Il celebre matematico settecentesco
Leonhard Euler conosceva a memoria
l’intera Eneide ed era capace, pur divenuto
cieco, di calcolare a mente uno sviluppo
in serie fino al settimo termine dettando il
risultato a un assistente: per chi non conosce
la matematica significa fare un mare
di calcoli difficili, ritenendo a memoria un
numero enorme di risultati parziali. Al
confronto, il miglior matematico vivente
farebbe la figura di un “discalculico”. La
“discalculia” è definita come un disturbo
che si manifesta come “difficoltà negli automatismi
del calcolo e dell’elaborazione
dei numeri”. Se confronto la calligrafia
dei miei figli con quella di mio padre constato
un crollo di qualità tale da considerarli
come affetti da “disgrafia”, la “difficoltà
di realizzazione grafica”. Per non dire
della “disortografia”.
A pensarci bene, non c’è da stupirsi. Secoli
fa il calcolo mentale e l’arte della memoria
erano considerati una virtù da coltivare
intensamente. Oggi facciamo persino
il conto della spesa sulla calcolatrice
del cellulare e imparare le tabelline è opzionale.
Diciamo, per carità di patria, che
usiamo le nostre facoltà mentali in modo
diverso. Perciò circola una legione di discalculici,
tra cui coloro che non amano i
numeri. Per quanto riguarda poi lo scrivere,
sarebbe strano stupirsi che siano in aumento
esponenziale i “disgrafici”, visto
che insegnare a tenere correttamente una
penna in mano e a maneggiarla secondo
regole efficaci è considerato repressivo e
reazionario: vorrei segnalare, al riguardo,
le lucide riflessioni di Angelo Panebianco
sulla mania nostrana di apprezzare non
ciò che è ragionevole ma ciò che è “moderno”.
Quanto alla crescita dello stuolo dei
“disortografici” c’è chi pretende che sia
dovuta a “difficoltà nei processi linguistici
di transcodifica”; ma bisognerebbe
chiedersi se, anche qui, non intervenga il
fatto che stimolare la capacità di tradurre
correttamente in testo scritto le parole
pensate è ormai considerato una fisima
reazionaria.
Sta di fatto che, invece di esplorare ragioni
come quelle accennate, ci si è
orientati da tempo verso l’approccio “curativo”,
raggruppando i detti disturbi, assieme
alla classica dislessia, sotto l’acronimo
Dsa, Disturbi specifici di apprendimento.
Il Dsa sta per essere riconosciuto
da una legge nazionale come... malattia?
Per carità. Il Dsa – si dice – si manifesta
in soggetti con capacità cognitive adeguate,
in assenza di patologie neurologiche e
di deficit sensoriali. Insomma, è una sindrome
in stato di normalità ma che dà
problemi. Ma allora tanto varrebbe introdurre
acronimi, definizioni e leggi che
definiscano o curino la pigrizia, l’obesità,
la logorrea, la miopia, la petulanza, la distrazione
e via dicendo. Ma nella legge
c’è la contraddizione: si dice difatti che la
diagnosi di Dsa viene effettuata dagli specialisti
del Servizio sanitario nazionale,
ovvero medici, psichiatri e psicologi. E
poiché il Servizio Sanitario Nazionale cura
le malattie, rispunta surrettiziamente
la definizione del Dsa come patologia. E
che sia una patologia è confermato dal
fatto che la discalculia non viene diagnosticata
dall’insegnante di matematica, o
la disortografia da quello d’italiano, bensì
da medici, psicologi e psichiatri.
E’ il gioco delle tre carte: da un lato, si
nega trattarsi di una malattia – sarebbe arduo
definire tale un insieme di “sintomi”
generici e disparati – ma al contempo la si
considera tale riducendo a trattamento sanitario
un problema che anziché Dsa potrebbe
essere Dsi, come ha fatto rilevare
un preside con quarant’anni di esperienza,
ovvero Disturbi Specifici di Insegnamento.
