DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Teologia senza Croce. Fackenheim: il pensiero occidentale non ci ha strappato dalla fossa dell’Olocausto dove è mancato il Dio dei cristiani

di Riccardo De Benedetti
L’importanza di un libro si misura
sulle domande che pone, non per
le risposte che contiene. Molte di
quelle presenti nel libro di Emil L.
Fackenheim, “Tiqqun. Riparare il
mondo. I fondamenti del pensiero
ebraico dopo la Shoah”, sono laceranti
e da noi difficilmente ascoltabili.
Ora queste domande si possono leggere
grazie alla traduzione che ne fa
Martino Doni per le Edizioni Medusa
a ventotto anni dalla sua pubblicazione
negli Stati Uniti.
Tutto ruota sull’affermazione perentoria
e non aggirabile della dimensione
essenzialmente ontologica
della Shoah e sulla ricerca di quale
filosofia e teologia siano adeguate all’evento.
Costretto a occuparsi di ciò
che è accaduto agli ebrei, è la tesi
principale di Fackenheim, il pensiero
occidentale non è più in grado di
comprendere e interpretare il reale.
La Shoah, con l’enormità del suo accadere
e l’incancellabilità dell’orrore
che porta con sé, non può essere
dissolta in una delle tante totalità
concettuali che la filosofia ha prodotto
nel corso della sua storia. La filosofia
non solo ne è profondamente interrogata
ma, come voleva Adorno, è
ammutolita, paralizzata e cancellata.
I metafisici non ci hanno strappato
dalla fossa che si spalancava, urla
Fackenheim, in pagine di confronto
profondissimo con Spinoza e Rosenzweig
(la lettura della filosofia di
Heidegger è semplicemente drammatica).
Della Shoah può fare memoria, non
filosofia, solo chi l’ha subita, ritrovando
al fondo di questo racconto straziante
null’altro che la fedeltà a se
stesso del popolo ebraico. Nell’abisso
che si spalanca manca Dio. Cosa questo
comporti per tutti coloro che nel
ricordo di ciò che è accaduto ad altri
loro simili non possono far altro che
rivivere il proprio senso di colpa, è
però ancora da pensare. Come ripristinare
(tiqqun) la vita etica e morale
dell’occidente così brutalmente revocata
dall’ontologia distruttiva della
Shoah? Posto in questi termini ciò
che è accaduto nella Storia, prima e
dopo la Shoah, non può più avere una
misura sua propria. Che significato
potranno ormai avere le sofferenze
dei non ebrei se un evento storico è
strappato dalla sequenza degli altri
avvenimenti per assumere una funzione
che tutti li trascende?
Fackenheim è chiaro: solo gli
ebrei, tra le genti, hanno subito il tentativo,
per poco non realizzato, di essere
sterminati sulla base esclusiva
del loro essere. Solo a loro, infatti, è
stato imputato il crimine di esistere.
La scelta di ontologizzare la Shoah,
può essere letta come un’opposizione
preventiva ai tentativi di relativizzare
la Shoah e minimizzarla sul piano storico,
ma la strategia perseguita da
Fackenheim non è affatto priva di
conseguenze più ampie. Alcune di
queste si osservano abbastanza chiaramente
nella diversità di trattamento
che la memoria collettiva riserva
alle vittime di altri eventi storici, carichi
anch’essi di violenza e sadismo.
Al semplice ricordare i milioni di
morti dei socialismi reali si sono alzate
grida contro l’illegittimo “furore
comparativista”. Su Hiroshima, altro
esempio, dopo le grandi riflessioni di
Karl Jaspers e di Günther Anders
(scompare dai ricordi il suo “Essere o
non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki”),
è difficile ormai leggere
qualcosa di significativo. Dopo di che
si può pur convenire che la valutazione
storica è una cosa e il giudizio onto-
teologico è un altro, ma lo scarto
aperto dal trattamento che la sofferenza
dell’uomo riceve da questo modo
di impostare le cose rimane.
Cosa ci resta da fare e da capire
nella e della Storia una volta che l’abbiamo
ripiegata sulla Shoah? Possiamo,
che so, considerare le sofferenze
del Gulag come un pallido anticipo o
un altrettanto anemico seguito di ciò
che è accaduto agli ebrei? O un avvicinarsi
asintotico e quindi infinito della
condizione umana a quella delle vittime
della Shoah? O possiamo considerare
gli ebrei come il simbolo più perfetto
della condizione universalmente
tragica dell’uomo, e possiamo guardarli
come un vertice inarrivabile di
dolore e disperazione? E, anche in
questo caso, dovremmo ancora interrogarci
sul senso di questo “primato”,
per altro né voluto né cercato.
Ma Fackenheim procede oltre, va
diretto verso la teologia. Rifiuta qualsiasi
interpretazione espiatoria della
Shoah: gli ebrei non dovevano espiare
nulla e di nulla dovevano rispondere
se non della propria esistenza
come comunità di fedeli al Dio unico
con il quale hanno stretto un patto,
qualche volta disatteso, ma sempre riconfermato
e tenacemente difeso.
