DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Visualizzazione post con etichetta Scuola. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Scuola. Mostra tutti i post

Emergenza educativa tra famiglia e scuola. di Rocco Buttiglione


In che cosa consiste l’emergenza educativa del nostro tempo, sulla quale aveva tanto ha insistito Papa Benedetto XVI?
Cerchiamo di spiegarlo con un esempio che prendiamo dalla cronaca. In una scuola un insegnante ha fatto leggere a dei ragazzi di 14 anni un romanzo che contiene la storia di un amore omosessuale. Alcuni genitori si sono arrabbiati ed hanno denunciato alla autorità giudiziaria gli autori dell' esperimento. Noi non sappiamo bene come sono andati davvero i fatti. Abbiamo solo letto i resoconti dei giornali.Non pronunciamo pertanto nessun giudizio su questo caso particolare.
Partiamo da esso, semplicemente, per porre una questione di carattere generale. E’ giusto che in una scuola si legga un romanzo a contenuto omosessuale a dei ragazzini di quattordici anni senza che i genitori ne siano informati ed abbiano dato il loro assenso?
E inoltre: se io genitore dico che non voglio che mio figlio sia esposta a letture omosessuali vuole dire questo che sono omofobo o che odio gli omosessuali?
Chi ha il diritto di educare
Prima di appartenere alla scuola a allo stato mio figlio appartiene a me (più esattamente a mia moglie e a me, cioè alla famiglia). Dice San Tommaso che il bambino è contenuto nella sua famiglia “quasi in quodam utero spirituali”. In quello spazio protetto nessuno ha il diritto di raggiungerlo senza il consenso della famiglia. Il compito ed il diritto all’educazione della scuola, dello stato ed anche della Chiesa vengono dopo ed hanno un carattere sussidiario. Sussidiario in questo caso vuol dire che essi entrano in azione per aiutare e sostenere il compito educativo della famiglia ma non possono mai ed in nessun modo sostituirsi ad essa od agire in modo contrario alle sue intenzioni, ai suoi valori ed alle sue convinzioni. SanTommaso ci credeva così tanto che pensava che non fosse lecito somministrare il battesimo ad un bambino senza il consenso dei genitori. Perfino il diritto soprannaturale della Chiesa a salvare le anime si ferma davanti al diritto naturale della famiglia sul proprio bambino.
Purtroppo nel nostro tempo San Tommaso non è più una autorità universalmente riconosciuta e quindi rafforzeremo la nostra argomentazione con la autorità di Sigmund Freud, che ha il vantaggio di essere ebreo e pure ateo, quindi non sospetto di vicinanza alla Chiesa Cattolica. Freud ha inoltre il vantaggio di non dirci solo che è così ma di aiutarci anche a capire perchè è cosí. Il bambino forma la sua coscienza in un dialogo originario con la madre (e poi anche con il padre). Quando è molto piccolo il bambino non è neppure in grado di distinguere la propria identità da quella della madre. Poi, progressivamente, il bambino si separa dalla madre. Allora avviene un processo inverso: Il bambino non è più nella madre ma la madre adesso ( ed il padre) è nel bambino. ll bambino interiorizza i genitori, li sente presenti in se stesso e nel dialogo con essi sviluppa la propria individualità, la propria coscienza e la propria personalità morale. Questo dialogo è la forma prima ed originaria di educazione. Non solo e non tanto con dei discorsi ma con l'esempio ed il proprio modo di essere i genitori trasmettono ai figli i valori fondamentali che nella vita hanno riconosciuti come veri. Ha scritto una volta Platone, nella sua Settima Lettera, che le cose di maggior valore ( i valori fondamentali) non si possono scrivere sulla carta ma si scrivono, attraverso la convivenza e la partecipazione dell' uno alla vita dell' altro, nelle anime degli uomini. Questa scrittura è riservata alla famiglia se non altro perchè solo essa è in grado di svolgere questo compito. Se altri tentano di intromettersi forse riusciranno a ostacolare la famiglia nel suo compito fondamentale di trasmissione di valori ma certo non riusciranno a sostituirla.
