DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Sangue nero sangue rosso. di Giampaolo Pansa

Posso dire che invidio Michele Serra? Lo invidio perché ha vent' anni meno di me e non è afflitto da troppi ricordi. Forse è per questo vantaggio che Michele è caduto nell' «intelligente trappola» tesa da Mario Pirani. Serra pensava che l'articolo pubblicato venerdì 7 novembre su Repubblica "La memoria delle vendette partigiane" fosse «fresco di giornata», come confessa nella sua "Amaca". E non la ristampa di un intervento già apparso tredici anni fa, il 5 settembre 1990. A differenza di Michele, non sono finito nella trappola di Pirani. In quel tempo lavoravo a Repubblica. E ricordavo l'articolo, anche perché la sua tesi non mi aveva convinto. La tesi può essere riassunta così: quanto è avvenuto nell'Italia del nord dopo il 25 aprile 1945 è tutto noto, studiato, pubblicato, risaputo, scontato. Dunque non vale la pena di ritornarci sopra. Nel post scriptum, vergato oggi, anno 2003 Pirani ribadisce questa opinione dopo l'uscita del Sangue dei vinti. Lui non si spiega perché mai il mio libro «torni a suscitare l'osanna dell'insperata riscoperta e le lamentazioni accorate di quanti s'inventano una persecuzione che, fin qui, avrebbe loro chiuso la bocca e impedito la ricerca storica». Certo un osanna senza motivo, dal momento che la mia ricostruzione di quegli eventi sanguinosi è soltanto la riscoperta dell' acqua calda. Impresa nella quale, par di capire, era meglio non mi cimentassi. E' davvero curioso il destino di questo libro. Prima ancora che uscisse ha destato molto interesse. E anche un succedersi di critiche che, mentre passavano i giorni (pochissimi, visto che è apparso il 14 ottobre) si sono attestate su linee sempre diverse e, a mio giudizio, sempre più facili da confutare. Si è cominciato col dire che la pubblicazione del Sangue dei vinti era inopportuna, dato il momento politico, con Silvio Berlusconi al potere, i post-fascisti nel governo, gli attacchi alla Resistenza. Ma chi stabilisce l'opportunità di un libro? Un nuovo ministero della Cultura popolare, a somiglianza di quello mussoliniano? Un Sant'Uffizio tornato a redigere l'indice dei libri proibiti? Non mi pare di vedere in attività nessun Illustrissimo Superiore incaricato della bisogna.
Poi c'è stato chi mi ha dato del falsario (uno solo, un politico socialista in disarmo). Falsario perché avrei scritto di fatti mai avvenuti. Ma sino a oggi nessuno, a cominciar da lui, è stato in grado di contestare l' insieme degli episodi che ho rievocato. Del resto, mi faccio scudo di Pirani: cose risapute, dunque cose vere, no? A quel punto, mi è stato rimproverato di non aver citato le fonti utilizzate. Ho respinto anche questo rilievo. Tutte le mie fonti sono indicate nel testo. E nel caso di fonti a stampa, ho sempre ricordato l'autore, il titolo, l'editore e la data di pubblicazione. Non contento, qualche storico accademico mi ha contestato di aver usato soltanto fonti fasciste. Sì, ho usato anche quelle, dopo averle controllate. Perché non avrei dovuto? Forse che le fonti sono buone o cattive a seconda della loro origine politica? Penso proprio di no. Allo stesso modo, mi sono servito di molte fonti antifasciste, spesso provenienti dagli Istituti per la storia della Resistenza. Mi occupo della nostra guerra interna, di liberazione o civile che dir si voglia, da quasi cinquant'anni. E dico ai miei cortesi contestatori: non fatemi così impreparato e minchione. Adesso, con l'articolo pre e post di Pirani, che ringrazio per tanta attenzione, mi trovo alle prese con l'obiezione di cui ho detto: si sapeva già tutto. Obiezione che ha dettato il titolo del paginone culturale di Repubblica: «Molti hanno discusso Il sangue dei vinti come se le vendette partigiane fossero un assoluto inedito - Quando si perde la memoria». Ossia quando si presentano come novità storie che nuove non sono. Anche in questo caso, ho qualche prova a contrario da addurre. La più ovvia è il successo del Sangue dei vinti, arrivato in meno di un mese a una tiratura di 150 mila copie, come può attestare l'editore, la Sperling&Kupfer. Se tutto fosse già noto, sarebbe accaduto quello che sta accadendo a questo libro? Credo di no. Il mercato, di cui tanto parliamo, si sarebbe dimostrato ben più avaro. La verità, la mia verità, s'intende, è un'altra. Ho dissepolto storie note, anche se a cerchie ristrette di opinione pubblica, storie poco note e storie del tutto ignote. Certo, non ignote ai testimoni dei singoli eventi. E alle famiglie delle persone uccise nella resa dei conti e, dopo, negli omicidi preventivi compiuti in alcune regioni italiane. Però storie sicuramente sconosciute non soltanto a un pubblico vasto, ma anche al vicino della porta accanto. A chi viveva nella stessa città o nel medesimo paese delle vittime. A chi non ha mai saputo nulla del dopo 25 aprile, perché la scuola o la saggistica dominante non glielo hanno mai raccontato.
