DISCERNERE
Uno sguardo profetico sugli eventi
Emergenza educativa tra famiglia e scuola. di Rocco Buttiglione
Per chi suona la campanella. Le occupazioni studentesche ai tempi del Faraone
Premesso che sulla classe dirigente italiana, soprattutto quella formatasi durante le contestazioni, occupazioni e via protestando, ci sarebbe molto da (ri)dire, e in alcuni casi da ri-dere, il punto è un altro: che bisogno c’è di occupare quando, come hanno giustamente sottolineato i docenti del Liceo Virgilio di Roma in una lettera al Corriere, già esistono “ampie forme di partecipazione studentesca”? E soprattutto: è davvero, come dice Faraone, un momento di “grande partecipazione democratica”, o non piuttosto un gesto prepotente di una minoranza a discapito dei più, che o non sono interessati alle magnifiche sorti e progressive della scuola italiana, o pur essendolo semplicemente preferiscono comunque andare in classe e seguire le lezioni, e si vedono impediti e privati di un diritto sacrosanto, legittimo tanto (anzi direi di più) quanto quello di chi vuole protestare?
E poi, andiamo: è proprio sicuro Faraone che le occupazioni siano quei momenti idilliaci di confronto dialogo e partecipazione di cui parla, o non piuttosto aule ridotte a discariche, canne e alcool a go go, musica a tutto spiano e cazzeggio annoiato con qualche accenno di (inconcludente) discussione che di notte cede il passo ad altre forme di approfondimento? Discutere sulla scuola e su questo o quel progetto riforma non solo va bene ma è doveroso, e ben vengano argomenti e proposte da parte degli studenti. Ma al di fuori dell’orario scolastico. Prima, cari occupanti in servizio permanente effettivo, imparate come si deve a leggere, parlare articolando possibilmente frasi di senso compiuto, scrivere mettendo i congiuntivi al loro posto e fare di conto (magari senza computer), poi discutete quanto e come volete. Nel rispetto delle regole e degli altrui diritti.
Dirigenti scolastici a scuola di omosessualismo
Riccardo Cascioli
Genitori attenti, il gender diventa obbligo scolastico
Scuola: lezioni di omosessulità con la scusa del bullismo omofobico

Scuola, gli abbandoni nel 2010 sfiorano il 19%
C’è sempre un orizzonte più grande, sopra e al di là delle singole materie del vostro studio e delle varie capacità che acquisite
LONDRA, venerdì, 17 settembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo venerdì da Benedetto XVI nel campo sportivo del St Mary’s University College di Twickenham, dove erano riuniti circa 4000 studenti delle scuole cattoliche britanniche, mentre tutte le scuole cattoliche dell’Inghilterra, del Galles e della Scozia era collegate via internet per seguire in diretta l’evento.
* * *
Cari Fratelli e Sorelle in Cristo,Cari giovani amici,
desidero anzitutto dirvi quanto sia lieto di essere oggi qui in mezzo a voi. Estendo il più cordiale saluto a tutti voi, convenuti alla "Saint Mary’s University" dalle scuole e dai collegi cattolici del Regno Unito, e a tutti coloro che ci stanno seguendo alla televisione o via internet. Ringrazio il vescovo McMahon per il suo cortese benvenuto e il coro e la banda per la bella musica eseguita poco fa, che ha dato inizio alla nostra celebrazione. Ringrazio Miss Bellot per le gentili parole che mi ha rivolto a nome di tutti i giovani presenti. Guardando ai prossimi giochi olimpici, è stato un piacere inaugurare questa Fondazione sportiva intitolata a Giovanni Paolo II, e prego affinché tutti coloro che la frequenteranno rendano gloria a Dio attraverso le loro attività sportive, così come possano trarre giovamento per se stessi e per gli altri.
Non capita spesso ad un Papa — in verità nemmeno a qualsiasi altra persona — l’opportunità di parlare contemporaneamente agli studenti di tutte le scuole cattoliche dell’Inghilterra, del Galles e della Scozia. E dal momento che ora io ho questa possibilità, c’è qualcosa che mi sta davvero molto a cuore di dirvi. Ho la speranza che fra voi che oggi siete qui ad ascoltarmi vi siano alcuni dei futuri santi del ventunesimo secolo. La cosa che Dio desidera maggiormente per ciascuno di voi è che diventiate santi. Egli vi ama molto più di quanto voi possiate immaginare e desidera per voi il massimo. E la cosa migliore di tutte per voi è di gran lunga il crescere in santità.
Forse alcuni di voi non ci hanno mai pensato prima d’ora. Forse alcuni pensano che essere santi non sia per loro. Lasciatemi spiegare cosa intendo dire. Quando si è giovani, si è soliti pensare a persone che stimiamo e ammiriamo, persone alle quali vorremmo assomigliare. Potrebbe trattarsi di qualcuno che incontriamo nella nostra vita quotidiana e che teniamo in grande stima. Oppure potrebbe essere qualcuno di famoso. Viviamo in una cultura della celebrità ed i giovani sono spesso incoraggiati ad avere come modello figure del mondo dello sport o dello spettacolo. Io vorrei farvi questa domanda: quali sono le qualità che vedete negli altri e che voi stessi vorreste maggiormente possedere? Quale tipo di persona vorreste davvero essere?