È per questo che il compito primario della educazione, ed il diritto corrispondente, ricade sulla famiglia, che è l’unica in grado di esercitarlo.
La trasmissione dell’identità sessuale è parte fondamentale del compito educativo
L'educazione si svolge in grandissima parte attraverso l’imitazione. il bambino impara a diventare un essere umano adulto responsabile e maturo guardando al padre e la bambina guardando alla madre. Essi guardano al genitore del loro stesso sesso con gli occhi che hanno in fronte ma con un altro occhio, con un occhio interiore, guardano al padre con gli occhi della madre e viceversa. Se lo sguardo che il padre rivolge alla madre è uno sguardo innamorato esso coinvolge anche il bambino. Il bambino non ha bisogno fondamentalmente di un padre e di una madre. L’utero spirituale in cui il bambino è veramente a suo agio è l’unità, cioè l’amore del padre e della madre. Quando questo processo si compie in modo soddisfacente il bambino inscrive nel cuore il desiderio di riprodurre quella unità, un giorno, nella famiglia che fonderà. In questo modo il bambino impara ad uscire dal suo egocentrismo ed egoismo originario e si scopre fatto per una comunità umana. Se la sua è una famiglia cristiana e lui è battezzato e noi vogliamo usare il linguaggio della teologia, diremo che così il bambino impara a sviluppare una personalità “comunionale”. Tutto questo è legato strettamente con l’acquisizione di un ruolo sessuale. Guardando a mio padre, imparo insieme cosa vuol dire essere un uomo maschio, sviluppare le virtù di un uomo maschio e costruire comunità con una donna dando vita ad una famiglia. L’apprendimento delle virtù è legato strettamente con quello del ruolo sessuale. L’apprendimento del ruolo sessuale, d’altro canto, è legato a sua volta con l’apprendimento di una certa idea del ruolo sessuale opposto. San Giovanni Paolo II ha dedicato il suo primo ciclo di catechesi, dopo la sua elezione al Pontificato proprio al tema della differenza sessuale. Lo ha intitolato “Maschio e Femmina lo creò”. La differenza sessuale non è un accidente nell’ uomo ma è costitutivo della sua umanità. Siamo uomini non da soli ma insieme, in un vincolo di reciprocità che sta alla base della famiglia. Naturalmente le virtù non si esercitano solo nella famiglia. Gli archetipi che si apprendono nella vita della famiglia, si svolgono poi nelle multiformi esperienza e magari esperienze di paternità e maternità spirituale integrano o anche risanano ciò che nelle prime esperienze all' interno della famiglia si è sviluppato in modo contorto consegnando infine alla vita un individuo danneggiato. Non è mia intenzione in alcun modo dare una immagine idilliaca della famiglia. Sono ben consapevole che nella famiglia nascono anche tutte le nevrosi e le psicosi e le ombre che gravano sulla vita dell’uomo. Se il processo della educazione si compie in modo imperfetto o anche a rovescio ne derivano conseguenze drammatiche e per sostenere la persona nel suo cammino saranno necessari massicci interventi riparativi.
Nella famiglia nasce tutto il bene e tutto il male dell’uomo perchè nella famiglia nasce l’ uomo.
Rovesciamo adesso per un momento la prospettiva. Fino ad ora abbiamo guardato al processo della educazione dal punto di vista del figlio. Adesso lo guarderemo invece dal punto di vista dei genitori. I genitori hanno il compito di trasmettere ai figli i valori. Non i valori in astratto come li si possono trovare descritti in un manuale di assiologia (la teoria dei valori) ma i valori in concreto come li hanno sperimentati nella loro vita. Il modo in cui per la più gran parte di noi diventa concreta la comunione, diventa sperimentabile la dimensione comunionale dell’ esistenza, è quando ci innamoriamo. Allora rompiamo la prigione della nostra individualità egoistica e poniamo il centro della nostra esistenza non in noi stessi ma nella persona amata, oppure più esattamente al centro dello spazio che ci congiunge con la persona amata. Poi nascono i figli e quello spazio si popola ulteriormente. Questa è la grande avventura che ha dato gusto e sapore alla nostra vita e vogliamo proporla ai nostri figli. È forse la cosa più preziosa che abbiamo da trasmettere e comunicare. La trasmissione dei valori in cui consiste la educazione è connessa con la identità sessuale. Rettamente intesa la identità sessuale stessa, la femminilità o la virilità, è un valore o almeno è il supporto dei valori. Vivere la femminilità e la virilità, la maternità e la paternità sono cammini verso la verità dell’uomo.
