DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Passione barocca. I riti della Settimana Santa in Andalusia (Córdoba) e Sicilia (Leonforte). di Pietrangelo Buttafuoco

Pubblichiamo un brano del libro
“Cabaret Voltaire. L’Islam, il sacro,
l’Occidente” (Bompiani 2008).
Come una bocca spalancata, come
da una bocca spalancata che con
un urlo muto cerca la sua voce, le porte
di Nuestra Señora de Socorro spalancano
alla morte il mistero di Dio
fatto uomo.
Ed è un silenzio che corrode il cielo
di Córdoba, quando il primo canto
degli uccelli, lo stesso udito nel meriggio
festoso della Domenica delle Palme
– un ragazzino a cavallo di un asino,
come Gesù verso Gerusalemme –
svanisce, come svanisce il chiarore
nel nero manto di dolore su cui, sola
lampada spettrale è la luna, il Venerdì
santo convoca i penitenti al cospetto
della Misericordia.
I tamburi toccano l’allerta. Uno
squillo piagnucoloso di tromba conduce
con inesorabile lentezza i confratelli.
Una donna, assistita dalle
amiche, avvita in un angolo il canto
agghiacciante della Saeta. E’ la nenia
funebre, quasi un lamento gitano che
da secoli accompagna in Spagna la
processione del Crocefisso. I tamburi
staccano.
E poi c’è Leonforte. La luna è al
punto estremo della sua gravidanza.
E’ un lumine raggelante di chiarore, il
pallone di Selene. Già alle tre del pomeriggio
il cielo di Sicilia è sporcato
da un grigio cupo, orbo di qualsiasi
promessa: uccelli planano sbilenchi.
Per quel che il ricordo ci concede,
non hanno mai cantato il Venerdì. I
balconi sono tutti aperti, tutti s’affacciano.
I vigili urbani sono vestiti con
l’uniforme di rappresentanza, i professori
della banda s’inquadrano a testuggine
sul sagrato, arrivano i sacerdoti
con l’arciprete e arrivano i volenterosi
attrezzati di telecamera digitale
e macchine fotografiche. E’ straordinario
come la più sofisticata tecnologia
si pieghi, dopo, al Mistero.
Ancora Córdoba. Da un’altra parte
della città, a piazza del Potro, il luogo
un tempo descritto da Cervantes “dove
muli e contadini erano pressoché
indistinguibili”, c’è la Madonna Addolorata.
Assisa su un carro, vestita di
blu, col mantello regale di velluto,
guarda oltre la strabocchevole folla di
fedeli che dallo slargo arrivano in fondo,
chiusi nelle strettoia a Los Campos.
E’ una Madre che cerca il Figlio.
Nostra Señora Madre de los Desamparados
cerca il Santissimo Cristo de las
Penas. E’ una Regina. Regina di intercessione.
Regina paziente, Regina depositaria
di una devozione che non
può conoscere misura. Il lusso è un
pedaggio barocco. La statua della
Señora Reina de Los Angeles, per
esempio, nella fattura preziosa del
manto conta reticoli preziosi di fili
d’oro. Angeli le reggono l’aureola. Angeli
la seguono quasi aggrappandosi
alla schiena. Gioielli adornano il collo.
La segue San Giovanni Evangelista.
La seguono le preghiere. Piedi scalzi,
mortificazioni, veli di merletti e quindi
rosari, preghiere oleose faticosamente
aggrappate alla nube di incenso
che, pur gonfia di pietà, ruba agli
aranci il profumo, quello stesso profumo
che la Domenica della Santa Pasqua
saluterà la celebrazione della
Resurrezione.
Leonforte. La luna è alla curva
estrema della sua pienezza. Alla spicciolata
si raduna altro popolo, dai balconi
della Cuticchiata gli spettatori allungano
il collo verso il Golgota multicolore
fatto di gente arrivata per l’Appuntamento.
Golgota approssimativo
dove i bambini non si sa mai dove
metterli perché l’Uscita si spalanca
inesorabile dalla porta centrale della
Matrice e ad altezza di bambino non si
vede. L’Urna procede alta, meglio posizionarsi
defilati, oppure affidarli ai
confratelli che vanno alla vestizione.