Quando vi invito a diventare santi, vi sto chiedendo di non accontentarvi di seconde scelte. Vi sto chiedendo di non perseguire un obiettivo limitato, ignorando tutti gli altri. Avere soldi rende possibile essere generosi e fare del bene nel mondo, ma, da solo, non è sufficiente a renderci felici. Essere grandemente dotati in alcune attività o professioni è una cosa buona, ma non potrà mai soddisfarci, finché non puntiamo a qualcosa di ancora più grande. Potrà renderci famosi, ma non ci renderà felici. La felicità è qualcosa che tutti desideriamo, ma una delle grandi tragedie di questo mondo è che così tanti non riescono mai a trovarla, perché la cercano nei posti sbagliati. La soluzione è molto semplice: la vera felicità va cercata in Dio. Abbiamo bisogno del coraggio di porre le nostre speranze più profonde solo in Dio: non nel denaro, in una carriera, nel successo mondano, o nelle nostre relazioni con gli altri, ma in Dio. Lui solo può soddisfare il bisogno più profondo del nostro cuore.
Dio non solo ci ama con una profondità e intensità che difficilmente possiamo immaginare: egli ci invita a rispondere a questo amore. Tutti voi sapete cosa accade quando incontrate qualcuno di interessante e attraente, come desideriate essere amici di quella persona. Sperate sempre che quella persona vi trovi a sua volta interessanti ed attraenti e voglia fare amicizia con voi. Dio desidera la vostra amicizia. E, una volta che voi siete entrati in amicizia con Dio, ogni cosa nella vostra vita inizia a cambiare. Mentre giungete a conoscerlo meglio, vi rendete conto di voler riflettere nella vostra stessa vita qualcosa della sua infinita bontà. Siete attratti dalla pratica della virtù. Incominciate a vedere l’avidità e l’egoismo, e tutti gli altri peccati, per quello che realmente sono, tendenze distruttive e pericolose che causano profonda sofferenza e grande danno, e volete evitare di cadere voi stessi in quella trappola. Incominciate a provare compassione per quanti sono in difficoltà e desiderate fare qualcosa per aiutarli. Desiderate venire in aiuto al povero e all’affamato, confortare il sofferente, essere buoni e generosi. Quando queste cose iniziano a starvi a cuore, siete già pienamente incamminati sulla via della santità.
C’è sempre un orizzonte più grande, nelle vostre scuole cattoliche, sopra e al di là delle singole materie del vostro studio e delle varie capacità che acquisite. Tutto il lavoro che fate è posto nel contesto della crescita nell’amicizia con Dio, e da quell’amicizia tutto quel lavoro fluisce. In tal modo apprendete non solo ad essere buoni studenti, ma buoni cittadini e buone persone. Mentre proseguite con il percorso scolastico dovete compiere delle scelte circa la materia del vostro studio e iniziare a specializzarvi in vista di ciò che farete nella vita. Ciò è giusto e conveniente. Ricordate sempre però che ogni materia che studiate si inserisce in un orizzonte più ampio. Non riducetevi mai ad un orizzonte ristretto. Il mondo ha bisogno di buoni scienziati, ma una prospettiva scientifica diventa pericolosamente angusta, se ignora la dimensione etica e religiosa della vita, così come la religione diventa angusta, se rifiuta il legittimo contributo della scienza alla nostra comprensione del mondo. Abbiamo bisogno di buoni storici, filosofi ed economisti, ma se la percezione che essi offrono della vita umana all’interno del loro specifico campo è centrata su di una prospettiva troppo ristretta, essi possono seriamente portarci fuori strada.
Una buona scuola offre una formazione completa per l’intera persona. Ed una buona scuola cattolica, al di sopra e al di là di questo, dovrebbe aiutare i suoi studenti a diventare santi. So che vi sono molti non cattolici che studiano nelle scuole cattoliche in Gran Bretagna e desidero rivolgermi a tutti con le mie odierne parole. Prego affinché anche voi vi sentiate incoraggiati a praticare la virtù e a crescere nella conoscenza ed amicizia con Dio, assieme ai vostri compagni cattolici. Voi siete per loro il richiamo all’orizzonte più vasto che esiste fuori della scuola ed è fuor di dubbio che il rispetto e l’amicizia per membri di altre tradizioni religiose debba essere tra le virtù che si apprendono in una scuola cattolica. Spero anche che vorrete condividere con chiunque incontrerete i valori e gli insegnamenti che avrete appresi mediante la formazione cristiana ricevuta.
Cari amici, vi ringrazio per la vostra attenzione, vi prometto di pregare per voi e vi chiedo di pregare per me. Spero di vedere molti di voi il prossimo agosto, alla Giornata Mondiale della Gioventù a Madrid. Nel frattempo, che Dio benedica tutti voi!