Virilità e femminilità sono valori culturali
Oggi spesso si dice che è necessario liberarci dagli stereotipi culturali tradizionali che riguardano la sessualità. Su questo punto è importate fare chiarezza. Se si vuole dire che nel passato e anche nel presente si sono ostacolate le donne nelle carriere professionali con il pretesto di una certa visione della femminilità questo è giusto. Se ancora si vuole dire che il peso del lavoro domestico è stato scaricato in modo sproporzionato sulle spalle delle donne questo di nuovo è giusto.
Nel dibattito attuale sugli stereotipi sessuali è in gioco però molto più che questo. La femminilità come tale è trattata come uno stereotipo culturale ed un ostacolo al pieno sviluppo della personalità della donna.
La differenza fra i maschi e le femmine è segnata fondamentalmente dal fatto che il frutto del concepimento rimane con la madre. La gravidanza, il parto, l’allattamento ed il particolare legame (evidentemente diverso da quello con il padre) che questi avvenimenti vissuti insieme stabiliscono fra madre e bambino: questo è il nucleo della identità femminile. Che diventare madre comporti un dispendio eccezionale di energie emozionali e fisiche è sicuramente vero e che questo dispendio renda di per se la donna meno competitiva sul mercato del lavoro e delle professioni è certamente vero. Nella ideologia dominante la contraccezione sistematica e l’aborto sono il modo di slegare fra loro sessualità e procreazione e di liberare la donna dal destino della maternità.
La femminilità certamente è un dato culturale. Si nasce femmine ma donne si diventa. Si diventa donne, però, elaborando il dato naturale, biologico, della potenzialità di diventare madri. Nel corso della storia umana tutte le culture hanno cercato di aiutare le bambine a diventare donne assumendo la maternità come destino positivo. La nostra è la prima cultura che incita le bambine a rifiutare la maternità ed omogeneizzare la propria autoidentificazione ed il proprio orizzonte di vita a quello dei maschi.
San Tommaso direbbe che la maternità è un “bonum arduum”. Costa molta fatica ma ne vale la pena. Una sfida educativa fondamentale all’interno della sfida educativa più generale è convincere le giovani donne che vale la pena di diventare madri. Da questo, in un certo senso, dipende tutto. Se la donna sceglie la maternità sarà lei stessa a portare il maschio ad accettare la paternità come destino ed a ricostituire la famiglia.
Quando le moderne filosofie decostruzionistiche ci dicono che i ruoli sessuali non sono naturali, hanno ragione ma solo in un certo senso. La cultura non è un qualcosa di arbitrario e non può mai essere opposta alla natura. La cultura è il modo in cui l' uomo elabora il significato della natura nella quale è immerso. Il vero punto di dissenso fra noi e le filosofie decostruzionistiche è però ancora un altro. Noi crediamo che la evoluzione culturale della umanità che giunge fino a noi sia sostanzialmente positiva. I ruoli sessuali che nel corso di questa evoluzione sono stati elaborati, la femminilità e la virilità, hanno conferito senso e valore ad un numero infinito di donne e di uomini. Attraverso di essi miliardi di esseri umani sono venuti al mondo. Su di essi si è costruita la nostra letteratura, la pittura e la scultura e le arti figurative, l' insieme della nostra cultura. Possiamo porci davanti alla Beatrice di Dante o alla Primavera di Botticelli e riscaldare la nostra anima al loro cuoco se contemporaneamente poniamo nel nulla l' archetipo del femminile? Ma ancora al di là di questo come sarebbe piatta e noiosa la nostra quotidianità se non fosse illuminata dalla differenza sessuale e come darebbe vuota la nostra vita se non la avesse riempita una storia d' amore con una donna da cui poi sono nati i nostri figli.
