DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

La trascendenza divina nel Libro di Giobbe. di Cesare Cavalleri

C i sono testi che andrebbe­ro riletti almeno una vol­ta all’anno, e Il libro di Giobbe è in cima all’elenco. Nel­la mia rilettura annuale, in que­sti giorni mi sono fatto guidare dal commento di San Tommaso nella bella edizione curata da Lo­renzo Perotto (Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1995), e dalla versione commentata di Gianfranco Ravasi (pubblicata in prima edizione da Borla nel 1979 e più volte ristampata), che, a giudizio dello stesso Perotto, «è la più completa opera moderna». La problematica è ben nota, nel­la sua complessità. Giobbe, uo­mo ricco e profondamente reli­gioso, per permissio­ne divina viene privato dei suoi beni, dei suoi figli (sette maschi e tre fem­mine) e addirittura colpito nella sua carne da un’infezione che lo costringe su un letamaio a grat­tasi le piaghe con un coccio. Cio­nonostante, non rinnega Dio: «Il Signore ha dato, il Signore ha tol­to, sia benedetto il nome del Si­gnore ». I tre amici venuti per consolarlo, Elifaz, Bildad e Zofar, in realtà di­ventano i suoi accusatori: pri­gionieri dell’etica retribuzionista secondo cui il bene e il male so­no distribuiti secondo i meriti o i demeriti, cercano di convince­re Giobbe che, se è così punito, certamente è a causa dei suoi peccati. Interviene poi un quar­to personaggio, Eliu, che affac­cia l’ipotesi del valore medicina­le del dolore. Ma Giobbe prote­sta la sua innocenza, grida il suo strazio, chiama Dio a testimone. E Dio appare in un’impressio­nante teofania come creatore delle meraviglie cosmiche, i cui disegni restano insondabili data la distanza delle creature. Nell’e­pilogo, Dio condanna i tre ami­ci, mentre Giobbe è riconosciu­to fedele e riportato a una con­dizione di felicità superiore a quella di partenza.
Il punto più controverso è nel ca­pitolo 19 (25-26), dove Giobbe proclama, secondo la versione della Cei: «Io so che il mio re­dentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che
questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio». Tommaso interpreta que­sti versetti, pervenuti peraltro as­sai guasti, come fede di Giobbe nell’immortalità dell’anima e nella risurrezione della carne, e tutto il suo commento è orien­tato da questa convinzione. L’er­rore principale dei tre amici è di postulare una restaurazione del­la giustizia in questa vita, men­tre Giobbe la collocherebbe nel­l’aldilà.
L’analisi storica e filologica di Ra­vasi, invece, sostiene che al tem­po della redazione del Libro di Giobbe (dopo l’esilio babilonese che durò dal 587 al 538 a.C.) que­sta concezione non era vigente, per cui Giobbe avrebbe voluto vedere Dio già durante la vita ter­rena, come in effetti nel Libro ac­cade.
Mi sembra, tuttavia, che Tom­maso abbia ottime ragioni. Se la Scrittura va considerata nella sua unità, è lecito proiettare sul pas­sato le luci che si sono manife­state successivamente. L’ispira­zione della Scrittura può andare ben oltre la stessa comprensio­ne soggettiva dell’agiografo. Per esempio, noi interpretiamo in senso eucaristico il pane e il vi­no offerti in sacrificio da Mel­chisedec, il quale, evidentemen­te, nulla sapeva dell’Eucaristia. Dal momento che l’immortalità dell’anima e il destino nell’aldilà sono dottrina ormai acquisita, perché non ritracciarne i semi in parole di cui Giobbe stesso for­se ignorava la portata? Le profe­zie
diventano chiare quando so­no compiute, o, come direbbe Tommaso, la potenza si ricono­sce dall’atto. È significativo, in­fatti, che i contestati versetti giobbici siano tuttora in uso nel­la Liturgia dei defunti.
Il bello è che non si è tenuti a sce­gliere fra l’interpretazione stori­ca di Ravasi e altri esegeti mo­derni e l’interpretazione profe­tica di Tommaso e di alcuni Pa­dri antichi: possono essere ac­colte entrambe, tanto più che i temi in gioco (il dolore dell’in­nocente, l’assoluta trascendenza di Dio, la gratuità della fede, l’im­mortalità dell’anima e la vita fu­tura) sono inesauribili e dunque resistenti a ogni razionalizzazio­ne, soprattutto in poche righe
come queste.

© Copyright Avvenire 14 aprile 2010