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]
Desaparecidos tra i banchi. Uno studente su tre non arriva al diploma superiore. Senza maestri che appassionino restano le «vogliuzze»
di Alessandro D’Avenia
Tratto da Avvenire dell'8 settembre 2010
«Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono eguali. Una vo gliuzza per il giorno e una per la not te: salva restando la salute. 'Noi ab biamo inventato la felicità' – dicono e strizzano l’occhio. Io ho conosciu to persone nobili che hanno perduto la loro speranza più elevata. E da al lora calunniano tutte le speranze e levate. Da allora vivono sfrontata mente di brevi piaceri e non riesco no più a porsi neppure mete effime re. Perciò hanno spezzato le ali al lo ro spirito: che ora striscia per terra e contamina ciò che rode... Ma, ti scon giuro: mantieni sacra la tua speranza più elevata!». A leggere queste parole di Nietzsche si rimane sbalorditi: a veva previsto la chiusura della men te borghese e la sua rinuncia alla vi ta.
Nessun uomo è un’isola e, parafra sando il poeta, si può dire lo stesso di uno studente che abbandona la scuo la. Se abbandona, non fallisce lui so lo, ma la scuola come relazione: ge nitori- insegnanti-studenti. I dati par lano chiaro, negli ultimi cinque anni uno studente su tre dell’ultimo quin quennio non arriva al diploma; nel l’ultimo anno il 20% ha abbandona to il liceo e il 44% gli istituti profes sionali. La scuola dovrebbe essere, at traverso la cultura e il lavoro manua le, un trampolino di lancio per la scel ta professionale più adeguata. Quel lo che posso dire, da professore, è che molti abbandonano perché la scuo la appare loro inutile per ciò che vo gliono essere e fare nella vita.
Durante un’estate da liceale squattri nato lavoravo in un cantiere come aiuto di un manovale: «Sei fortunato – mi ripeteva – perché puoi studiare: se potessi, io tornerei indietro». La scuola dell’obbligo non obbliga a ri manerle fedele perché non riesce a obbligarti: solo gli amori veri e gran di 'obbligano' alla fedeltà. I ragazzi che si disperdono spesso non hanno trovato docenti in grado di appassio narli. Eppure la scuola dovrebbe es sere un 'andare a bottega': scoperta e incoraggiamento dei talenti perso nali per opera di maestri. Ho incon trato, con l’occasione del mio primo libro, studenti di tutte le città e per corsi. Ho trovato ragazzi di istituti tec nici affamati di letture, ben sapendo che avrebbero fatto l’elettricista, l’i draulico, l’informatico. Tutto merito di professori appassionati ai loro a lunni, capaci di accendere nei ragaz zi, attraverso la cura del pezzo di mondo loro affidato, lo sguardo su una vita più grande, più piena, più ric ca.
Molti ragazzi abbandonano perché tanto un lavoro si trova: si guadagna subito e si realizza l’orizzonte ristret to delle «vogliuzze». Manca loro uno sguardo di più lunga gittata. Gli adulti descritti da Nietzsche riescono a spe gnere quello sguardo, perché hanno rinunciato loro stessi a una vita più grande. Anche loro si accontentano del tutto e subito. Se i ragazzi non leg gono libri, è perché gli adulti accen dono la tv, invece di prendere in ma no un libro. Se i ragazzi abbandona no la scuola, è perché gli adulti della scuola non sono interessati a loro. La crisi dei giovani è crisi di maestri. Io conosco centinaia di maestri capaci di provocare la nostalgia del futuro, provocando (chiamandole alla luce) le risorse migliori degli studenti. Di contro ci sono docenti che odiano i loro studenti, li umiliano e condan nano all’abbandono, non solo della scuola, ma di sé stessi.
Nietzsche sferzava i benpensanti che trasformavano la felicità in vogliuzze e benessere, gli stessi che hanno cri ticato queste parole: «Allo stesso tem po la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande. Se penso ai miei anni di allo ra: semplicemente non volevamo perderci nella normalità della vita borghese. Volevamo ciò che è grande, nuovo. Volevamo trovare la vita stes sa nella sua vastità e bellezza». Le ha pronunciate Benedetto XVI, qualche giorno fa. Nietzsche e il Papa sem brano d’accordo. Esiste un terreno sul quale la scuola sta mancando e non è questione di ideologie, ma di amo re all’uomo. Nella scuola è dei docenti – alleati ai genitori – il compito di tra smettere una vita più grande e nuo va attraverso le loro ore di lezione.
Francia Socialisti all’assalto «Nei licei assegni per la contraccezione»
Il destinatario della petizione non è tuttavia il ministro dell’Istruzione, ma il presidente della Repubblica in persona, Nicolas Sarkozy. Nel testo inviato all’Eliseo si può leggere: «Le trasmetto questa petizione firmata da liceali, genitori di allievi e da professionisti della sanità chiedendole di rivedere la decisione del ministro dell’Istruzione e di autorizzare la distribuzione dei passcontraccezione da parte delle infermiere scolastiche». Il braccio di ferro solleva da tempo un gran polverone, sullo sfondo di accuse incrociate fra i sostenitori della Royal e il campo governativo neogollista. Da un punto di vista amministrativo, i licei rappresentano una competenza regionale. Ma le infermiere scolastiche, così come i presidi degli stessi licei, sono posti sotto la tutela dei provveditorati, dunque dello Stato. Il personale si è dunque trovato fra l’incudine e il martello.