Il vero difetto del Sangue dei vinti è, semmai, un altro: che dice meno di quanto è avvenuto per mesi e mesi, e in certe aree sino all'autunno 1946 e anche oltre. Di alcune province non ho potuto occuparmi. E di molte tragedie non sapevo nulla. Ne so di più adesso, grazie alle tantissime testimonianze che sto ricevendo. L'altra prova che non si tratta di un libro scontato me la offre proprio il Pirani del 1990. Là dove ricorda che «una storia della violenza in Italia è ancora tutta da scrivere». E là dove sostiene che «l'analisi storica sul nostro passato è ancora monca e di parte». «D'accordo, in questi ultimi tredici anni la ricerca è andata avanti. Ma da storico dilettante vi ho contribuito anch'io (non cito i miei titoli per non passare da presuntuoso). Per restare agli storici professionali, conosco da anni il libro del tedesco Hans Woller, che Pirani mi cita come modello. Ma conosco altrettanto bene gli studi di storici italiani più informati di Woller, come Guido Crainz, Mirco Dondi, Gianni Oliva e Massimo Storchi, per ricordarne soltanto alcuni. Anche loro hanno contribuito ad aprire una porta che per molti anni è rimasta chiusa.
E che doveva restare sbarrata per chissà quanto tempo. Perché doveva? Qui arrivo al nocciolo del problema. Perché, dopo una guerra civile, i vincitori sono gli unici che hanno il diritto di parlare, scrivere, pubblicare. I vinti hanno l'obbligo di tacere. E' accaduto ai fascisti sconfitti e per qualche decennio. Potevano pure offrire in giro i loro ricordi. Ma nessun editore importante li accettava, tranne in casi isolati, come per Giose Rimanelli e Carlo Mazzantini. Dovevano stamparseli a loro spese. E nessun giornale autorevole li segnalava. Adesso non è più così. Dobbiamo rammaricarcene? Ascoltare le voci degli altri è tradire la Resistenza? Raccontare le storie dei tanti morti per vendetta o per odio politico significa schierarsi con i fascisti? Al contrario, io credo che fare questo rafforzi la memoria della Resistenza, la sua carica di libertà, la sua credibilità democratica, la sua pietas. Chi mi dà del voltagabbana per averlo fatto, non merita risposta. E a proposito di capire il perché di una resa dei conti spesso brutale, Pirani definisce «un'autentica sciocchezza» e «ridicola» una delle spiegazioni che nel mio libro ho ricordato, citandola dal lavoro di Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin, pubblicato dal Mulino. E' la tesi, per me invece convincente che i dirigenti comunisti italiani intendevano indebolire un'intera classe, la borghesia, e sostituire il vecchio ceto dirigente con una nuova leadership in cui il Pci fosse pienamente rappresentato. E' esattamente ciò che è accaduto, dopo il 25 aprile, in tante località, anche piccole. Dove sono stati giustiziati il podestà, il segretario comunale, il medico condotto, la maestra, l'ostetrica, il possidente o il commerciante più in vista. «Piccole figure senza grande rilievo», come le chiama Pirani? Ceti medi di serie C, che non potevano interessare alla grande politica di alleanze del Pci togliattiano? Ma accoppando questa gente, e facendo sparire i loro corpi, si creava un vuoto che sarebbe stato riempito da un altro ceto. In una seconda fase, dalla metà del 1945 alla fine del 1946, si cominciò a mirare più in alto. Soprattutto in Emilia-Romagna e per opera di una frazione del Pci, un partito deviato cresciuto dentro il partito più grande. Allora cominciarono a essere uccisi il prete battagliero, il manager inviso, l'attivista democristiano, il militare non comunista, l'avvocato liberale, persino un sindaco socialista. Tutti delitti senza neppure il pretesto dell'antifascismo. Ne racconto alcuni nell' ultima parte del Sangue dei vinti, che non è soltanto un libro sul triangolo rosso. A uccidere erano partigiani comunisti che «volevano fare l'epurazione a modo loro», come ammise un sindaco del Pci. E che s'illudevano di cominciare una seconda guerra civile, per la conquista del potere politico in Italia.
Il partito di Togliatti li coprì. Li fece espatriare in Cecoslovacchia e in Jugoslavia. Permise che andassero in galera compagni innocenti al posto di quelli colpevoli. Spinse dei militanti ad accusarsi di un delitto mai commesso per salvare un dirigente sotto processo (il delitto dei conti Manzoni, a Lugo). Un «verminaio», come lo chiamo nel Sangue dei vinti. Così inquinante che, nell'autunno 1946, Togliatti si decise a convocare a Reggio Emilia i sindaci e i capi comunisti di Bologna, di Modena e di Reggio. E gli impose: adesso basta! Ecco una delle storie ancora tutte da scrivere.
«La Repubblica» del 13 novembre 2003