DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

UN ALTRO HOMO MA È UN UOMO? La leggenda dell'anello mancante: un anello che lega chi a chi?


FIORENZO FACCHINI

« S
coperto l’anello di congiunzione fra l’uomo e la scimmia», oppure «scoperto l’antenato dell’uomo», sono frasi ad effetto che capita non di rado di sentire ogni volta che viene segnalato qualche reperto che può avere qualche interesse per l’evoluzione umana.
Nei giorni scorsi è stata lanciata la notizia del ritrovamento in Sudafrica dello scheletro parziale di un bambino risalente a due milioni di anni fa nella grotta Malapa, non molto distante da Johannesburg e da Sterkfontein, un sito ben noto nella paleoantropologia per altri reperti di ominidi segnalati nel 1947 e anche in seguito. Nella grotta sono stati trovati alcuni scheletri e per quello di un bambino di undici-dodici anni sono state fornite le prime osservazioni.
Viene riferito a una nuova specie australopitecina, denominata 'Australopithecus Sediba' (da un termine che in lingua locale significa 'buon inizio') e rientra nella fase evolutiva che ha preceduto la comparsa dell’uomo. Il nuovo reperto, come riferisce la rivista 'Science', presenta caratteristiche australopitecine nella morfologia e nella capacità cranica (420 cc), nella taglia corporea (un metro e trenta), nella lunghezza delle braccia. Può essere ritenuto un discendente dell’australopiteco africano, vissuto tra 3 e 2,4 milioni di anni fa. Ma alcune caratteristiche (minore sporgenza sopraorbitaria, ossa nasali rilevate, denti più piccoli, ischio più stretto, arti inferiori lunghi) dimostrerebbero qualche tendenza verso il genere Homo, tanto che alcuni pensano a una forma di transizione. Ma il genere Homo nell’epoca dell’australopiteco Sediba era già presente in varie località africane (Kenya, Tanzania, Malawi), per cui diventa difficile ritenerlo un suo antenato. Sembra più probabile che si tratti di un australopiteco africano sopravvissuto, sempre che l’attenuazione di qualche carattere australopitecino non sia da mettere in relazione con l’età giovanile. Ma al di là dei problemi aperti sulla diagnosi tassonomica, i nuovi reperti di Sterkfontein arricchiscono la rete degli ominidi non umani e ripropongono due problemi sui quali è aperto il dibattito: il problema della identificazione del genere Homo e dei suoi diretti antenati e quello della identificazione dell’uomo, giacché l’attribuzione al genere Homo non significa riconoscere l’uomo nel senso comunemente inteso. Il genere Homo viene fatto risalire a 2-2,5 milioni di anni fa con le specie Habilis ( Tanzania), Rudolfensis (Kenya, Malawi) e altri reperti. Gli antenati in discussione sono l’australopiteco africano, l’australopiteco afarense (Lucy), e il kenyantropo, ominidi riferibili a circa 3-3,5 milioni di anni fa. Ma secondo vari autori sarebbe necessaria una ridefinizione del genere Homo.
Altra cosa è riconoscere l’uomo nel senso filosofico, che pensa e agisce liberamente. Il criterio anatomico, compresa la capacità cranica, è fonte di incertezza, notava Jean Piveteau. Si pensi alla bassa capacità cranica dell’Habilis, come pure dell’Uomo di Flores. Sembra più indicativo il criterio culturale, cioè il riferimento ai prodotti dell’attività umana che debbono rivelare capacità di progetto e simbolizzazione. Ma anche su questa identificazione nel processo di ominizzazione non c’è un pieno accordo tra gli studiosi. Alcuni lo vedono solo a partire dalla forma moderna (150­100.000 anni fa). Ma l’uomo può riconoscersi non solo quando ci si trova di fronte a manifestazioni chiaramente simboliche (arte, sepolture), ma anche quando l’ominide è capace di realizzare intenzionalmente, non in modo stereotipo, degli strumenti, di progredire nella loro fabbricazione e di organizzare il territorio.