Al di là di tutti i complessi e contorti risvolti giuridici del caso, tanto il ministero quanto molti osservatori indipendenti hanno ricordato che l’accesso alla contraccezione gratuita per gli studenti è già consentita da anni presso i centri di planning familiare, legati amministrativamente ai dipartimenti, l’equivalente transalpino delle nostre province. Ma allora perché tutte queste lunghe e strenue battaglie di trincea, visto che anche molti studenti già al corrente del dispositivo tradizionale si sono stupiti dell’iniziativa del Consiglio regionale? Da tempo, sono molti gli osservatori che accusano la Royal di un’azione ben poco ortodossa volta principalmente all’autopromozione politica, in vista soprattutto dell’ormai non lontana nuova corsa per l’Eliseo.
Daniele Zappalà
© Copyright Avvenire 13 maggio 2010
«Preservativi in classe? Si stravolge la scuola»
Professor Nicolì, allora a cosa servono le macchinette nelle scuole?
Servono a tacitare l’incapacità degli adulti di dialogare con i giovani su questi temi e a scaricare il problema su un mezzo tecnico.
Con quali effetti collaterali?
È evidente che se ne incentiverà l’uso. Invece di insegnare un principio di valore e cioè che la sessualità è qualcosa di grande e di bello, che abbiamo nella testa e non solo sotto la cintura, che coinvolge tutta la persona e non si riduce a una pratica, be’, si inducono i ragazzi ad esercitarla purché in modo protetto. Mancano i significati profondi.
C’è da aggiungere che di 'istruzioni per l’uso' se ne trovano in gran quantità su internet. Lei gira per le scuole, parla a ragazzi e genitori di educazione all’affettività. Secondo lei cosa hanno bisogno di sentirsi dire i giovanissimi?
I ragazzi vogliono essere ascoltati, vogliono che si dica loro la verità per il loro bene, con disinteresse e con spirito di cura. Hanno bisogno di imparare ad amare e ad essere amati. Noi cerchiamo di spiegare loro che la sessualità è una dimensione espressiva di questo desiderio di amare tipica delle persone adulte. Aggiungiamo che la sessualità raggiunge la sua massima espressione quando diventa dono, che presuppone una formazione psicologica prima ancora che fisica, visto che interessa il cervello e gli strati più profondi della coscienza.
E i giovani capiscono?
Sì, i giovani accettano la verità anche quando essa è scomoda. Anzi, vogliono la verità. E la verità è che hanno diritto a una piena realizzazione affettiva, ma per fare della loro vita un’opera d’arte devono investire in modo corretto su loro stessi, senza sperperarsi. Noi diciamo ai ragazzi che la sessualità non è solo la soddisfazione di un bisogno ma un progetto di vita. E che l’investimento giusto su di sé è di non sprecarsi subito, ma di spendersi solo quando è il momento giusto.
E loro ascoltano?
Sì. Sono gli adulti a non crederci, e sa perché? Perché hanno dei giovani una visione distorta, filtrata attraverso la loro immaturità di adulti. Ecco perché scelgono la via corta e installano la macchinetta che distribuisce i preservativi. No, la sessualità non ammette un approccio così superficiale. La sessualità è interiorità, dobbiamo farlo riscoprire ai giovani. Ma partendo dalla consapevolezza che siamo stati noi adulti ad averla esteriorizzata. In 37 anni di vita in mezzo ai giovani ho capito che non sono loro quelli che vivono peggio la sessualità: gli scambi di coppia, la pornografia non la fanno i ragazzi, ma gli adulti.
Qual è l’opinione dell’Associazione genitori sull’educazione sessuale insegnata a scuola?
Siamo a favore, purché l’insegnamento rispetti requisiti di scientificità, obiettività e si riferisca a regole e valori morali. Che crediamo non appartengano solo ai credenti: i valori sono perenni, universali e transconfessionali. Ma pensiamo anche che i genitori sono i primi e i principali responsabili dell’educazione dei loro figli.
I genitori come possono avere voce in capitolo nelle scuole?
Attraverso i sistemi di rappresentatività e facendo democratico pressing perché la scuola sia veramente educativa.
Il muro di silenzio della Odenwald. Il liceo tedesco delle élite sessantottine libero e senza tabù con stupri di gruppo e sevizie su minori
di Alessandro Giorgiutti
Il liceo tedesco delle élite sessantottine dove si teorizza che insegnare è sbagliato e che non c’è differenza tra adulti e bambini. E dove si sono verificati stupri di gruppo e sevizie su minori
Se non avete mai sentito parlare della scuola tedesca Odenwaldschule la colpa non è vostra. Nei giorni in cui si pubblicavano articoli scandalizzati sul fratello del Papa, don Georg Ratzinger, che aveva l’unica “colpa” di aver dato qualche scapaccione ai suoi allievi indisciplinati, solo qualche riga imbarazzata veniva dedicata all’istituto fondato esattamente cento anni fa, nel 1910, nell’Odenwald, vicino a Francoforte. Un istituto nel quale, si apprende oggi, si sono verificati «almeno dal 1971» abusi e violenze «che superano la nostra capacità di immaginazione» (parola dell’attuale preside, Margarita Kaufmann). È stato pudicamente definito «liceo laico», «la Eton tedesca» o «scuola delle élites» (a ragione: la retta costa più di duemila euro al mese), ma la scuola-convitto, legata all’Unesco a partire dagli anni Sessanta, è in realtà qualcosa di molto particolare. Si tratta di una delle prime realizzazioni concrete delle ambizioni riformatrici della pedagogia d’inizio Novecento.