La perdita degli archetipi della virilità e della femminilità è poi anche la causa di conseguenze sociali devastanti: non nascono più bambini ed i pochi che nascono spesso non hanno una famiglia che li accolga e li educhi. Intere grandi nazioni (fra cui l’Italia) sembrano avviate ad uscire dalla storia e non sappiamo come fare ad assicurare le pensio ni e la assistenza sanitaria degli anziani in un mondo occidentale in cui diminuisce vertiginosamente il numero dei giovani lavoratori.
La famiglia e la scuola hanno il diritto di proporre i ruoli genitoriali "tradizionali"
A conclusione di questo ragionamento diciamo che la famiglia ha il diritto di proporre ai propri figli i ruoli sessuali e genitoriali " tradizionali". Fa parte del compito educativo ed è in qualche modo precontenuto nel dinamismo proprio della esperienza educativa, anche prima di un qualunque sforzo cosciente in questo senso, che i padri trasmettano ai figli un modello di virilità e le mamme trasmettano alle figlie un modello di femminilità. La scuola non ha il diritto di interferire con la trasmissione dei valori relativi alla sessualità ed ha, se mai, il dovere di sostenere lo sforzo educativo della famiglia, e ciò per due ragioni:
In generale, come abbiamo detto, il compito di educare è della famiglia ed un intervento della scuola non coordinato con quello della famiglia può fare solo danno.
In secondo luogo esiste un interesse pubblico a che si mantengano e si rafforzino i ruoli sessuali e genitoriali " tradizionali". Attraverso questi ruoli i bambini vengono generati ed educati e gli anziani vengono sostenuti ed assistiti fino alla morte. La alleanza fra le generazioni mantiene in vita la nazione e le permette di attraversare la storia. I ruoli sessuali "tradizionali" sono orientati alla formazione della famiglia e la famiglia a sua volta svolge una funzione fondamentale di interesse pubblico che legittima il ruolo particolare che le assegna la Costituzione italiana. Questi ruoli possono essere ripensati, aggiornati, adeguati a nuove esigenze ma non possono essere messi da parte, archiviati, privati del giusto riconoscimento sociale.
Ma questo atteggiamanto non implica intolleranza verso le minoranze?
È cresciuta nelle nostre società, negli ultimi anni ed in modo totalmente legittimo, una accresciuta sensibilità verso le minoranze che rischiano di essere emarginate o di non potere esercitare liberamente i loro diritti.
Guardiamo adesso di nuovo al problema della formazione della identità sessuale dal punto di vista di un giovane omosessuale che non riesce ad accettare o comunque non vuole accettare il modello che la sua famiglia e la scuola propone. Che fare? Arrivato ad una certa età egli ha il diritto di decidere per se stesso e nessuno deve disprezzarlo o rifiutarlo per questo. Soprattutto la famiglia ha un dovere di rispetto e di accoglienza. Mia figlia è mia figlia e rimane mia figlia anche quando fa delle scelte o compie delle azioni che io non condivido o anche giudico gravemente errate. Io ho il diritto di proporre ai miei figli i miei valori ed i miei modelli di comportamento, non ho invece il diritto di imporli. I figli sottopongono l'eredità dei valori che ricevono dai genitori ad un esame critico e trattengono ciò che è confermato dalla esperienza della loro vita. A volte la trasmissione della identità sessuale non riesce per le ragioni più diverse. Questo non può essere ragione per rompere il vincolo dell’affetto e della solidarietà all’interno della famiglia. Abbiamo anche il dovere di insegnare, nella scuola, il rispetto verso gli omosessuali e dobbiamo lottare in ogni modo contro la violenza rivolta verso gli omosessuali.