La luna è al punto estremo della
sua rotonda luce. Sui cappelli a visiera
dei bandisti non si riflette malinconia,
ma proprio freddo lutto. Squilla
una tromba. E’ una sorta di richiamo.
Questa scena, uguale alla scena musulmana
di Siviglia, si chiama mulimento,
una parola che dovrebbe significare
sforzo, o forse solo una deformazione
della parola monumento.
La carne bianca spaccata dal chiodo
appare nello stesso istante dell’imbrunire.
Córdoba, Cordova. Ci sono 35 processioni
e 60 vare. Per tutta la durata
della Settimana Santa, regolate dalla
severa gerarchia delle confraternite,
retaggio di antiche corporazioni, attraverso
le strette e contorte strade di
Córdoba si consumano i riti della Passione.
Non c’è punto dove la processione,
ogni processione, non arrivi. Non
c’è punto di quella che fu orgoglio dell’islam,
“rivale in splendore con Baghdad”,
gran califfato di Al Andalus, pupilla
di Abd er Rahaman II, patria di
Ziryab, il geniale liutaio delle nawba
(mirabili suite di poesia e musica), che
Cristo, “profeta di carne”, non riconcili
dal dolore alla letizia della pace misericordiosa.
Córdoba dalle acque che
donano frescura, è la città “dell’intelletto
attivo tra Dio e l’uomo”. E’ infatti
la città di Averroè, il filosofo che insegnava
come, all’uomo “che se ne andava”,
fosse grata “l’intercessione della
notte, mentre il bianco dell’alba incalzava”.
Córdoba, custode di una tra le
più grandi biblioteche, è stata la città
attraverso la quale l’occidente del
buio conobbe la solarità perduta dei
classici greci. E Córdoba è tutto. A differenza
di Siviglia, la Settimana Santa
di Córdoba si svela nella sua caratteristica
più suggestiva, nel suo essere intima.
Quasi un corridoio attraverso
cui, i penitenti che attraversano la notte,
ognuno con la propria croce, avvertono
e vivono la contemplazione in
uno stato febbrile di estasi. I tamburi
si accompagnano alle trombe. Un unico
tuono di mille voci accompagna altre
Soleas. Le consorelle de La Magdalena,
chiuse in mantelle nere, mormorano
le cantilene di una religione di
popolo. Attraverso l’intrico delle Rejas
s’immaginano i patio. Statue, colonne
e mosaici. Córdoba come ognuno dei
suoi patio segreti, è di per sé una casa
chiusa verso l’esterno, un cortile centrale
a se stessa.
Leonforte. La luna reclama la sua
partecipazione. Sotto si celebra il supremo
funerale. Uomini vestiti di tuniche
e cappucci, sbucano dall’oratorio.
Sono due distinti eserciti: il Santissimo
Sacramento e l’Addolorata.
Sono bianchi e blu. Sono popolo e signoria
al contempo. Sono la treccia
che unisce le due braccia della pietà.
Schierati, scivolano silenziosi verso
l’antro carico di dolore. Gesuzzu è in
croce. Grappoli di cristiani aspettano
sforzando la coda dell’occhio per assistere
alla deposizione. Gli anziani di
voce lunga si mettono a cerchio per levare
il lamentu, è una sorta di sura coranica
dove si sovrappongono versetti
di rammemorazione della Passione di
Nostro Signore Gesù il Cristo. Questo
è il canto che accompagna la Quaresima
già dalle Ceneri. Comincia all’imbrunire
di ogni giorno e viene soffiato
agli angoli della strada in tutta
Leonforte. Di Venerdì Santo, levato in
alto con la noncuranza dei vecchi, ad
ascoltarlo, trapana la carne. Nel frattempo
che Cristo resta in croce dalle
navate della Matrice, sollecitate dai
sacerdoti, svettano le chiamate alla
“Misericordia”.
Córdoba, Cordova. Pura intimità. E
infatti non si concede che ben poco al
folclore. Córdoba, denudata nella sua
storia di antica capitale dell’Andalusia,
è un anello del compimento sapienzale.
