che, secondo l'idealista Hegel, "produce" l'idea dell'Uomo-Dio, trasforma il morto in un risorto. La fede interiore opera la metamorfosi del Cristo storico, un utopista ebreo dal messaggio rivoluzionario, nel Cristo "teologico", divino. Grazie ad essa la figura di Gesù di Nazareth è consegnata alla memoria, al passato, alla prima non spirituale apparizione del divino.

Il punto che media il passaggio tra le due immagini di Cristo, quella empirica e quella ideale, - ed è il terzo elemento che accomuna la cristologia di Torres Queiruga a quella hegeliana - è la morte di Cristo. La morte è la risurrezione: questo topos della cristologia idealistica, da Hegel a Bultmann, è il vero nodo attorno a cui ruota gran parte dell'esegesi storico-critica. È un nodo che tiene, sul piano speculativo, solo se vale l'assunto della dialettica, quello per cui dal negativo procede necessariamente il positivo. Come scrive Torres Queiruga: «Lo stesso pensiero moderno, tanto filosofico quanto teologico, sa della capacità rivelatrice di questo tipo di esperienza, perché la stessa contraddizione al suo interno obbliga a cercare una sintesi capace di riconciliarla» (30). Nel caso della morte di Gesù «solo la risurrezione e l'esaltazione permettevano di superare questo terribile contrasto, che minacciava di affondare tutto nell'assurdo» (31). Dalla morte, dal negativo, emerge la necessità del positivo. Una necessità ideale: Cristo risorge nell'idea, nella concezione della comunità, nella fede interiore. Non nella realtà fattuale. In tal modo, come scrive Hegel: «Questa morte è il punto centrale intorno al quale ruota il tutto, nella sua concezione sta la differenza tra la concezione esteriore e la fede, cioè a dire la mediazione con lo spirito» (32). Ne viene, come conseguenza, che la fede autentica si fonda sulla morte di Gesù, non sulla sua risurrezione, sorge dal Cristo morto, non dal Cristo risorto. Il Cristo risorto non fonda la fede, è piuttosto "fondato", idealizzato dalla fede. L'idealismo, sotteso all'opposizione tra Cristo della fede e Cristo della storia, capovolge, in tal modo, i termini con cui, nella concezione della Chiesa, si presenta il rapporto tra fede e realtà. Nella misura in cui il Risorto presuppone già la fede nell'Uomo-Dio, quella fede deve sorgere, necessariamente, dalla sublimazione di una sconfitta. Il cristianesimo, come dogma, sorge dall'idealizzazione di un fallimento, non già dall'empirismo giovanneo fondato su ciò che è stato «visto, udito, toccato con mano».

Una morte incomprensibile e una fede senza risurrezione

L'idealismo storico-critico, fondato sulla dialettica del negativo, rende ardua non solo la comprensione della risurrezione - opera comunque di "visionari" - ma anche quella della morte di Cristo. Se Gesù non è stato condannato a morte per essersi proclamato Dio, perché è stato crocifisso? L'autoproclamazione divina è negata in nome della opposizione tra il Cristo storico e il Cristo della fede. Solo la comunità dei credenti divinizza Gesù che di per sé non si sarebbe mai concepito come Dio. Per spiegare il motivo della condanna non rimane che l'ipotesi politica: Gesù come potenziale zelota che, pericoloso per l'ordine romano, viene crocifisso. È il leitmotiv del Gesù "ebreo" che guida l'«Inchiesta su Gesù» di Corrado Augias e Mauro Pesce (33). Un'ultima prova di una ricerca, curiosa e a tratti non banale, che, tuttavia, non riesce, per i presupposti ancora una volta idealistici, a produrre nulla di nuovo. Il Gesù ebreo non cristiano (34) di Augias-Pesce è un utopista, vicino al gruppo di Giovanni Battista, contrassegnato da una totale fiducia in Dio e da un'attenzione particolare per gli ultimi. Un radicale senza tuttavia un'utopia sociale organizzata, che, al di là dei toni e della testimonianza, non mostra nulla di originale, nella morale, rispetto alla legge ebraica. Perché, dunque, questo sognatore, impolitico e inoffensivo, è stato mandato a morte? Pesce dichiara che non è per motivi religiosi ma politici che Gesù viene condannato dal potere romano. Le responsabilità dei membri del Sinedrio sarebbero opera della ricostruzione, posteriore, dei redattori dei Vangeli, filoromani. Quali sono, però, i motivi politici per cui Gesù viene condannato? Si tratta di sospetti sulla natura di un movimento, sorti in chi «non ha colto le reali intenzioni dell'azione di Gesù. Dunque si è trattato, da parte dei romani, di un grossolano e grave errore di valutazione politica» (35). Una considerazione, invero, sorprendente, che lascia interamente in sospeso i motivi della condanna a morte di Gesù. Non estesi, per altro, e anche questo risulta strano, ai suoi discepoli. Parimenti misteriosa rimane la risurrezione, affermata non da testimoni oculari ma da veggenti che "vedevano" all'interno degli schemi cultural-religiosi di Israele. Del pari totalmente enigmatico, nell'«Inchiesta», risulta essere il sorgere del cristianesimo. Pesce non è d'accordo «sull'idea che il cristianesimo nasca con la fede nella resurrezione di Gesù, né che nasca grazie a Paolo [...]. Anche Paolo, come Gesù, non è un cristiano, ma un ebreo che rimane nell'ebraismo» (36). Il cristianesimo sorgerebbe, più tardi, nella seconda metà del II secolo in un processo di ellenizzazione della originaria posizione ebraica. Rispetto a Hegel e a Torres Queiruga, Augias e Pesce aggiungono un'ulteriore frattura che rende ancor più enigmatica la nascita della fede cristiana. Nel quadro hegeliano il cristianesimo è mediato dalla morte di Gesù, il cui prodotto è l'idea del Risorto. In «Inchiesta su Gesù» esso sorge molto dopo la visione della risurrezione, frutto non della fede ma di una tardiva elaborazione teologico-filosofica di stampo ellenistico. Ciò che rimane fermo è il topos dominante: la fede non si fonda sulla risurrezione, la precede o la segue senza avere con essa rapporto. Un'impostazione che, invece di semplificare il problema, lo complica enormemente. Se il Cristo storico è quello descritto da Augias-Pesce, un ebreo osservante senza nulla di veramente originale, non si comprende come possa essere «l'uomo che ha cambiato il mondo». Non si comprende perché è stato condannato. Se quest'uomo ha terminato la sua vita nello scacco, non si comprende, per chi non accetta la necessità logica della dialettica, come da un morto possa sorgere, nella primitiva comunità, la fede in un vivente. Non si comprende, da ultimo, come il "Cristo della fede" possa prescindere dalla risurrezione, reale o immaginaria che sia, e formarsi solo nel II secolo, come vuole Pesce. Un destino singolare per il razionalismo storico-critico: nato con l'intento di rendere chiaro il contesto, esso riesce a delineare un quadro complessivo pieno di zone d'ombra e di salti nel vuoto. Il modello idealistico dimostra tutti i suoi limiti. Partendo dal pregiudizio che il fatto non possa essere accaduto - che Dio non possa divenire uomo e risorgere da morte - esso deve giustificare la fede come idealizzazione. Con ciò però la narrazione evangelica diviene incomprensibile. Se le descrizioni del Cristo risorto costituiscono il grande enigma, per il lettore antico e moderno, ciò nondimeno la sua rimozione genera una serie di interrogativi senza risposta. È il Cristo "storico" che diviene incomprensibile. Ritrovato, archeologicamente, sotto gli strati della fede, egli appare come un sognatore, radicale e ingenuo a un tempo, che non motiva l'incendio che ha investito la storia. Le conclusioni del razionalismo critico - trarre fuori un vivente da un morto, una rivoluzione spirituale da un utopista analogo a molti altri - sono profondamente irragionevoli. Lo scacco di questa posizione è la premessa "critica" per una ripresa di una posizione realista che non ha la pretesa di dimostrare il dogma, quanto di riconoscere che è contro ogni evidenza razionale, umana, affermare che la vista desolata di un crocifisso possa generare l'idea, gloriosa, di un risorto.

