DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Ma quale palingenesi femminile. Il prete sia più uomo, e non un’ameba disossata

Sgombriamo il campo da alcuni equivoci tornati
ripetutamente nel dibattito di queste settimane:
ritengo personalmente che con la pedofilia non
c’entri nulla né il celibato dei preti né un maggior
controllo delle donne su di loro. Prendere il toro
per le corna significa affrontare la sessualità nel
suo insieme, come crisi delle identità di genere che
travolge una chiesa già in affanno. Una chiesa che
non solo, come si dice banalizzando, è fatta di uomini
e partecipa dei vizi della società che la circonda,
ma addirittura una chiesa che rischia di condividerne
le miserie, se diventa sempre meno comunità
spirituale, sempre meno pietra di inciampo e sempre
più secolarizzata, uguale al mondo, proprio e soprattutto
là e dove ne proclama la condanna (anche
se la comunità orante dei fedeli e della stragrande
maggioranza dei loro pastori non è così, perché crede
davvero in Dio e nella sua misericordia).
Non mi convince, insomma, l’uso demiurgico, palingenetico
del femminile. La funzione di controllo
che la donna potrebbe svolgere al fianco di una personalità
debole e indefinita, potrebbe semmai peggiorare
la situazione, in un senso castrante e frustrante.
Il vero problema del sacerdote oggi è la sua
fragilità in quanto uomo-maschio: una debolezza
che riguarda tutto il maschile, anche laico. In questo
senso è verissimo che la pedofilia è in crescita
in ogni ambiente, anche se l’argomentazione non
deve essere una scusante per la chiesa. Può, al contrario,
farci capire che occorre un comune lavoro
sull’educazione dei giovani e non l’ennesimo accapigliarsi
tra laici buoni e cattolici depravati.
Il problema è che il prete deve essere più uomo,
e non un’ameba disossata, senza corpo e pulsioni.
Sì, deve crescere quale vero uomo, come lamentiamo
non ce ne siano più. Essere capaci di identificarsi
con l’appartenenza al proprio sesso, vivere la propria
scelta sacerdotale nel pieno dell’identità maschile
significa vedere e conoscere “di fronte” a sé
un uguale-diverso femminile. Per questo è fondamentale
e sempre meno procrastinabile che si dia
valore alla presenza femminile, già numerosissima
nella chiesa ma resa troppo insignificante, come
hanno cercato di dire quelle di noi che tanto insistono
per un Sinodo su queste tematiche.
Il sacerdote deve conoscere il femminile. Il che
non significa conoscere la donna in senso biblico
(anche se ritengo si arriverà, prima o poi, a una scelta
facoltativa sul celibato). Non c’è bisogno di un
rapporto sessuale perché ci sia una piena, ricca sessualità
identificata nel proprio genere, maschile e
femminile. Tante suore-monache e preti-monaci sono
celibi e sono veri uomini e vere donne. Mentre
l’abuso e la banalizzazione dell’erotismo rende tanti
laici sempre più analfabeti della propria e altrui
identità. Basta considerare la fatica dei nostri adolescenti
a guardarsi, a riconoscersi: le femmine che
espongono il proprio corpo-merce, in offerta a maschi
che non sanno letteralmente che farsene.
Torniamo alla chiesa. I guai sono venuti da un’idealizzazione
del primato maschile-clericale e dalla
sua sacralizzazione, giustificata da un rifiuto di
lunga durata della competenza, dell’equilibrio, dell’autorevolezza
femminile. Un’autorità femminile,
invece, i cui frutti sono così palesi dove veri uomini
di chiesa hanno saputo stabilire relazioni eccellenti
con donne che a loro volta non sceglievano il ruolo
prevaricante e castratorio di un femminile controllore.
Nell’attuale crisi delle identità si intrecciano
poi antiche diffidenze e demonizzazioni gnostiche
della corporeità, l’immaturità nella scelta sacerdotale
– alla quale a volte sembrano votarsi gli elementi
maschili più fragili e bisognosi di isolamento
e protezione – e una totale inadeguatezza nella formazione
dei seminari. Il tutto condito in salsa difensivamente
misogina, con un sacerdozio sempre più
visto come carriera e fonte di un piccolo o grande
potere compensativo delle proprie frustrazioni. Ma
tutto ciò non cambia se ci illude di rendere allettante
la vocazione aggiungendovi anche le pene matrimoniali.
Insomma: ci vorrebbe più corpo, e più corpo
sessuato. Le mani bellissime esibite dal giovane
Wojtyla, il suo corpo atletico quando nuota o quando
scia, quando recita da giovane con le sue amiche
attrici. E quando si piega nella vecchiaia dolente. Il
tutto ci trasmette un senso di vita che aiuta a scoprire
il senso della vita.
Nei difficili tentativi di dialogo con i non credenti
non conta solo la ragione ma anche il corpo di
un’umanità divisa tra uomini e donne. Non conta solo
il pensiero ma un soggetto incarnato in maschi e
femmine. Questi corpi devono vedersi e sentirsi nel
mondo della chiesa. Insomma più soggettività significa
anche più sapienzialità e cioè il meglio del femminile
e non il suo spauracchio.

Emma Fattorini

© Copyright Il Foglio 1 aprile 2010