Fin qui credo si possa costruire un consenso generale. Alcuni vogliono andare ancora oltre e dicono che i bambini andrebbero esposti nella scuola a modelli eterosessuali ed a modelli omosessuali su di un piede di parità. Questo non è accettabile perchè violerebbe il diritto dei genitori alla educazione dei figli ed anche ignorerebbe la posizione particolare che la Costituzione italiana riconosce alla famiglia.
Altri ancora vorrebbero eliminare dai documenti scolastici le espressioni "papà" e "mamma" sostituendole con " genitore 1" e " genitore 2" per non fare sentire in imbarazzo i bambini adottati da coppie omosessuali ( anche se, per la verità, la legge italiana non consente l' adozione alle coppie omosessuali). Ora deve essere chiaro che come una maggioranza non ha il diritto di limitare la libertà di espressione di una minoranza allo stesso modo la minoranza non ha il diritto di limitare la libertà di espressione della maggioranza. Essere minoranza non è cosa vergognosa e non si vede perchè non si debba dire a un bambino che fa parte di una minoranza se questi, in effetti, fa parte di una minoranza. I tentativi di imporre regole come quella del divieto di indicare i ruoli genitoriali sembrano esprimere più che la volontà di proteggere le minoranze una ostilità non dissimulata verso le maggioranze ed una volontà di indebolire la loro identità culturale.
Dobbiamo accettare il fatto che altri siano diversi da noi, e quindi le maggiorane devono imparare a non discriminare le minoranze. Dobbiamo però anche accettare il fatto che noi siamo diversi da altri e quindi accettare la nostra condizione di minoranza quando effettivamente in una condizione di minoranza ci veniamo a trovare.
La protezione dei diritti delle minoranze non può tradursi in una negazione del diritto della maggioranza ad esprimersi ed a manifestare la propria identità culturale.
Non c’è inoltre educazione senza proposta di un modello. In questo due elementi devono sempre essere tenuti presenti: proporre non è imporre. La libertà della persona deve sempre essere rispettata e, inoltre, il modello non sempre o forse anche raramente si realizza nella sua pienezza. Quando diciamo che la famiglia " tradizionale" è il modello che deve essere proposto nel sistema educativo sappiamo benissimo che il modello non si realizza sempre nella sua pienezza. Esistono famiglie monoparentali nelle quali uno dei genitori manca. Talvolta manca perchè è morto lasciando una vedova e degli orfani, talvolta manca perchè è andato via o perchè non c'è mai stato. La struttura familiare si organizza però, per quanto possibile, in analogia al modello originario. Anche famiglie con due genitori (adottivi) omosessuali si organizzano imitando il modello familiare originario tanto che è difficile comprenderle fuori del tentativo di imitare in qualche modo quel modello. Si dice talvolta che oggi abbiamo diversi modelli di famiglia. in realtà non è cosí: abbiamo un modello e diverse varianti imitative. Le varianti imitative vanno certo rispettate ma non possono essere messe sul medesimo piano del modello originario, se non altro perchè non svolgono la medesima funzione sociale o comunque non possono svolgerla in modo ottimale.
Una vera alternativa al modello della famiglia " tradizionale" potrebbe sorgere solo nel momento in cui fossimo in grado di separare interamente la procreazione dalla sessualità producendo dei bambini in un utero artificiale. Ma vogliamo farlo? E come educare o socializzare un essere che non ha sentito per nove mesi il battito del cuore della madre e viene al mondo senza quel legame emotivo originario che è poi la base di tutto lo sviluppo emotivo e cognitivo successivo. Forse fra non molto questo sarà tecnicamente possibile ma non tutto quello che è tecnicamente possibile è anche eticamente, umanamente e quindi anche giuridicamente accettabile. Ogni bambino ha il diritto di nascere dall’amore di un padre e di una madre e di crescere nell'amore di un padre e di una madre. Questo diritto non sempre viene rispettato ma noi abbiamo la responsabilità di fare in modo che le condizioni concrete della generazione e della educazione si avvicinino per quanto possibile a questo modello.