Cattolica e musulmana nell’essenza,
ovviamente pagana, nella
brulicante partecipazione di popolo,
alla Puerta de los Viires, conferma la
forza archetipa dello “stare insieme”.
Devoti “esclusivamente alla Vergine”,
i fedeli partecipano del dolore vivo di
una Madre “comunque viva” rispetto
ad un figlio “comunque morto”. La
morte, attraversata nel percorso della
Settimana Santa, è per i cordobesi, il
padre vivente in eterno. La circolarità
di un enigma. E i cordobesi ne partecipano
totalmente, non senza stridente
contraddizione: vanno alle processioni,
ognuno con una pensante croce
sulle spalle, per espiare i propri peccati.
Poi, ognuno, prende posto nella
celebrazione della vita: i banchetti, il
vino e gli sguardi tra il foro di un cappuccio
e il merletto di un velo. Nella
Romerìa, nel pellegrinaggio che dal
Martedì arriva fino alla diafana pace
del Sabato, l’anima di questa città
consacrata alla Madonna è partecipe
dell’ansietà femminile. In un curioso
ritaglio, Oscar Wilde, con disinvolta
noncuranza riesce a ricollegare il filo
invisibile che accomuna Dioniso, il
dio dell’Olimpo fatto uomo, squartato
e mangiato dalle turbe vacillante dei
suoi seguaci, con Cristo, emblema di
crocifissione e nutrimento. Scrive Wilde:
“La notte di San Giovanni, in un
villaggio di pescatori, nel Mediterraneo,
la Vergine dei Sette Dolori si spoglia
del manto di velluto che nasconde
la sua statua antica, toglie i pugnali
che trafiggono il suo cuore di marmo,
e va sulla spiaggia. Qui le ninfe e
i centauri le fanno festa. Eros arriva
ad ali spiegate per salutare la Bellezza
tornata sulla terra, per abbracciare
sua madre. Ma all’alba ella si rimette
la cappa di dolore sulle spalle di marmo.
Eros la supplica di non lasciarla.
‘Devo tornare là donde vengo. Sappiatelo:
ho un altro figlio che molto ha
sofferto’”.
Dioniso è il dio “veniente” nel sacrificio
di sé. Cristo è il dio “veniente”
nel sacrificio di sé.
Leonforte. Il popolo è in chiesa, si
conclude il rito della Via Crucis e uomini
e bambini si affrettano a consegnare
ai sacerdoti oggetti sacri. Vengono
passati sul costato di Cristo per
suggellare l’attesa taumaturgica. Con
cadenza da muezzin e coperte dal suono
dei tamburi, riecheggia l’implorazione.
Per ogni chiodo che viene tolto
al Cristo ritorna il grido. Il Cristo cade
e, trattenuto da un lenzuolo bianco, è
deposto nella vara d’oro. Gli è sistemata
la corona di spine e quindi è
composto come un uomo in carne ed
ossa. Diventa il Cristo vero, Gesuzzu figlio
di Maria.
Córdoba, Cordova. La ripetizione
del rito della Passione, riconcilia i fedeli
al mistero del sangue. Passando
in mezzo alle piazze, le fila di penitenti
incappucciati, gli ordini religiosi, le
suore, gli stessi turisti coinvolti, incrociandosi
e convergendo in specifici
punti, come in un gioco di formicaio,
all’arsura della pietas portano il
conforto inebriante del sangue. Lo
squarcio nel costato di Cristo, il cuore
della Vergine, infilzato da sette spade
e mostrato nello strazio, sono i ferri di
un addio estatico. Al corpo e al sangue,
nel trionfo barocco di Córdoba,
corrisponde l’appuntamento con la
tauromachia. E’ il toro che la folla reclama.