Il gioco delle tre carte è abile perché,
se provi a lamentare la tendenza alla
medicalizzazione, ti si risponde che non è
vero, in quanto nessuno ha parlato di patologie,
e che comunque il problema sarà
affrontato con metodi psico-pedagogici.
Ma allora, perché un passaggio diagnostico
di tipo sanitario? Perché, a dispetto dell’affermazione
che il Dsa non è dovuto a
patologie neurologiche, ci si è ingegnati a
trovarne le cause materiali – malnutrizione
alla nascita, effetto dei vaccini, mancanza
di omega 3 e altre amenità – che
stranamente non lascerebbero tracce materiali.
Per risolvere l’incerta questione
sono intervenuti i soliti neuromani, quelli
che fanno la risonanza magnetica persino
ai salmoni morti, che hanno cercato le “diversità”
strutturali dei Dsa nel cervello. I
risultati sono incerti, qualcuno parla di
“anomalie” della corteccia, altri di “zone”
del sistema visivo, altri dei neuroni a specchio.
Su tutto grava l’assurdità di un metodo
che pretende di stabilire correlazioni,
per giunta basate su statistiche rozze, tra
le mappe di funzioni elementari e comportamenti
umani estremamente complessi,
correlazioni mai stabilite in modo accettabile.
Si noti che mentre alcuni psichiatri
sostenitori dell’esistenza del Dsa, ma prudenti,
stimano in 0,1 per cento i bambini
affetti, i fautori della legge parlano di un
3-5 per cento, da cui deriverebbero conseguenze
imponenti, visto che la legge prevede
riduzioni di impegno scolastico e orari
flessibili per i genitori. Se a una simile cifra
si aggiunge quella dei bambini affetti
dall’altra “malattia”, l’Adhd, Attention Deficit
Hyperactivity Disorder, la “sindrome
del bambino agitato”, il numero di minori
con problemi raggiunge percentuali inaudite.
C’è di che pensare a una degenerazione
della specie umana. L’esistenza dell’Adhd
fu decretata a maggioranza, nel
1980, dall’Associazione degli psichiatri
americani e “poi” ci si è ingegnati a dimostrare
la verità di tale delibera. Anche qui,
dopo aver ipotizzato anomalie cerebrali di
ogni tipo, sono scesi in campo i neuromani,
per individuare con risonanza magnetica
(e al solito modo fasullo) diversità cerebrali
che dimostrerebbero l’esistenza
della patologia. Ma quel che è specialmente
grave nel caso dell’Adhd è che dagli Stati
Uniti – dove si è arrivati alla cifra di diciassette
milioni di diagnosi – si è diffusa
una medicina, il Ritalin, che è nient’altro
che un sedativo: è facile intuire quanto
possa essere pericoloso somministrare sedativi
a un bambino in crescita.
Ma tant’è. Abbiamo visto per decenni,
nel film “Il pellegrino”, di Charlie Chaplin,
un bambino iperagitato che picchia
tutti, combina guai, incolla la carta moschicida
sulla faccia della gente, mentre la
madre tenta di calmarlo con inadeguate
moine. L’abbiamo visto come paradigma
della maleducazione, nel senso stretto del
termine. E’ finita: l’educazione è un processo
in via di sparizione, quantomeno nel
senso di un rapporto tra persone. Esiste
soltanto la diagnosi e la terapia delle anomalie
di individui-monadi. Tutto è ridotto
a processi biologici. Siamo un aggregato di
“diversità” da trattare in termini sanitari,
da conformare a criteri di normalità definiti
secondo criteri “scientifici”, si fa per
dire. La società è vista come una gigantesca
clinica che ha come “mission” la modellazione
degli individui su quei criteri.
La solita ideologia scientista invade ogni
aspetto della vita personale: si va dal progetto
di confezionare un individuo perfetto
fin dalla nascita, alla subordinazione
della scuola al sistema sanitario, allo
stressometro negli uffici, e via delirando;
tutto sotto la dittatura sempre più soffocante
degli “esperti”, psicologi, psichiatri,
neurologi, misuratori delle qualità.
Giorgio Israel
© Copyright Il Foglio 29 aprile 2010