Il fondatore, Paul Geheeb, nato in Turingia nel 1870, studi teologici alle spalle e barba da profeta lunga fino al petto, decise per prima cosa di abolire il concetto stesso di educazione: «Preferisco non usare le parole “educazione” e “educare” – diceva – preferisco parlare di sviluppo umano». Al bando anche l’anacronistica distinzione tra maestri e allievi. Gli adulti non devono essere educatori ma “amici” di bambini e adolescenti: «Bisogna che noi veramente viviamo insieme. Gli adulti non devono limitarsi a giocare, lavorare, passeggiare con i bambini, e condividere con loro le piccole e le grandi gioie come le tristezze; è necessario far partecipare questi ultimi, secondo il loro grado di maturità, alle nostre stesse esperienze ed azioni». Non si trattava di guidare, ma di accompagnare. Nessuno doveva essere educato perché ciascuno è il miglior educatore di se stesso.
Da subito, il convitto di Odenwald fece gran scalpore per le idee molto “aperte” e le innovazioni radicali. La mitica assemblea (di bambini, adolescenti e adulti) che si riunisce periodicamente per discutere e prendere decisioni. La promiscuità tra alunni maschi e femmine (si trattava di una vera rivoluzione, per l’epoca). E anche qualche scelta decisamente più ardita: come l’educazione fisica praticata insieme, nudi, da bimbi e bimbe.
Con la forza attrattiva delle mode culturali, i princìpi educativi “anti-autoritari” spingono molte famiglie dal cognome importante e dal portafoglio pieno a iscrivere i propri figli al convitto di Odenwald. Qui, per citarne alcuni, studiano scrittori come il figlio di Thomas Mann, Klaus, e Andreas von Weizsäcker, figlio di un presidente della Repubblica, imprenditori come Wolfgang Porsche, oggi al vertice della casa automobilistica di famiglia, e Beate Uhse, che diverrà la regina incontrastata dei sexy shop. E Daniel Cohn-Bendit, il futuro leader sessantottino ed eurodeputato dei Verdi che avrebbe successivamente descritto con orgoglio i suoi giochi erotici con bambini di quattro e cinque anni.
Umiliazioni e suicidi
Il modello dell’insegnante “amico” era la bandiera anche dello stimatissimo (un tempo) Gerold Becker, che diresse la scuola tra 1971 e 1985, cioè negli anni successivi alla sbornia del ’68, proprio quegli anni in cui si concentrarono le violenze (recentemente ammesse dallo stesso Becker). Secondo l’attuale preside del convitto, le vittime di abusi sarebbero almeno quaranta, anche se il giornale che per primo, anni fa, aveva pubblicato le denunce di alcuni ex studenti ipotizza una cifra vicina al centinaio. Violenze dei professori sugli allievi e degli allievi più grandi sui più piccoli. Stupri di gruppo consumati con la complicità dei supervisori. Maestri che provvedono a distribuire alcol e droga. Studenti costretti a prostituirsi nei fine settimana per soddisfare qualche visitatore amico degli insegnanti. Si sospetta inoltre che quattro ex allievi suicidi si siano tolti la vita proprio in seguito alla vergogna e alle umiliazioni patite (che non possono essere trascritte qui).
Un dettagliato rapporto sugli orrori della Odenwaldschule fu consegnato nel 2002 alla deputata tedesca Antje Vollmer, esponente dei Verdi, allora al governo con i socialdemocratici di Gerhard Schroeder. Ma la Vollmer, che all’epoca era vicepresidente del Bundestag e guidava una commissione sulla politica scolastica, non diede credito al dossier che, se divulgato, avrebbe demolito l’immagine di una scuola considerata il fiore all’occhiello dell’educazione pubblica. Dell’esistenza di quel rapporto, redatto da un gruppo di insegnanti della Odenwaldschule, si è avuto notizia solo qualche settimana fa, proprio negli stessi giorni in cui l’attuale ministro della Giustizia tedesco, la liberale Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, accusava la Chiesa cattolica di aver eretto «un muro di silenzio» sui casi di pedofilia. Un infortunio clamoroso, perché il ministro faceva esplicito riferimento al documento De delictis gravioribus del 2001 col quale il Vaticano istituiva la linea della “tolleranza zero”, ma tale da distogliere l’attenzione mediatica dagli insabbiamenti veri.
