di Paolo Rodari
Tre giorni fa sul New York Times è
stata Maureen Dowd a dire che
“Benedetto XVI è determinato a proibire
che i preti prendano moglie”. E,
insieme, ad auspicare una sorta di liberazione
della chiesa cattolica dal
Papa. Come? Attraverso l’elezione di
una donna, magari di una suora, al
suo posto. Un tema, quest’ultimo, già
affrontato da diversi teologi seppure
in forma più nobile. Ovvero non toccando
direttamente la figura del Papa
come ha fatto Dowd, bensì andando a
cercare motivazioni teologiche a quel
sacerdozio femminile mai varato nei
duemila anni di storia della chiesa
cattolica (anche se c’è chi sostiene che
nei primi secoli qualche donna venne
ammessa a “sacris altaribus ministrare”).
Più recentemente, è negli anni
successivi il Concilio Vaticano II che
l’argomento è tornato a essere dibattuto.
Viste le nuove conquiste delle
donne, l’emancipazione dagli uomini
fino alla parità dei sessi, c’è chi si è
domandato se non fosse arrivato il
tempo di ridiscutere l’intero impianto
dell’ordinazione sacerdotale. Una richiesta
che è riecheggiata anche in
queste settimane in cui i casi di abusi
su minori commessi da preti hanno
guadagnato le prime pagine dei giornali:
se sono gli uomini a commettere
simili abusi, perché non sostituirli
con delle donne?
Ratzinger ha parlato apertamente
della cosa. Era il 2 marzo del 2006.
Nell’aula della Benedizione il Papa
incontrò il clero romano. E a domanda
rispose a braccio così: “Il ministero
sacerdotale dal Signore è, come
sappiamo, riservato agli uomini, in
quanto il ministero sacerdotale è governo
nel senso profondo che, in definitiva,
è il sacramento che governa la
chiesa. Questo è il punto decisivo.
Non è l’uomo che fa qualcosa, ma il
sacerdote fedele alla sua missione governa,
nel senso che è il sacramento,
cioè mediante il sacramento è Cristo
stesso che governa, sia tramite l’eucaristia
che negli altri sacramenti, e così
sempre Cristo presiede. Tuttavia, è
giusto chiedersi se anche nel servizio
ministeriale, nonostante il fatto che
qui sacramento e carisma siano il binario
unico nel quale si realizza la
chiesa, non si possa offrire più spazio,
più posizioni di responsabilità alle
donne”.
La biblista Marinella Perroni (insegna
Nuovo Testamento presso il Pontificio
ateneo Sant’Anselmo di Roma)
conosce bene la posizione del Papa. E
pur non parlando di sacerdozio femminile
afferma che nella chiesa “una
certa effervescenza attorno al tema
c’è”. Dice: “Le polemiche intorno alla
legittimazione del servizio liturgico
del lettorato delle donne, voluta in un
recente sinodo dei vescovi, va considerata
uno dei tanti sintomi del disagio
serpeggiante nelle chiese rispetto
alla questione dei ministeri”. Racconta
Perroni: “Quando ero bambina, mi
è stato accuratamente spiegato che
non potevo avvicinarmi all’altare né,
tanto meno, prendere in mano i vasi
sacri. Oggi diverse donne, soprattutto
nelle chiese latinoamericane o africane,
ma silenziosamente anche in Italia,
sono ‘parroche’, svolgono cioè quasi
interamente il servizio pastorale in
vista dell’edificazione della comunità
parrocchiale alla quale il vescovo le
ha destinate. Da questo punto di vista,
la distanza con le chiese riformate
sembra ridursi: le parroche fanno ormai
quasi tutto. Su quel quasi, che investe
essenzialmente i ministeri liturgici,
si gioca però un intero impianto
ecclesiologico, dato che la liturgia è
certamente il luogo privilegiato in cui
la chiesa rivela appieno se stessa, afferma
e conferma la sua consapevolezza
identitaria, veicola modelli di
organizzazione comunitaria più eloquenti
di interi trattati teologici”.
Donne quasi prete, dunque. Un
concetto che, detto così, senz’altro non
piace a Benedetto XVI il quale ha sì
affermato che è opportuno che le donne
abbiano più responsabilità all’interno
della chiesa – tema recentemente
ripreso anche da Lucetta Scaraffia
in prima pagina sull’Osservatore Romano
– ma nel maggio del 1998, quando
ancora era prefetto dell’ex Sant’Uffizio,
ha pure sostenuto un’altra cosa.