C’è un sovraccarico di voluttà,
c’è l’espiazione, c’è la morte. Il torero
Finito de Córdoba centellina l’agonia
del toro per la festa dolorosa dell’Agnello
di Dio. Nel bosco di pietre, La
Mezquita, 850 colonne di granito, diaspro
verde e violetto, tra capitelli romani,
bizantini e califfalli catturati da
arcate arabe, lungo il camminamento
dove l’invocazione ad Allah il Misericordioso
è alternata, per l’alternanza
dei secoli, nei caratteri cufici e latini,
nella parte che si apre nella Puerta
del Perdòn si eleva un crocefisso alto
e imponente portato in spalle da cinquanta
penitenti. Il legno della croce
si offre nella sua crudezza. I sacerdoti
della cristianissima Andalusia accolgono
le braccia del Cristo morto, conservano
i chiodi e il sudario che, posti
in una teca, fanno seguire poi, ad accompagnare
la vara con dentro Gesù
rannicchiato nella sua corona di spine.
I confratelli incappucciati fanno
contorno al carro, i fedeli si segnano,
una mamma spiega al suo bambino
che il figlio di Dio s’è fatto uomo per
redimere i peccati del mondo, è morto,
e gli uccellini sugli alberi non cantano
in segno di lutto. E non piove,
non piove mai nella lunga notte del
Venerdì Santo. Le candele ad una ad
una rimbalzano per fare catenella, come
manine fragili, ed è allora che il
regno delle ombre, raccontato nella
città della Mezquita – che è stata la
più grande Moschea del mondo dopo
Mecca che i cristiani della Reconquista
hanno consacrato all’Assunta –
cerca la filigrana che i fiori di Córdoba,
custoditi nei cortili, restituiscono
come profumo.
La paura avvolge l’inconoscibile.
Spaurite, le cicogne annidate sui tetti
di Nostra Signora della Pace. La Città
vecchia, imbiancata di calce, accoglie
l’alba timida. E’ l’inconoscibile che
conduce la pietà.
Leonforte. E’ un funerale di popolo
questo. La luna rotola intanto rotonda
e senza un alito di vita. Comincia la
musica perché appare la vara d’oro col
Cristo. Ha la testa piegata e tutti vi cercano
lo sguardo, quegli occhi cancellati
dallo strazio. La musica è una cadenza
inesorabile. I confratelli raccolgono
Gesù portato a spalla dai sacerdoti e lo
presentano alla folla. C’è come un dondolio
in questa presentazione agli
astanti. E’ una scienza andalusa questa,
fino a qualche anno fa non si faceva
per spericolato modernismo, adesso
è stata ripresa per Giusta Tradizione.
Cristo viene dunque cullato, ma come
in un’arca meccanica. Nudo e bucato
da chiodi, povero Figlio seguito
dalla Madre, si avventura nell’oscurità
della morte. Nel primo passo si precipita
lungo la strada della Cuticchiata,
è una discesa, sembra scappare verso
un abisso, la musica lo spinge e la gente
sente freddo. La processione è fatta
di popolo che precipita senza altra
prospettiva che lo sguardo di Cristo e
il petto sanguinante di sua Madre. Un
tracciato già segnato da cumuli di legna
e frasche pronte per essere accese
al passaggio delle due statue. Il fuoco,
qui, serve a ricordare il Tradimento. E’
un argomento molto delicato questo
del tradire, si riferisce all’idea tutta siciliana
del Cristo abbandonato. Il fuoco
ricorda Pietro fermo davanti al falò.
Viene riconosciuto come un discepolo
del Nazareno dai sicari di Caifa e invece
nega, per tre volte. Davanti a ogni
sosta c’è dunque la vampa, produce un
chiarore algido e ripete quasi l’idea
della lampada usata nei commissariati:
serve a restituire ad ognuno la vergogna
del tradimento. L’abiezione per
eccellenza, in Sicilia, è “tradire a Cristo”.
La potenza di fede e religione in
questo Venerdì è dunque nel suo essere
nudo legno senza colori – senza pennelli
– perché ognuno vi presta la propria
carne e il proprio passo, il proprio
paese appunto, per ripetere il
Golgota.
Córdoba, Cordova. Pasqua si sveglierà
nelle maioliche. Le pietre
smaltate biancheggeranno nel blu.
L’odore di agnello al miele di eucaliptus
e la succulenta coda di toro
concederanno al viaggio mistico il sapore
del nuovo giorno. Le porte di
Nuestra Señora de Socorro sono spalancate
di nuovo alla vita.

© Copyright Il Foglio 3 aprile 2010