DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Niente di nuovo sotto il sole: La predicazione di sant'Antonio contro i preti corrotti

Lo scandalo, che in queste settimane sembra colpire la Chiesa inatteso e improvviso, è sicuramente utilizzato ad arte, ma certamente non si può dire che non parta da alcuni fatti accertati. Proprio questi fatti, commessi da sacerdoti, diventano motivo di grave ferita della compagine cristiana. E ciò non è affatto nuovo. Lo possiamo vedere, per esempio, negli scritti di sant'Antonio, il quale - tra le altre sue grandi qualità - aveva quella di iniziare spessissimo i suoi Sermoni con un "discorso ai prelati", in cui fustigava i vizi e scopriva i peccati dei sacerdoti, proprio perchè potessero pentirsi, emendarsi e cambiando vita essere di giovamento al popolo.

Un saggio di tali discorsi lo troviamo nel par. 7 del Sermone per la IX domenica "post Pentecosten". Si noterà il modo allegorico di utilizzare i passi biblici, in particolare dei libri sapienziali. E' la tipica esegesi spirituale e morale del medioevo. Forse non troppo scientifica agli occhi dei moderni, ma certamente efficace quanto a insegnamento retto e forza esortativa. I predicatori e i vescovi prendano esempio dalla limpidezza, anche aspra, di queste parole e le citino abbondantemente nei propri discorsi...


«Lo schiavo che diventa re». Lo schiavo che regna è il prelato, schiavo del peccato, gonfiato dallo spirito di superbia, una scimmia sul tetto, che sta a capo del popolo di Dio, e del quale Salomone dice: «Un leone ruggente, un orso affamato, un principe malvagio sono a capo di un popolo povero» (Pro 28,15). Il prelato della chiesa, schiavo che regna e principe malvagio, è un leone che rugge con la sua superbia, un orso affamato con le sue rapine, che spoglia il misero popolo. E osserva che questo sventurato è ancora più crudele dell'orso affamato. Infatti sappiamo dalla Storia Naturale che l'indole dell'aquila e dell'orso è tale che mai fanno rapine nella zona dove hanno fatto il nido o scelto la caverna. O servo iniquo, risparmia almeno i tuoi fedeli, tra i quali hai posto il nido del tuo sterco e l'antro della tua cecità! Questo schiavo fa ai suoi sudditi ciò che fa l'avvoltoio ai suoi pulcini. Dice la Storia Naturale che l'avvoltoio spinge fuori dal nido il suoi pulcini prima che siano in grado di volare, e fa questo per avversione verso i suoi pulcini, avversione insita nella sua natura, originata dalla voracità: quando è affamato fa molte prede e allora incomincia ad essere geloso dei piccoli che vede crescere e ingrassare.
L'avvoltoio deve il nome al suo volo lento (lat. vultur, avvoltoio, e volatus tardus, volo lento), ed è a motivo della grandezza del corpo che non può avere un volo rapido. L'avvoltoio raffigura il prelato della chiesa il quale, ostacolato dalle cose temporali, non è in grado di levarsi in volo verso le cose celesti e staccarsi così dalle terrene. Egli, con il cattivo esempio della sua vita, scaccia i suoi sudditi; ancor prima che possano volare, che siano cioè in grado di disprezzare il mondo e di amare le cose del cielo, egli li getta fuori dal nido della fede e li fa desistere dai loro buoni propositi. Ahimè, quanti cristiani si sono convertiti all'eresia, dopo aver disprezzato, per il cattivo esempio dei prelati, il nido della fede, del quale dice Giobbe: «Io morirò nel mio piccolo nido» (Gb 29,18). E poiché per l'invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo (cf. Sap 2,24), questo prelato invidia i suoi sudditi, i suoi parrocchiani, quando li vede prosperare nell'abbondanza.
«L'invidioso dimagrisce a motivo dell'abbondanza degli altri» (Orazio). Se si tormenta a motivo della felicità dei suoi, a chi mai potrà augurare felicità? Di quale felice evento potrà mai rallegrarsi? Chi è malvagio verso i suoi, come potrà essere buono verso gli estranei? (cf. Eccli 14,5). Ecco dunque che per colpa di questo schiavo viene rovinata la chiesa di Gesù Cristo.
«Lo stolto rimpinzato di cibo». Anche questo è figura del prelato della chiesa, goloso e lussurioso, del quale è detto nei Proverbi: «Chi ama i piaceri e il vino non arricchirà» (Pro 21,17). E a costui dice ancora Salomone: «O Lemuel, non dare, non dare vino ai re, perché non c'è più alcun segreto dove regna l'ubriachezza; se bevono si dimenticano dei loro giudizi, cioè dei benefici, e tradiscono la causa dei figli dei poveri» (Pro 31,4-5).
Lemuel s'interpreta «in lui c'è Dio», ed è figura del prelato, nel quale c'è Dio a motivo della dignità del suo ufficio e - voglia il cielo - anche per la santità della vita. A questo prelato viene detto due volte, perché se lo imprima bene nella mente, il comando: «Non dare, non dare ai re il vino». Qui per re s'intendono tutti i fedeli cristiani, membra del sommo Re, ai quali, o prelato, non devi dare il vino, che è figura dei vizi della gola e della lussuria, non devi cioè corromperli con il cattivo esempio della tua vita.
«Non devi - ripeto - dare il vino», perché dove regna l'ubriachezza sia nel prelato che nel suddito, non c'è più alcun segreto di purezza e di castità. Non dare il vino perché, ubriacàti dall'esempio
della tua vita dissoluta, non dimentichino i giudizi di Dio e con iniquo giudizio tradiscano la causa dei figli dei poveri che domandano sia fatta loro giustizia.
Quando duole il capo, anche tutte le altre membra soffrono. Se si secca la radice, si seccano anche i rami. Infatti sta scritto nei Proverbi: «Se viene meno la profezia, il popolo diviene sfrenato» (Pro 29,18): se viene meno l'esempio della vita e l'insegnamento della verità da parte del prelato, anche il popolo si corrompe, perché vengono dimenticati i giudizi di Dio e viene tradita la causa dei poveri. Ecco quale rovina si abbatte sul popolo a causa della vita dissoluta del prelato, il quale, quando è sazio di cibo, si dimentica di Dio e del popolo che gli è affidato. Egli, come è scritto nei Proverbi, si comporta come la donna adultera, «la quale mangia e, pulendosi la bocca, dice: Non ho fatto niente di male» (Pro 30,20). Anche il prelato, nonostante tutto il male che ha operato, davanti agli uomini vuole apparire santo e giusto.


(Sant'Antonio di Padova - Sermones - Dom. IX p. pent, §. 7)