Il Cardinal Cañizares: "Nella scuola cattolica non abbiamo saputo presentare un'alternativa"
VALENCIA, giovedì, 29 aprile 2010 (ZENIT.org).- Il prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, il Cardinale Antonio Cañizares, ha riconosciuto che la scuola cattolica non ha saputo presentare un'alternativa e ha sottolineato la necessità che mostri una nuova visione dell'uomo e della donna.
Lo ha fatto questo lunedì inaugurando il III Congresso Internazionale Educazione Cattolica per il XXI secolo dell'Università Cattolica di Valencia San Vicente Mártir, ha reso noto l'ateneo.
"Dobbiamo riconoscere che nella scuola cattolica non abbiamo saputo presentare un'alternativa ed è necessario farlo, perché la scuola cattolica ha una visione dell'uomo e della donna nuova, nella quale ci sono il futuro e la speranza", ha dichiarato.
A questo proposito, il porporato ha invitato a fare un "esame di coscienza" di fronte al fatto che il 30% della società spagnola è stato educato nella scuola cattolica e "non ha un'incidenza di fronte a tutto ciò che sta accadendo nella nostra società".
Questa percentuale "dovrebbe contribuire a far sì che la nostra cultura non sia la cultura della morte e la cultura relativista, ma la cultura dell'amore e della verità che ci rende liberi".
In "tempi di indigenza" e di "crisi di senso e di verità", la scuola cattolica "non può essere neutrale, deve andare controcorrente", ha osservato.
Per il prefetto della Congregazione vaticana, la scuola cattolica deve essere una "scuola rivoluzionaria e libera, perché il mondo ha bisogno di un cambiamento decisivo, senza il quale non ha futuro", di fronte alla "crisi morale e alla perdita dell'orizzonte umano, del senso della vita".
Secondo il Cardinal Cañizares, il male peggiore della società attuale è "non sapere più che cos'è moralmente buono e moralmente valido".
Difficoltà
Analizzando l'attuale momento educativo, il Cardinale ha sottolineato la difficoltà di "educare in una società che ammette l'aborto", con "leggi contro la famiglia" e "una televisione come quella che abbiamo attualmente, in cui si diffonde una visione dell'uomo del tutto contraria alla persona umana".
Si è anche riferito all'"ingiusto" sistema sociale, "con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri".
I sistemi educativi attuali, ha aggiunto, hanno fallito perché "non hanno risposto a sufficienza alla domanda o alle esigenze dell'educazione".
Quanto alla Spagna, il Cardinale Cañizares si è riferito alla legge sull'educazione definendola "uno dei fallimenti maggiori che ha avuto la società spagnola, per il predominio della ragione strumentale, perché non favorisce l'esercizio della ragione per cercare la verità e insabbia le domande fondamentali dell'essere umano".
In questo modo, ha lamentato, "si genera una società come quella che abbiamo, accompagnata da una cultura avvolgente che sta spezzando la nostra umanità".
Gesù Cristo al centro
La scuola cattolica "deve contribuire a una nuova umanità nella sintesi tra fede e ragione", ha proseguito, sottolineando che "al centro della concezione cristiana della scuola cattolica c'è Gesù Cristo, il suo messaggio di salvezza".
Secondo il porporato, nelle scuole cattoliche non deve impartirsi solo un "insegnamento di valori", ma anche l'"arte di vivere" che è alla base dell'evangelizzazione.
"Non bisogna aver paura di essere liberi, perché la scuola cattolica ha la vocazione di trasformare la società", ha detto.
Nel suo intervento, intitolato "L'educazione cattolica: futuro e speranza", il Cardinale ha poi rimarcato l'importanza della "coerenza" dei docenti.
"Non solo insegnanti, ma anche testimoni di ciò che vogliamo offrire, l'arte di vivere, l'umanità nuova", ha indicato.
In questo senso, ha ricordato l'importanza che "Gesù Cristo e la fede non siano un qualcosa di aggiunto, di complementare alla nostra esistenza professionale, ma il nostro essere sostantivo di maestri che sono nella scuola per evangelizzare, il che richiede una formazione molto concreta degli insegnanti".
Il Congresso, in svolgimento a Valencia dal 26 al 28 aprile, tratta l'infanzia come tappa particolarmente significativa del ciclo vitale e base della costruzione della persona, e allo stesso tempo come oggetto prioritario dell'attuale emergenza educativa.
Nelle scuole l’educazione «anticoncezionale»
L’
offensiva riparte con il solito ritornello: gli adolescenti italiani sono ignoranti sul sesso, non usano gli anticoncezionali salvo poi ricorrere in massa alla pillola del giorno dopo (370 mila confezioni vendute nell’ultimo anno). Se questa è la diagnosi, ecco la terapia: guide al sesso sicuro da distribuire ai giovani e possibilmente accessibili via Internet all’universo mondo. Sintesi brutale, forse, ma in fondo è questo il messaggio emerso martedì dal convegno romano della Società italiana di ginecologica e ostetricia (Sigo) su «Adolescenti, sessualità e media». In particolare il presidente della Società, Giorgio Vittori, ha posto l’accento proprio sulla «confusione e disinformazione su questi temi».