Credere quindi che la Croce cristiana
possa raccogliere e conservare il senso
di ciò che è accaduto è pura bestemmia,
se è vero che la presenza di
Dio la si riconosce nelle domande che
lascia senza risposta. E nella Shoah il
tacere di Dio è assoluto (Wiesel). Vero
anche che lo stesso Cristo agonizzante
in croce non ottiene risposta alcuna
dal Padre che invoca nel momento
dell’abbandono, e pur non producendo
alcuna consolazione pochi lo hanno
ricordato agli ebrei. A causa della
presenza-assenza di Dio dopo Auschwitz
è la vita dell’ebreo, non la sua
morte, ad essere sacra, dice
Fackenheim (è lo stato di Israele ora
a vigilare su questa vita). La conseguenza
è che la Shoah rimane evento
impossibile da redimere, e quindi radicale
e infinita inquietudine per il
pensare cristiano. Con tutta la delicatezza
con la quale si potrebbe avvicinare
la Croce ad Auschwitz il gesto
ormai non può essere accettato. Di
fronte a questo rifiuto resta solo lo
spazio della riflessione, dal momento
che il rifiuto della Croce interroga il
cristiano alla radice della sua fede. Il
fatto è che la Shoah si presenta agli
ebrei come la tragedia assoluta di
una salvezza mancata, dopo due millenni
di sofferenze ed esilio imputate
al cristianesimo.
Per la teologia ebraica della
Shoah non c’è alcuna corrispondenza
possibile tra la morte di Cristo e
quella degli ebrei. Anzi, da questo
lato la morte di un ebreo come Cristo
contro i milioni di ebrei innocenti
sterminati non recupera alcun significato
utile ad alleggerire il discorso
sulla colpa del cristianesimo. Di più,
è impensabile che qualcuno possa
concepire per gli ebrei un qualche
ruolo, fors’anche vicario, in un qualsiasi
dramma salvifico. Il sospetto
che la salvezza in Cristo e da Cristo
abbia potuto mettere in conto l’estinzione
del popolo eletto si aggiunge
come ulteriore motivo di angoscia.
Per larga parte dell’ebraismo post-
Shoah la cristologia ha uno stretto
rapporto con le persecuzioni che gli
ebrei hanno subito nel nome di Cristo.
Le attuali difficoltà che si registrano
nel dialogo ebraico-cristiano
sono comprese tutte all’interno di
questo rifiuto della Croce.
Sono ancora poche le idee teologiche
in grado di cogliere la dimensione
radicalmente critica che il libro di
Fackenheim ha fatto e fa emergere.
Se Cristo non è più in grado di riorientare
la Storia, anzi, se la sua stessa
Croce è motivo di rifiuto per coloro
che hanno provato e subito l’orrore,
su cosa si possono confrontare
ebrei e cristiani?
Mi chiedo, spero senza urtare la
sensibilità di alcuno, se non si possa
leggere nella teologia di
Fackenheim, un tentativo di sostituzione
del cristocentrismo. Dopo Cristo
è la Shoah a dover ricentrare la
Storia, lo fa in quanto evento inaudito
oltre il quale non c’è più nulla che
si possa intendere alla vecchia maniera
hegeliana dei superamenti progressivi
(per Fackenheim Hegel è il
pensatore cristocentrico per eccellenza).
La Shoah compresa come
evento insuperabile conduce direttamente
alla revoca di ciò che è essenziale
per i cristiani, vale a dire il ruolo
salvifico del Cristo. “Tiqqun” lo
mostra con una chiarezza alla quale
dovremmo riservare gratitudine.
E’ il nazismo ad aver spinto il cristianesimo
nella scomoda condizione
di dover continuamente ammettere
reticenze e colpe su fatti e testi, prassi
e convinzioni delle sue chiese e
della sua dottrina. Si può dire quasi
che ormai viva sotto l’ingiunzione di
emendare la propria colpa, in un processo
pressoché infinito, imparando
da questa sua pena a praticare lo
spazio residuale che resta alla fede.
Fackenheim è netto: “Accettando, se
non addirittura tollerando tacitamente,
la loro designazione di ‘ariani’,
i cristiani, pur non intenzionalmente,
finirono con l’abbandonare i
‘non ariani’ alla loro sorte. Si resta
profondamente turbati dall’insidiosità
di questo attacco nazista al cristianesimo,
forse il più profondo dei
molti, e non resta che rimpiangere
quel kairos che fu mancato. Come
possono i cristiani del dopo Olocausto
affrontare questo trauma?”.
Fackenheim riconosce che il nazismo
muove alla distruzione anche
del cristianesimo, non solo degli
ebrei, ma la debolezza che imputa ai
cristiani è di quelle da cui non ci si
riprende facilmente. Che significa,
infatti, per i cristiani accettare una
caratterizzazione razziale se non l’abiura
più radicale dell’essere della
propria fede?
Ma prima di poter superare
un trauma occorrerebbe riconoscerlo
e i cristiani questo, dice
Fackenheim, ancora non l’hanno fatto.