Aiutando Giovanni Paolo II nella stesura
del motu proprio Ad teundam fidem,
Ratzinger ha voluto venisse messo
nero su bianco che la natura dell’assenso
della fede è identica sia per
le proposizioni definitorie sia che per
le proposizioni definitive. Pertanto
queste ultime, come è ad esempio la
dottrina intorno al sacerdozio e all’ordinazione
di preti, non hanno un grado
di certezza inferiore alle prime. In
sostanza Ratzinger voleva che tutti i
teologi si impegnassero ad accogliere
“fermamente” le verità proclamate
“in modo definitivo” dal magistero,
senza che sia necessaria una esplicita
“definizione dogmatica”. In tale categoria,
precisava il testo, rientra l’insegnamento
pontificio sull’ordinazione
sacerdotale da riservarsi soltanto agli
uomini.
Massimo Camisasca è stato per anni
portavoce di Comunione e liberazione
in Vaticano. Poi ha fondato un
gruppo di preti missionari, la Fraternità
San Carlo, di cui è superiore generale.
Camisasca parla della Madonna
come colei a cui occorre guardare
per capire chi è il cristiano, perché è
in lei che “troviamo la forma di vita
essenziale comune a ogni battezzato”.
E’ guardando a lei che si capisce come
non vi sia ragione “per cui una donna
debba desiderare di diventare sacerdote”.
Del resto, dice Camisasca, “Gesù
stesso lo ha escluso, non per togliere
qualcosa al posto delle donne nella
chiesa da lui fondata, bensì per riconoscere
la loro suprema dignità. La
donna nella chiesa, la donna che si
mette alla scuola di Maria, ha molto
da insegnare ai sacerdoti. La donna
infatti ha un posto di rilievo nella vita
del sacerdote. Per molti preti, la madre
rimane un punto di riferimento
importante. Sanno che prega sempre
per loro, che li ricorda, che li attende.
Nei consigli pastorali accanto al sacerdote
siedono spesso donne che
hanno grandi responsabilità. Nelle
parrocchie la presenza femminile è
statisticamente maggioranza”.
Il tema della valorizzazione del ruolo
della donna nella chiesa slegato
dall’ordinazione sacerdotale venne
toccato più volte anche da Giovanni
Paolo II. I giornali diedero grande rilievo
a un intervento che fece il 4 settembre
del 1995 a Castel Gandolfo prima
della preghiera dell’Angelus.
Wojtyla disse che era sua intenzione
valorizzare il genio femminile nella
chiesa, seppure all’interno degli “ampi
spazi che la legge della chiesa già
riconosce loro”. Per maggiore precisione
il Papa fece l’elenco delle cose
che le donne possono fare: “Penso”
disse “alla docenza teologica, alle forme
consentite di ministerialità liturgica,
compreso il servizio all’altare, ai
consigli pastorali e amministrativi, ai
sinodi diocesani e ai concili particolari,
alle varie istituzioni ecclesiali, alle
curie e ai tribunali ecclesiastici, a tante
attività pastorali, fino alle nuove
forme di partecipazione nella cura
delle parrocchie, in caso di penuria
del clero, salvo i compiti puramente
sacerdotali”.
E’ nel “Sale della terra” (un colloquio
con Peter Seewald) che Ratzinger
dice parole importanti intorno all’ipotesi
del sacerdozio femminile. Lo
fa citando una diagnosi fatta da Elisabeth
Schüssler Fiorenza, una delle
“femministe cattoliche più importanti”.
Tedesca, Schüssler Fiorenza ha
studiato esegesi a Monaco. In passato
ha partecipato in modo convinto alla
lotta in favore dell’ordinazione delle
donne. Ma poi cambiò idea e iniziò a
dire altro. Spiega Ratzinger: “L’esperienza
dei sacerdoti-donna nella chiesa
anglicana l’ha portata a concludere
che ‘ordination is not a solution’, che
l’ordinazione sacerdotale non è una
soluzione, non è quello che volevano.
Ella ne spiega anche il motivo: ‘ordination
is subordination’, l’ordinazione
significa subordinazione”, mentre “un
inserimento organico e dipendenza è
proprio ciò che non vogliamo”.
Dice Ratzinger: “Si tratta davvero
di una diagnosi perfetta. Entrare in
‘ordo’ significa sempre entrare in un
rapporto di inserimento organico e di
dipendenza”. Per Ratzinger il punto
cruciale è uno ed è dato dalla domanda:
che cosa è il sacerdote? Qual è la
sua identità?”. (2. fine)
© Copyright Il Foglio 1 aprile 2010