DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Teologia del corpo. Un libro su Giovanni Paolo II spiega che il cristianesimo ha molto da dire sul sesso

Esce in questi giorni, per Piemme,
“Chiamati all’amore. La teologia del
corpo di Giovanni Paolo II”, di Carl
Anderson e Josè Granados. Uno
strumento utile per riflettere, ancora una
volta, sul rapporto della contemporaneità
con il corpo e per comprendere il
contributo del cristianesimo a una
visione unitaria dell’essere umano. Il
tema è quindi dei più attuali dal
momento che, secondo Giovanni Paolo II,
noi viviamo in un’epoca segnata da un
“nuovo manicheismo”, nel quale “il corpo
e lo spirito vengono fra loro radicalmente
contrapposti: né il corpo vive dello
spirito, né lo spirito vivifica il corpo”.
Effettivamente il rapporto dell’uomo
contemporaneo con il suo corpo è
estremamente conflittuale: un rapporto
materialistico da un lato e spiritualistico
dall’altro. Materialistico perché la
riduzione dell’uomo alla sua fisicità porta
ad un vero e proprio culto del corpo, che
diventa esibizione insistente, volgare, in
tv o nella moda. Al corpo si affida spesso
il compito di rappresentarci,
interamente. Al corpo, inoltre, si chiede
di essere fonte di piacere, assoluto e
duraturo, dimenticando che la sessualità
“promette molto, ma da sola, mantiene
ben poco”, qualora non sia “inserita nella
dimensione più profonda che ci rivela: il
rapporto d’amore con l’altra persona”.
Spiritualistico, gnostico, dualistico, il
rapporto dell’uomo moderno col suo
corpo, perché in verità assomiglia a
quello tra Vitangelo Moscarda e il suo
naso, in “Uno, nessuno, centomila” di
Pirandello; alla relazione smarrita tra
l’arte, quella moderna, che non
rappresenta più né il corpo né la natura,
ed il creato, della cui bellezza non si
stupisce più. La verità, infatti, è che la
cultura attuale tende sempre più spesso,
oscurando il legame tra Dio e l’uomo, a
separare anche ciò che Dio ha unito, ciò
che chiede di trovare unità.
L’ideologia transgender
Penso alla cosiddetta “liberazione
sessuale”, cioè all’idea che il corpo vada
liberato dallo spirito, e dalla legge
morale, che il sesso vada svincolato da ciò
con cui dovrebbe essere congiunto,
l’amore vero, la capacità di procreare e
quindi la responsabilità verso ciò che si è
generato. Penso all’ideologia
transgender, per la quale rifiutare il
proprio corpo, violentarlo con continue
cure ormonali, o con la chirurgia plastica,
alla Vladimir Luxuria, è un diritto
garantito e pagato dalla collettività,
capace di generare felicità; alla cultura
della contraccezione, che scinde
sessualità e procreazione, affidando alla
chimica e al caucciù il compito di
tutelarci dalle conseguenze delle nostre
stesse azioni (cosicché amputiamo noi
stessi la portata dei nostri atti, negandone
la natura profonda); al sogno di separare
la corporeità della madre da quella del
figlio con la provetta o, un giorno, l’utero
artificiale. Mi riferisco a certo
femminismo, che scinde la donna dalla
maternità, o all’auspicio di un novello
Prometeo come Umberto Veronesi, di
poterci un giorno persino privare, e con
gioia, della relazione generatrice tra
uomo e donna, tramite la clonazione.
Penso, ancora, alla teoria del gender, che
nega l’esistenza dell’identità e della
differenza, e all’ideologia del matrimonio
gay, che dimentica la complementarietà
dei sessi, separando l’uomo dalla donna, i
figli dai genitori, negando l’evidenza
biologica e psicologica; penso alla cultura
della droga, come evasione dalla realtà, o
alla realtà virtuale, che nega al corpo il
suo ruolo di “ponte” tra noi e il creato;
penso, infine, al suicidio assistito, come
rifiuto dell’esperienza del dolore fisico, o
a quanti, dimenticata la tradizione
cristiana, cercano rifugio dal
materialismo che hanno vissuto e che li
circonda, nelle religioni orientali:
cosicché corpi senza spirito anelano, alla
fine, a divenire, per sazietà e disgusto,
spiriti senza corpo. Ecco, dinnanzi a
questa cultura “diabolica”, cioè
improntata alla separazione come valore,
il cristianesimo indica un Dio puro
Spirito che ha preso carne, che si fa cibo,
che sfama personalmente gli affamati e
guarisce i lebbrosi. Un Dio che risorge
nella sua stessa carne e che ci invita a un
sommo rispetto per il nostro corpo,
tempio della sua presenza, e a un ascolto
delle sue rivelazioni: perché il corpo, con
la sua unicità e concretezza, “ci vaccina
contro l’egocentrismo che ci separa dalla
realtà e dagli altri uomini”, e con il suo
limite, la sua fragilità, le sue stanchezze,
“fa emergere la nostra solitudine
originaria”, cioè il nostro bisogno di Dio e
la nostra dipendenza da Lui. Così “chi
accetta il proprio corpo si rende conto
che il segreto della vita non è nelle sue
mani”: “deve riceverlo ogni giorno
dall’incontro con il mondo e con gli altri.
Si rende conto, soprattutto, che la sua vita
si apre a un mistero che lo supera, il
mistero del Creatore”. Quanto alla
sessualità, l’uomo che si percepisce
creatura non guarda ad essa come “a un
terreno di manipolazione e di
sfruttamento”; né al suo corpo e a quello
di un’altra persona come a un oggetto
inanimato, buono per un piacere fisico,
individuale e immediato; al contrario,
conoscendo la cecità di ogni sguardo
umano che non sia fisico e spirituale
insieme, vive “quello stupore originario
che nel mattino della creazione spinge
Adamo a esclamare davanti a Eva: “E’
carne della mia carne, e osso delle mie
ossa” (Gn, 2,23)”.

Francesco Agnoli

© Copyright Il Foglio 29 aprile 2010