"Fratello, se vieni a visitare la mia tomba, non devi piangere. Non è giusto addolorarsi per l'unione con Dio. Dopo la mia morte non cercare la mia tomba sulla terra: la mia tomba è nel cuore di coloro che amano". Più di una volta ho sostato anch'io a Konya, in Turchia, sotto la grandiosa cupola verde ove è collocato il cenotafio di Gialal ed-Din Rumi, il grande poeta mistico musulmano del XIII secolo. Accanto si leggono appunto le parole che ho citato e che egli aveva dettato per la sua epigrafe. Esse ci svelano una delle tante coincidenze spirituali tra le grandi religioni nella loro anima autentica. Un'antica preghiera musulmana invoca: "Dio mio, concedimi di morire nel desiderio di incontrarti. Concedimi di prepararmi al giorno dell'Incontro".
La morte, dunque, non come estuario che sfocia sul nulla, ma come l'Incontro per eccellenza con Dio nella casa del suo regno. Come dice Rumi, la nostra vera tomba non è nel sepolcro, ma nel cuore di coloro che amano, cioè quelli che hanno amore e fede dentro di sé, e quindi custodiscono una scintilla o un germe di eternità. E l'eternità è l'orizzonte a cui siamo destinati dopo la morte. Certo, ben diversi sono i sentimenti dominanti ai nostri giorni. Li esprimeva suggestivamente il cantautore Francesco Guccini nella sua Canzone di notte n.2: "Ognuno vive dentro ai suoi egoismi / vestiti di sofismi, / e ognuno costruisce il suo sistema / di piccoli rancori irrazionali, / di cosmi personali / scordando che poi infine tutti avremo / due metri di terreno". Già Cristo aveva considerato questa visione minimalista della vita nella parabola del ricco insensato che accumula senza posa per piombare in una morte sulla quale echeggia una voce terribile: "Quello che hai preparato di chi sarà?" (Luca, 12, 20).
Sulla scia della celebrazione pasquale che si distende in questi giorni, riproponiamo un tema che è nel cuore di ogni creatura, nonostante lo sforzo di esorcizzarlo, quello del morire, ma lo faremo da un'angolatura teologica, anzi cristologica. Se stiamo ai Vangeli, Gesù incontra direttamente tre cadaveri: quelli della figlia di Giairo (Marco, 5, 35-43), del figlio di una vedova del villaggio galilaico di Nain (Luca, 7, 11-17) e dell'amico Lazzaro (Giovanni, 11). Davanti alla morte anche Cristo soffre, la percepisce come un dramma; lui stesso, sentendola incombere su di sé, è travolto dall'angustia. Annota Marco: nel Getsemani, Gesù "cominciò a sentire paura e angoscia. Disse a Pietro, Giovanni e Giacomo: La mia anima è triste fino alla morte" (14, 33-34). E la sua implorazione è quella di ogni uomo che supplica di essere liberato dallo spettro della fine: "Abba', Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice!"; e l'evangelista ricorda: "pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell'ora" (14, 35-36).
Quando, alla fine, la morte gli piomba addosso, essa ha i contorni di una vera e propria tragedia. La sofferenza fisica lo attanaglia brutalmente, gli amici lo lasciano solo e, su tutto, incombe il silenzio del Padre: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Anzi, per Marco e Matteo, quella di Gesù è quasi una brutta morte: "Gesù, lanciando un forte grido, spirò... Gesù gridò di nuovo a gran voce ed emise lo spirito" (Marco, 15, 37; Matteo, 27, 50). Cristo rivela, in questo momento estremo, l'Incarnazione nella sua verità più lacerante: il Figlio di Dio, morendo, diventa veramente nostro fratello, perché la carta d'identità fondamentale di ogni figlio di Adamo reca sempre la data della morte, assente nella carta d'identità di Dio.
Eppure, anche in quell'istante e nei successivi, quando è un cadavere nelle mani ora crudeli dei soldati, ora pietose degli amici, Gesù non cessa di essere il Figlio di Dio. Ecco, allora, la radicale lettura cristiana della morte. Già appariva in quei tre incontri che sfociavano non su una risurrezione definitiva: la figlia di Giairo, il figlio della vedova e Lazzaro hanno, infatti, dovuto successivamente morire. Tuttavia, Cristo, facendo rivivere costoro temporaneamente, illustrava in maniera reale ed efficace il destino ultimo dell'umanità, la risurrezione, ossia la vita per sempre in Dio, il Vivente. La stessa redazione evangelica di quei miracoli di risurrezione tiene in filigrana quella di Cristo così da trasformarli in "segni" pasquali (esplicito è, al riguardo, Giovanni con la vicenda di Lazzaro). Questa luce avvolge in pienezza il morire di Cristo. Infatti, l'evangelista Luca all'abbandono del Padre, descritto da Matteo e Marco, sostituisce l'abbandono di Gesù al Padre: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito! Detto questo, spirò" (23, 46). E Giovanni, come è noto, presenta la morte in croce non più come il nadir dell'umanità di Gesù, bensì come lo zenit epifanico della sua divinità: "Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora conoscerete che Io Sono" (8, 28) e non c'è bisogno di ricordare che "Io Sono" è l'autodefinizione divina del Sinai (Esodo, 3, 14).