Si potrebbe obiettare che l’informazione sul sesso ai giovani non manca affatto, a volerla minimamente cercare. Anche per l’impegno attivo della Sigo, appunto, che nel suo sito, sotto il nome «prevenzione giovani», pubblica una serie di guide al sesso sicuro, peraltro rilanciate anche su un altro sito molto frequentato, www.studenti.it.Detto questo, ci sarebbe da riflettere sull’insistenza con cui la Sigo si propone di coprire l’Italia di guide: memorabile quella dell’estate scorsa, Travelsex, (sottotitolo: il sesso sicuro non va in vacanza) in cui, tra le altre cose, si insegnava a dire preservativo nelle principali lingue d’Europa. Tipico della cultura oggi prevalente, che vede il sesso come tecnica: «Ma non si può fare educazione alla sessualità fornendo una corretta e completa informazione e basta – obietta Monica Prastaro, vicepresidente di Progetto Amos, associazione cattolica che a Torino promuove l’educazione all’affettività nelle scuole –. È una strategia che a lungo termine è perdente. È stato dimostrato che tutti i progetti di prevenzione – penso alle droghe – che fanno leva solo sull’informazione dei rischi e sulla paura delle conseguenze non raggiungono l’obiettivo di cambiare i comportamenti».
In breve: conoscere tutte le tecniche per il sesso sicuro non garantisce che i giovani modifichino le loro attitudini. «Per fare vera prevenzione bisogna educare a stili e scelte di comportamento diversi», sintetizza la Prastaro.
La questione, dunque, è un’altra e «l’offensiva sesso sicuro» posta in essere dalla Sigo è largamente insufficiente.
Forse bisogna partire da un dato fornito dalla stessa Società a Roma: il 61 per cento delle ragazze si dichiara delusa dalla «prima volta» e rimpiange che sia accaduto «troppo presto o in condizioni negative». E lo stesso dice il 39 per cento dei maschi. «Delusi, dunque. Forse perché si sono resi conto che l’aver accelerato i tempi non è stata una buona idea. Perché l’amore 'per tutta la vita' in realtà è durato due mesi. Perché nei film sembra tutto così coinvolgente e invece è stato un po’ squallido e triste», analizza la Prastaro, che incontra decine di classi ogni
© Copyright Avvenire 29 aprile 2010
Se non vi piace la matematica c’è chi vuol farvi credere che siete malati
Leonhard Euler conosceva a memoria
l’intera Eneide ed era capace, pur divenuto
cieco, di calcolare a mente uno sviluppo
in serie fino al settimo termine dettando il
risultato a un assistente: per chi non conosce
la matematica significa fare un mare
di calcoli difficili, ritenendo a memoria un
numero enorme di risultati parziali. Al
confronto, il miglior matematico vivente
farebbe la figura di un “discalculico”. La
“discalculia” è definita come un disturbo
che si manifesta come “difficoltà negli automatismi
del calcolo e dell’elaborazione
dei numeri”. Se confronto la calligrafia
dei miei figli con quella di mio padre constato
un crollo di qualità tale da considerarli
come affetti da “disgrafia”, la “difficoltà
di realizzazione grafica”. Per non dire
della “disortografia”.
A pensarci bene, non c’è da stupirsi. Secoli
fa il calcolo mentale e l’arte della memoria
erano considerati una virtù da coltivare
intensamente. Oggi facciamo persino
il conto della spesa sulla calcolatrice
del cellulare e imparare le tabelline è opzionale.
Diciamo, per carità di patria, che
usiamo le nostre facoltà mentali in modo
diverso. Perciò circola una legione di discalculici,
tra cui coloro che non amano i
numeri. Per quanto riguarda poi lo scrivere,
sarebbe strano stupirsi che siano in aumento
esponenziale i “disgrafici”, visto
che insegnare a tenere correttamente una
penna in mano e a maneggiarla secondo
regole efficaci è considerato repressivo e
reazionario: vorrei segnalare, al riguardo,
le lucide riflessioni di Angelo Panebianco
sulla mania nostrana di apprezzare non
ciò che è ragionevole ma ciò che è “moderno”.
Quanto alla crescita dello stuolo dei
“disortografici” c’è chi pretende che sia
dovuta a “difficoltà nei processi linguistici
di transcodifica”; ma bisognerebbe
chiedersi se, anche qui, non intervenga il
fatto che stimolare la capacità di tradurre
correttamente in testo scritto le parole
pensate è ormai considerato una fisima
reazionaria.
Sta di fatto che, invece di esplorare ragioni
come quelle accennate, ci si è
orientati da tempo verso l’approccio “curativo”,
raggruppando i detti disturbi, assieme
alla classica dislessia, sotto l’acronimo
Dsa, Disturbi specifici di apprendimento.
Il Dsa sta per essere riconosciuto
da una legge nazionale come... malattia?
