DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Quell’articolo dei Patti lateranensi che aiuterebbe a fare giustizia. Di Francesco Margiotta Broglio

Una dimenticata disposizione dei Patti del Laterano, l’articolo 23 del Trattato del ’29, potrebbe tornare d’attualità alla luce della ripristinata severità e fermezza ecclesiastica nei confronti di abusi sessuali commessi da personale «religioso». La norma, voluta, a suo tempo, dalla Santa Sede per controllare il clero recalcitrante, è in realtà la sopravvivenza dell’antico «braccio secolare» che assicurava la collaborazione degli Stati per dare effetti concreti e coercitivi alla giurisdizione ecclesiastica. La disposizione prevede, infatti, che «avranno senz’altro piena efficacia giuridica, anche a tutti gli effetti civili, in Italia le sentenze e i provvedimenti emanati da autorità ecclesiastiche ed ufficialmente comunicanti alle autorità civili, circa persone ecclesiastiche o religiose e concernenti materie spirituali e disciplinari». Una norma collegata all’articolo 5 del Concordato— articolo abrogato con la revisione concordataria del 1984— che imponeva allo Stato di non assumere o conservare nel posto (insegnamento, ufficio, impiego a contatto con il pubblico) i sacerdoti «apostati o irretiti da censura ecclesiastica». È, comunque, applicabile, come previsto consensualmente dal Protocollo addizionale al Concordato dell’84, a condizione che i previsti effetti civili siano «in armonia con i diritti costituzionalmente garantiti ai cittadini italiani». Se alcuni commentatori della disposizione originaria parlavano, per gli ecclesiastici e i religiosi, di un «corpo in certo qual modo pubblico» e facevano coincidere gli effetti giuridici con l’esecutorietà dei provvedimenti (parlando anche di «esecuzione forzata» di essi), la giurisprudenza aveva escluso ogni tipo di controllo («indebita interferenza») delle autorità civili, che avrebbe rappresentato una ingerenza di sapore giurisdizionalista, mentre la dottrina aveva insistito sull’automaticità della cessazione degli uffici a contatto con il pubblico ricoperti da ecclesiastici o religiosi.
La questione che si poneva, e si pone, era quella dei casi che avessero implicato la collaborazione degli organi dello Stato per l’applicazione, anche forzosa, delle sanzioni ecclesiastiche. Tra questi significativa la pena espiatoria della «proibizione o ingiunzione di dimorare in un determinato luogo o territorio» (canoni 1336,1 e 1337 del Codice di diritto canonico del 1983), che autorevoli giuristi consideravano da applicare, in caso di resistenza dell’ecclesiastico o religioso censurato al «confino» comminato, «mediante semplici misure di polizia» (Piga). Più complessa, oggi, la questione degli effetti di provvedimenti che comportino «per l’interessato la perdita di quel sostentamento di cui fruisce in virtù della propria condizione di chierico o di religioso» (Cardia) ai sensi della legge numero 222 del 1985 sul sostentamento del clero.
Quale occasione migliore, dopo la recente severa presa di posizione del Pontefice sugli ecclesiastici o religiosi, colpevoli degli ormai anche troppo noti «abusi» nei confronti di minori, per un rinnovato e quanto mai opportuno uso della preziosa disposizione del trattato lateranense sopra ricordata, per ottenere il rispetto effettivo delle decisioni delle autorità ecclesiastiche e, soprattutto, l’allontanamento del colpevole dalle «zone a rischio» con la destinazione, nel rispetto dei canoni ricordati, del medesimo in «luoghi o territori» opportuni.
L’indulgenza verso i trasgressori, recentemente invocata dallo stesso Benedetto XVI è certamente ammissibile sul piano religioso, ma essa non solo è penalmente rilevante, ma deve in ogni caso escludere la possibilità che i comportamenti abusivi possano essere reiterati e, quindi, che i peccati finiscano per moltiplicarsi. Se fosse necessario non è da dubitare che le autorità competenti dello Stato sarebbero senz’altro disponibili ad operare nello spirito della collaborazione concordataria, limitandosi, come ha detto la Cassazione (1980, numero 2919), a «verificare l’autenticità dell’atto, la competenza (assoluta) dell’organo che l’ha emesso e la non contraddittorietà all’ordine pubblico od a specifiche leggi dello Stato».

© Copyright Corriere della sera, 15 aprile 2010