Note

1 A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, tr. it., Edizioni La Meridiana, Molfetta (Ba) 2006. Il testo, di cui non è indicato l'originale spagnolo, è una sintesi dell'opera maggiore, Repensar la resurrección. La diferencia cristiana en la continuidad de las religiones y de la cultura, Trotta, Madrid 2003.

2 A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., p. 8.

3 R. Bultmann, Neues Testament und Mythologie. Das Problem der Entmythologisierung der neutestamentlichen Verkündigung, Herbert Reich Verlag, Hamburg-Bergsted 1948, tr. it., Nuovo Testamento e mitologia. Il problema della demitizzazione del messaggio neotestamentario, in: R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia, Queriniana, Brescia 1973, p.119.

4 A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., p. 8.

5 Ibidem, p.42.

6 Ibidem, p. 48.

7 Ibidem, p. 47.

8 Ibidem, pp. 46-47.

9 Ibidem, p. 49.

10 Ibidem, p. 54. In modo identico Kant afferma: «La ragione non ha interesse a trascinare nell'eternità un corpo che (ammesso che la personalità poggi sull'identità del corpo) deve sempre, per purificato che sia, essere composto dalla stessa materia che sta alla base del nostro organismo e alla quale l'uomo stesso non si è mai attaccato durante la vita; né è comprensibile che cosa mai possa avere in comune col cielo questa terra calcarea di cui l'uomo è formato» (I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, tr. it., in: I. Kant, Scritti morali, Utet, Torino 1970, p. 457, nota a).

11 A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., p. 42.

12 Ibidem, p. 65.

13 Ibidem, p. 41.

14 Ibidem, p. 23.

15 Ibidem.

16 Ibidem, p. 53.

17 R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia. Il problema della demitizzazione del messaggio neotestamentario, op. cit., p.165.

18 A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., pp. 26-27. Corsivo nostro.

19 Ibidem, p. 26.

20 Ibidem, p. 29.

21 Ibidem, p. 30.

22 Sulla cristologia hegeliana si cfr. M. Borghesi, La figura di Cristo in Hegel, Studium, Roma 1983; Idem, L'età dello Spirito in Hegel. Dal Vangelo "storico" al Vangelo "eterno", Studium, Roma 1995.

23 A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., p. 59.

24 Ibidem, p. 36.

25 Ibidem.

26 Ibidem, p. 37.

27 Ibidem, p. 38.

28 G.F.W. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, tr. it., 2 voll., Zanichelli, Bologna 1974, vol. II, pp. 388-389.

29 Ibidem, vol. I, p. 283.

30 A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., p. 30. Corsivo nostro.

31 Ibidem, p. 31.

32 G.F.W. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, op. cit., vol. II, p. 372.

33 C. Augias-M. Pesce, Inchiesta su Gesù. Chi era l'uomo che ha cambiato il mondo, Mondadori, Milano 2006.

34 Cfr. ibidem, pp. 221 e 237.

35 Ibidem, pp. 168-169.

36 Ibidem, p. 201.