La Sfida educativa
La sfida educativa ha molte dimensioni. In un certo senso ogni generazione si confronta con la sfida di trasmettere alla generazione che viene dopo l' insieme dei valori che ha riconosciuto come veri. Ad ogni generazione questa sfida educativa assume una forma diversa ed una forma diversa deve assumere anche la risposta alla sfida. La verità sull' uomo è una e non cambia nel tempo. I modi però in cui questa verità può essere falsificata sono infiniti e proprio in questo consiste la sfida: rispondere alla riduzione o deformazione cui la verità nel nostro tempo è esposta.
Nel nostro tempo questa sfida è particolarmente radicale. Essa tocca la radice stessa del processo educativo: la identità sessuale che è parte fondamentale del movimento attraverso il quale il soggetto acquisisce la sua identità personale. l modo in cui ci rapportiamo alla nostra sessualità decide per buona parte del fatto che ci costruiamo una
personalità aperta alla comunione con gli altri uomini o una personalità chiusa, ripiegata su se stessa, per la quale l' altro può essere ridotto ad essere solo uno strumento per la affermazione di noi stessi.
Un livello della sfida riguarda il livello della legislazione e della comunicazione di massa. bisogna reagire al tentativo di impedire l’affermazione pubblica del modello "naturale". Di famiglia che, in Italia, è anche il modello costituzionale. Bisogna resistere alla pretesa della parificazione di tutti i modelli, cioè alla pretesa che, negli anni della formazione, il bambino e l' adolescente siano esposti a tutti i modelli possibili di orientamento sessuale su di una base di parità. Questa pretesa assume la sua forma più pericolosa quando si pretende di escludere dalla sfera della educazione qualunque proposta educativa attinente alla sessualità, magari sostituendola con una "educazione sessuale" limitata alla spiegazione del funzionamento degli organi sessuali. Non c' è vera educazione sessuale che non sia contemporaneamente educazione dell' affettività. L' affermazione di un modello deve essere accompagnata in modo esplicito dall' insegnamento del rispetto e della tolleranza per chi faccia una differente scelta di vita.
Un altro livello della sfida, più profondo e più radicale, riguarda le famiglia. Molte voci cercano di dissuadere la famiglia dall' assumere in pieno il proprio compito educativo. Occorre invece incoraggiare la famiglia a credere in se stessa ed a svolgere fino in fondo la propria funzione ed il proprio ruolo. Ciò che decide della capacità educativa della famiglia è l'amore. Si impara originariamente ad essere uomini ed ad essere donne guardando all’amore dei genitori.
Che fare in tutti quei casi nei quali i genitori non sono stati all' altezza del loro compito ed i figli presentano vite danneggiate, personalità in difficoltà. Questi casi sono tutt' altro che rari. In un certo senso essi costituiscono la generalità perchè il compito è cosí alto da eccedere le forze anche della migliore delle famiglie. Arrivato ad una certa età, inoltre, il giovane si ribella alla famiglia di origine ed inizia un riesame di tutti i valori ricevuti
per decidere cosa ci essi definitivamente fare proprio. Chi assiste ed accompagna il giovane in questa tappa della vita?
Qui incontriamo il ruolo sussidiario della scuola che integra la paternità e la maternità secondo la carne con una paternità ed una maternità spirituale. Il carisma della educazione deve certo essere coltivato con la applicazione e lo studio. Esso è tuttavia originariamente un dono di Dio che si apprende nella sequela delle grandi figure di educatori che Dio periodicamente suscita e ci fa incontrare. Si tratta di uomini e donne con una capacità di paternità e di maternità cosí potente da riparare e fare rifiorire vite danneggiate.