Da un lato, Cristo col peso reale della sua umanità non minimizza né elide lo scandalo del morire, la sua dimensione di oscurità, il suo bagliore cupo di dolore. D'altro lato, però, la sua divinità, attraversando la regione tenebrosa della morte, la irradia con la luce della sua eternità. Il Venerdì Santo della crocifissione e il Sabato Santo della sepoltura, segni decisivi dell'Incarnazione, si aprono alla Domenica di Pasqua, che è - per usare una famosa frase del profeta Zaccaria - "un unico giorno, non avrà più né dì né notte, ma verso sera risplenderà di nuovo la luce" (14, 7), evidente metafora dell'eternità. Come scriveva suggestivamente in Resistenza e resa, il diario della sua "passione" nel lager nazista, Dietrich Bonhoeffer, "venire a capo del morire non significa ancora venire a capo della morte (...) Non è dall'ars moriendi, ma è dalla risurrezione di Cristo che può spirare nel mondo presente un nuovo vento purificatore".
Un vento che san Paolo ha sentito soffiare così fortemente da farlo diventare non solo l'asse della sua cristologia, fin dal suo primo scritto che professa la "morte per noi" del Figlio di Dio (1 Tessalonicesi, 5, 10), ma anche dell'antropologia cristiana. Infatti, il passaggio reale di Cristo nella regione della morte trasforma il morire di tutti: egli "è morto per tutti, perché quelli che vivono (...) vivano per colui che è morto e risorto per loro" (2 Corinzi, 5, 15). In questa prospettiva la morte di Gesù è la liberazione della nostra prima e seconda morte, per usare il linguaggio dell'Apocalisse. Infatti, da un lato, "se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più (...) Egli morì una volta per tutte, ora vive e vive per Dio" (Romani, 6, 8-10). Egli, dunque, feconda il grembo della morte con la sua divina "rugiada luminosa", volendo ricorrere a un'immagine isaiana (26, 19) e ci fa risorgere non a vita transitoria ma alla vita eterna di Dio.
D'altro lato, però, egli ci libera anche dalla "seconda morte, lo stagno di fuoco" (Apocalisse, 20, 14), ossia dalla morte spirituale del peccato: "Cristo morì per i nostri peccati (...) Voi consideratevi morti al peccato, e viventi per Dio, in Cristo Gesù" (1 Corinzi, 15, 3; Romani, 6, 11). Oltre alla risurrezione dalla morte fisica, Cristo ci dona la giustificazione che libera dalla morte spirituale. Potente e fin audace è la frase della Seconda Lettera ai Corinzi: "Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio" (5, 21). Proprio per questo duplice effetto, l'evento pasquale - come si diceva - è capitale sia nella cristologia sia nell'antropologia cristiana. Paolo è, al riguardo, esplicito nella sua celebre asserzione: "Se Cristo non è risorto, vuota è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede" (1 Corinzi, 15, 14). Naturalmente la riflessione teologica paolina è molto più complessa, ma il cuore del suo pensiero batte proprio nella morte-risurrezione di Cristo come principio e sorgente della nostra morte-risurrezione integrale (fisica e morale) e il battesimo ne è l'efficace rappresentazione "sacramentale".
Un'ultima nota attorno al tema della morte di Cristo. Quell'evento è certamente un'umiliazione estrema per un Dio. San Paolo, nel celebre inno incastonato nella Lettera ai Filippesi, parla di una "kenosi" (ekènosen), un termine che indica uno svuotamento: "pur essendo nella condizione di Dio..., svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo..., umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce" (2, 6-8). Ora, questa scelta di solidarietà nei confronti dell'umanità è espressione di amore. È così che nel Nuovo Testamento la croce di Cristo diventa un segno d'amore. Chi non ricorda l'emozionante avvio del racconto della passione di Gesù secondo Giovanni: "Sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (13, 1)?
Anzi, in quella donazione suprema si può intravedere l'amore del Padre: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna" (3, 16). È un atto di amore libero e genuino, come osserva Paolo: "A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi" (Romani, 5, 7-8). A questo punto scatta una lezione per il fedele, è la via dell'imitazione da seguire.
Il filosofo danese dell'Ottocento Soeren Kierkegaard, nel suo Esercizio del cristianesimo, scriveva: "Che differenza c'è tra un ammiratore e un imitatore? L'imitatore è, ossia vuole essere chi egli ammira; l'ammiratore, invece, loda l'altro ma rimane personalmente fuori". Ebbene, san Giovanni, nella sua Prima Lettera, di fronte alla morte di Cristo per amore (il "dare la vita per la persona che si ama", come aveva detto lo stesso Gesù) ci invita non tanto all'ammirazione ma all'imitazione: "In questo abbiamo conosciuto l'amore, nel fatto che Cristo ha dato la sua vita per noi. Allora, anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli" (3, 16).
(©L'Osservatore Romano - 12-13 aprile 2010)