© Copyright Avvenire 14 aprile 2010


La leggenda dell'anello mancante


Aspettative deluse dallo scheletro di Sterkfontein
di Fiorenzo Facchini
Tratto da L'Osservatore Romano del 14 aprile 2010

Le agenzie di stampa lanciavano nei giorni scorsi il ritrovamento dell'anello di congiunzione tra la scimmia e l'uomo.

È un mal vezzo l'uso di questa espressione, ogni volta che c'è un nuovo fossile che interessa l'evoluzione dell'uomo, perché non c'è stata una evoluzione lineare. È più corretto parlare di forme intermedie o eventualmente connesse con la linea umana.

In ogni caso lo studio pubblicato su "Science" sui nuovi reperti sembra ridimensionare la scoperta che conserva comunque un suo valore. I reperti, ritrovati nel Sud Africa in una grotta non molto distante da Johannesburg e da Sterkfontein (la nota località che nel 1947 aveva fornito il cranio di Plesiantropo (o Australopithecus transvaalensis), risalgono a due milioni di anni fa e sono stati riferiti a un individuo di 11-12 anni appartenente a una nuova specie, Australopithecus Sediba (Sediba nella lingua locale significa "buon inizio").

Il fatto che sia stato trovato uno scheletro parziale, e non un reperto isolato, rappresenta il maggiore interesse per la ricchezza di informazioni che può offrire, ma rende anche più problematica l'interpretazione. Infatti i reperti hanno caratteristiche riferibili all'Australopiteco africano, cioè a una forma sicuramente non umana (da sottolineare la bassa capacità cranica: 420 cc), che si ritrova già tre milioni di anni fa, ma presentano anche qualche tratto che li differenzia dagli Australopiteci e richiamerebbe il genere Homo, identificato da molti autori in Homo habilis e Homo rudolfensis, di 2-2, 5 milioni di anni fa, vissuti quindi in epoca anche più antica del fossile rinvenuto.

Il nuovo reperto va ad arricchire la rete di ominidi non umani, rappresentata dalle forme australopitecine che hanno preceduto la comparsa dell'uomo. Fra di esse si cerca di individuare i fossili che potrebbero avere maggiore interesse per un collegamento con la forma umana, anche se non per un'ascendenza diretta. Qui va tenuto presente il concetto di parentela che viene ammesso per i diversi raggruppamenti dei primati, uomo compreso, anche se rimane problematico e poco pertinente parlare di anello mancante, proprio perché pare non ci sia stata una evoluzione lineare, ma piuttosto di tipo reticolare.

Si può parlare di antenato della forma umana, senza che ciò significhi una derivazione dalla scimmia, una espressione molto frequente quando si parla di evoluzione dell'uomo, ma impropria. Se pensiamo alle scimmie che conosciamo, dobbiamo dire che non siamo scimmie e non siamo figli di scimmie.

Tra l'altro, rispetto alle Antropomorfe (i Primati meno lontani dall'uomo dal punto di vista biologico), ci separa una storia di sei-sette milioni di anni, pur ricollegandosi sia gli Ominidi che le Antropomorfe a un ceppo comune dei Primati.

Si dovrebbe più correttamente dire che la comparsa dell'uomo sulla terra si connette a un ominide divenuto capace di autocoscienza e di libertà. È questo un passaggio che sul piano filosofico corrisponde a una "discontinuità (o salto) ontologica", espressa nel comportamento culturale, e chiama in causa, in una visione aperta al trascendente, il concorso di Dio creatore a motivo della specificità spirituale dell'uomo.

Quanto all'identificazione di questo momento nel processo della ominizzazione, la discussione rimane aperta e riguarda soprattutto la scienza. La identificazione anatomica del genere Homo, dal punto di vista tassonomico, non implica la identificazione dell'uomo in senso filosofico, capace di pensiero astratto e di libertà, per il quale si dovrebbe fare riferimento soprattutto al suo comportamento, non soltanto alle espressioni strettamente simboliche quali l'arte o le sepolture, ma anche ai prodotti della tecnologia che debbono rivelare capacità di progetto, di simbolizzazione e di autodeterminazione.