http://www.fedescienza.it/


Per chi suona la campanella. Le occupazioni studentesche ai tempi del Faraone



Le formiche, 10 - 12 - 2014Luca Del Pozzo

Ha fatto rumore, né poteva essere altrimenti, l’intervento su La Stampa di qualche giorno fa del sottosegretario all’Istruzione, Davide Faraone. Tema, le occupazioni studentesche, ormai diventate un appuntamento fisso di ogni stagione scolastica. Nei confronti delle quali il sottosegretario ha mostrato una certa simpatia, al punto che sarebbe ben disposto a “istituzionalizzarle”. “Il governo crede così tanto nell’autonomia scolastica – dice il sottosegretario – che pensiamo che i singoli istituti potrebbero prevedere, se lo ritenessero utile, momenti simili, di autogestione programmata, come esperienza curriculare da far fare ai ragazzi”. Oibò. Addirittura prevedere l’autogestione nei curricula? Non è un po’ troppo? Evidentemente non per Faraone, che d’altra parte di occupazioni se ne intende, visto che a suo tempo anche lui le ha fatte. “Esperienze di grande partecipazione democratica che ricordo con piacere”, dice. “In alcuni casi più formative di ore passate in classe”, aggiunge. Talmente formative da forgiare nientemeno che la classe dirigente del paese. “Chissà quanti hanno cominciato a fare politica, o vita associativa, o hanno scoperto la passione civile, proprio partendo questa esperienza. O ancora, quanti sono diventati leader di un’azienda durante un’occupazione studentesca. Anche in questi contesti si seleziona la classe dirigente”.
Premesso che sulla classe dirigente italiana, soprattutto quella formatasi durante le contestazioni, occupazioni e via protestando, ci sarebbe molto da (ri)dire, e in alcuni casi da ri-dere, il punto è un altro: che bisogno c’è di occupare quando, come hanno giustamente sottolineato i docenti del Liceo Virgilio di Roma in una lettera al Corriere, già esistono “ampie forme di partecipazione studentesca”? E soprattutto: è davvero, come dice Faraone, un momento di “grande partecipazione democratica”, o non piuttosto un gesto prepotente di una minoranza a discapito dei più, che o non sono interessati alle magnifiche sorti e progressive della scuola italiana, o pur essendolo semplicemente preferiscono comunque andare in classe e seguire le lezioni, e si vedono impediti e privati di un diritto sacrosanto, legittimo tanto (anzi direi di più) quanto quello di chi vuole protestare?
E poi, andiamo: è proprio sicuro Faraone che le occupazioni siano quei momenti idilliaci di confronto dialogo e partecipazione di cui parla, o non piuttosto aule ridotte a discariche, canne e alcool a go go, musica a tutto spiano e cazzeggio annoiato con qualche accenno di (inconcludente) discussione che di notte cede il passo ad altre forme di approfondimento? Discutere sulla scuola e su questo o quel progetto riforma non solo va bene ma è doveroso, e ben vengano argomenti e proposte da parte degli studenti. Ma al di fuori dell’orario scolastico. Prima, cari occupanti in servizio permanente effettivo, imparate come si deve a leggere, parlare articolando possibilmente frasi di senso compiuto, scrivere mettendo i congiuntivi al loro posto e fare di conto (magari senza computer), poi discutete quanto e come volete. Nel rispetto delle regole e degli altrui diritti.

Dirigenti scolastici a scuola di omosessualismo



Riccardo Cascioli


Dirigenti scolastici di tutta Italia convocati a Roma il 26 e 27 novembre. Scopo: una full immersion per imparare la “dottrina gender” e riproporla in tutte le scuole d’Italia. Così la dittatura omosessualista avanza a tappe forzate per conquistare la scuola e le nuove generazioni, in attuazione di quella “Strategia nazionale 2013-2015 per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”, che fu adottata dal governo Monti nell’aprile 2013 (decreto del ministro Fornero, sotto la cui direzione agiva il Dipartimento per le Pari Opportunità).

Il corso di formazione – ma sarebbe più corretto dire “di rieducazione” – è organizzato dal MIUR (Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca) e dall’UNAR (l’Ufficio Nazionale Anti-discriminazioni Razziali ormai votatosi alla diffusione dell’ideologia di genere) con la collaborazione del Servizio LGBT di Torino e della Rete RE.A.DY (clicca qui), ovvero la Rete nazionale delle Pubbliche Amministrazioni impegnate nella promozione dell’ideologia omosessualista.