Per carità. Il Dsa – si dice – si manifesta
in soggetti con capacità cognitive adeguate,
in assenza di patologie neurologiche e
di deficit sensoriali. Insomma, è una sindrome
in stato di normalità ma che dà
problemi. Ma allora tanto varrebbe introdurre
acronimi, definizioni e leggi che
definiscano o curino la pigrizia, l’obesità,
la logorrea, la miopia, la petulanza, la distrazione
e via dicendo. Ma nella legge
c’è la contraddizione: si dice difatti che la
diagnosi di Dsa viene effettuata dagli specialisti
del Servizio sanitario nazionale,
ovvero medici, psichiatri e psicologi. E
poiché il Servizio Sanitario Nazionale cura
le malattie, rispunta surrettiziamente
la definizione del Dsa come patologia. E
che sia una patologia è confermato dal
fatto che la discalculia non viene diagnosticata
dall’insegnante di matematica, o
la disortografia da quello d’italiano, bensì
da medici, psicologi e psichiatri.
E’ il gioco delle tre carte: da un lato, si
nega trattarsi di una malattia – sarebbe arduo
definire tale un insieme di “sintomi”
generici e disparati – ma al contempo la si
considera tale riducendo a trattamento sanitario
un problema che anziché Dsa potrebbe
essere Dsi, come ha fatto rilevare
un preside con quarant’anni di esperienza,
ovvero Disturbi Specifici di Insegnamento.
Il gioco delle tre carte è abile perché,
se provi a lamentare la tendenza alla
medicalizzazione, ti si risponde che non è
vero, in quanto nessuno ha parlato di patologie,
e che comunque il problema sarà
affrontato con metodi psico-pedagogici.
Ma allora, perché un passaggio diagnostico
di tipo sanitario? Perché, a dispetto dell’affermazione
che il Dsa non è dovuto a
patologie neurologiche, ci si è ingegnati a
trovarne le cause materiali – malnutrizione
alla nascita, effetto dei vaccini, mancanza
di omega 3 e altre amenità – che
stranamente non lascerebbero tracce materiali.
Per risolvere l’incerta questione
sono intervenuti i soliti neuromani, quelli
che fanno la risonanza magnetica persino
ai salmoni morti, che hanno cercato le “diversità”
strutturali dei Dsa nel cervello. I
risultati sono incerti, qualcuno parla di
“anomalie” della corteccia, altri di “zone”
del sistema visivo, altri dei neuroni a specchio.
Su tutto grava l’assurdità di un metodo
che pretende di stabilire correlazioni,
per giunta basate su statistiche rozze, tra
le mappe di funzioni elementari e comportamenti
umani estremamente complessi,
correlazioni mai stabilite in modo accettabile.
Si noti che mentre alcuni psichiatri
sostenitori dell’esistenza del Dsa, ma prudenti,
stimano in 0,1 per cento i bambini
affetti, i fautori della legge parlano di un
3-5 per cento, da cui deriverebbero conseguenze
imponenti, visto che la legge prevede
riduzioni di impegno scolastico e orari
flessibili per i genitori. Se a una simile cifra
si aggiunge quella dei bambini affetti
dall’altra “malattia”, l’Adhd, Attention Deficit
Hyperactivity Disorder, la “sindrome
del bambino agitato”, il numero di minori
con problemi raggiunge percentuali inaudite.
C’è di che pensare a una degenerazione
della specie umana. L’esistenza dell’Adhd
fu decretata a maggioranza, nel
1980, dall’Associazione degli psichiatri
americani e “poi” ci si è ingegnati a dimostrare
la verità di tale delibera. Anche qui,
dopo aver ipotizzato anomalie cerebrali di
ogni tipo, sono scesi in campo i neuromani,
per individuare con risonanza magnetica
(e al solito modo fasullo) diversità cerebrali
che dimostrerebbero l’esistenza
della patologia. Ma quel che è specialmente
grave nel caso dell’Adhd è che dagli Stati
Uniti – dove si è arrivati alla cifra di diciassette
milioni di diagnosi – si è diffusa
una medicina, il Ritalin, che è nient’altro
che un sedativo: è facile intuire quanto
possa essere pericoloso somministrare sedativi
a un bambino in crescita.
Ma tant’è. Abbiamo visto per decenni,
nel film “Il pellegrino”, di Charlie Chaplin,
un bambino iperagitato che picchia
tutti, combina guai, incolla la carta moschicida
sulla faccia della gente, mentre la
madre tenta di calmarlo con inadeguate
moine. L’abbiamo visto come paradigma
della maleducazione, nel senso stretto del
termine. E’ finita: l’educazione è un processo
in via di sparizione, quantomeno nel
senso di un rapporto tra persone. Esiste
soltanto la diagnosi e la terapia delle anomalie
di individui-monadi. Tutto è ridotto
a processi biologici. Siamo un aggregato di
“diversità” da trattare in termini sanitari,
da conformare a criteri di normalità definiti
secondo criteri “scientifici”, si fa per
dire. La società è vista come una gigantesca
clinica che ha come “mission” la modellazione
degli individui su quei criteri.
La solita ideologia scientista invade ogni
aspetto della vita personale: si va dal progetto
di confezionare un individuo perfetto
fin dalla nascita, alla subordinazione
della scuola al sistema sanitario, allo
stressometro negli uffici, e via delirando;
tutto sotto la dittatura sempre più soffocante
degli “esperti”, psicologi, psichiatri,
neurologi, misuratori delle qualità.
Giorgio Israel
© Copyright Il Foglio 29 aprile 2010