Sono, infatti, ancora sostenitori di
una teologia inadeguata, addirittura
impraticabile dopo la Shoah, perché
convinta che l’immane sofferenza patita
dagli ebrei possa ancora partecipare
di quella del Cristo, l’unica in
grado di operare la redenzione del
mondo. Anche in questo caso la franchezza
di Fackenheim è esemplare:
se l’uomo generico partecipando delle
sofferenze del Cristo le completa
facilitando la sua opera di redenzione,
lo stesso non può dirsi di una sofferenza
non scelta ma imposta e somministrata
da una potenza terrena nutrita
di un odio totalizzante ed esauribile
solo con la definitiva estinzione
del suo oggetto.
L’impossibilità di guarire il mondo
dopo quello che è successo obbliga i
cristiani a uscire dall’equivoco secondo
il quale basti chinarsi sulla tragedia
degli ebrei credendo che essa
in un modo o nell’altro abbia risparmiato
i cristiani. Non è vero, la Shoah
ha coinvolto i cristiani, sebbene a subire
il tentativo di sterminio siano
stati gli ebrei.
Dopo la Shoah non c’è modo di cogliere
nella Storia una qualche ripartizione
coerente e bilanciata delle responsabilità,
nello stile di una trimestrale
aziendale. L’unico modo di farlo
è quello, vetero-hegeliano, di ricomprendere
gli accidenti della Storia
all’interno del suo movimento. Ma
Fackenheim ci dice, con Jean Améry,
che la Shoah è un evento non più superabile.
Come la mettiamo?
La Shoah non è unica a motivo delle
sue dimensioni,
lo è nella sua metastoricità.
E’ un
evento che si verifica
nella Storia e
nello stesso tempo
in grado di trascenderla.
Il negazionismo
religioso, alla
Williamson, che
noi tutti riteniamo
inaccettabile, forse
ancor più di quello
storico, segnala
però che costoro
hanno percepito
meglio di altri la
posta in gioco, e per non capitolare
del tutto negano il presupposto evenemenziale,
cioè dicono che non è andata
come è andata. Se riconoscessero
che la Shoah si è verificata nelle
modalità descritte dai testimoni dovrebbero
accettare le conclusioni che
l’ebraismo ne trae in ordine non tanto
alla sola responsabilità storica del cristianesimo
ma anche nei riguardi della
sua insostenibile soteriologia. Il
Cristo non salva alcunché, questa la
confutazione pratica del cristianesimo
che il nazismo ha introdotto nella Storia
e che l’ebraismo non manca mai di
ricordare ai cristiani. Eppure entrambi
sanno che è solo da questo nodo
che potranno avviare tiqqun e teshuvah,
intesi rispettivamente come riparazione
e pensiero
della conversione.
Ma senza questa
preliminare chiarezza
il dialogo
ebraico-cristiano
continua a incespicare
su elementi in
fondo inessenziali,
senza prospettiva,
esposto ai venti di
ricostruzioni storiche
più o meno
plausibili, come è
il caso di Pio XII.
In effetti, il silenzio
che si rimprovera a
quel Papa non è solo un atto mancato,
come ha detto il presidente della comunità
ebraica romana Riccardo Pacifici
a Benedetto XVI, perché per i
cristiani l’efficacia dell’azione redentiva
nella Storia era in qualche modo
preservata da coloro che, da cristiani,
si adoperavano per la salvezza degli
ebrei. Questi cristiani non avevano bisogno
che il Papa parlasse per agire
come hanno agito. Ma è proprio que-
sto che la teologia della Shoah di
Fackenheim rimprovera ai cristiani:
di aver creduto ancora possibile una
qualche redenzione dopo un orrore
così indicibile. “Ad Auschwitz i neonati
venivano gettati nelle fiamme ancora
vivi. Le loro grida si potevano
udire in tutto il campo. Trovare una
redenzione nella sofferenza di questi
bambini, o di coloro che udivano quelle
grida, è un’impossibilità umana e, si
spera, anche divina”. Ma se è così quale
significato possiamo dare all’agire
di chi ha cercato di salvare anche uno
solo di questi bambini? Non è forse il
segnale di una redenzione possibile,
la cui economia è ancora tutta da comprendere,
per quanto non dovrebbe
poi essere così lontana da quell’economia
della salvezza prima rifiutata?
O è solo il rovescio, altrettanto insensato
e ininfluente, delle atrocità commesse
ad Auschwitz? Ma chi può assumersi
l’onere terribile di rendere
insensata la pietà?
La fede nella redenzione cristiana
dovrebbe essere così profondamente
scossa dalla Shoah da non potersi più
esercitare e pensare, ma perché più
di un cristiano, anche se “troppo pochi”
come disse Giovanni Paolo II a
Berlino nel 1996, si impegnò a salvare
gli ebrei? Lo fece contro il suo
stesso credo? O forse continuando ad
essere un cristiano era già quasi un
bravo ebreo?

Riccardo De Benedetti
è giornalista e saggista,
si occupa di filosofia

© Copyright Il Foglio 3 aprile 2010