È la più clamorosa smentita alla pretesa - espressa in una lettera al nostro giornale - del sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi di scaricare la responsabilità di certi programmi “educativi” lontano dal proprio ministero. Ma è anche la dimostrazione della inattendibilità delle promesse del ministro Stefania Giannini che in un question time alla Camera lo scorso 5 giugno – secondo quanto riportato da Avvenire - aveva affermato: «Mai più gender nelle scuole». Erano i giorni dello scandalo al Liceo Giulio Cesare di Roma e del Liceo Muratori di Modena, il ministro Giannini aveva assicurato che «sarà evitato il ripetersi di tali eventi», di cui aveva attribuito la responsabilità proprio a quella “Strategia nazionale eccetera…”, che oggi viene riproposta come fonte di questi corsi di formazione che hanno come obiettivo tutte le scuole di ogni ordine e grado.

Sui contenuti dei corsi non c’è alcun dubbio: sono divisi in cinque sezioni: la prima è curata dal Servizio LGBT di Torino (Torino è la città che funge da segreteria nazionale del RE.A.DY) e consiste nell’illustrazione della posizione dell’Italia quanto al riconoscimento dei diritti e delle politiche LGBT rispetto all’Europa (possiamo immaginare che dovremo muoverci rapidamente per metterci al passo con gli altri paesi). A seguire la presentazione dell’indagine ISTAT su “La popolazione omosessuale nella società italiana”, finanziata dal Dipartimento per le pari opportunità (ovviamente con i soldi delle nostre tasse). Si passa poi a una lezione su “Lessico e stereotipi”, vale a dire l’imposizione di un linguaggio gay-friendly così che già dalla scuola materna – tanto per fare un esempio - si dovrà insegnare che non c’è una sola famiglia, ma tante famiglie diverse (forse che la diversità non è una ricchezza?). E guai al bambino che dirà “papà” e “mamma” e a chi oserà ripetere quella terribile affermazione sentita in casa “Di mamma ce n’è una sola”. E poi ancora un focus sul ruolo del MIUR e degli Uffici scolastici regionali in questa bella campagna di rieducazione nelle scuole, con «strumenti di governance per l’inclusione delle tematiche LGBT nel mondo della scuola» e presentazione della campagna “Tante diversità uguali diritti”. Né potrebbe ovviamente mancare l’affronto del «fenomeno del bullismo omofobico e transfobico a scuola», tanto più che sono già pronte le linee guida in materia, come abbiamo scritto alcuni giorni fa.

Ma non è finita, perché altre due ore di lavoro saranno dedicate alla presentazione di “buone pratiche” realizzate con alcune associazioni LGBT in ambito educativo e scolastico, cui seguiranno tre workshop.

Per chi va a scuola dunque non pare esserci scampo, il processo di trasformazione delle scuole in “campi di rieducazione” – espressione ripresa da papa Francesco – è ormai ben avviato. Fatta salva la possibilità di interventi politici che blocchino questa deriva, ai genitori che vogliono ancora esercitare il proprio diritto/dovere di educazione dei figli non resta che cercare tutele giuridiche per sottrarre i propri figli a lezioni non volute. Qui vi linkiamo due modelli di lettere – preparate dai Giuristi per la Vita, li trovate in fondo all'articolo - per chiedere per i propri figli l’esonero da eventuali lezioni “speciali” in questa settimana dedicata alla lotta contro la violenza e la discriminazione, ma anche nel corso dell’anno.

Resta un’ultima breve considerazione: si avvicina rapidamente il momento in cui saranno le scuole paritarie a entrare nel mirino. Si vincolerà l’eventuale contributo statale o comunale all’adozione o alla produzione di programmi che veicolano l’ideologia di genere. E molte scuole cattoliche si troveranno allora davanti all’alternativa: chiudere o adottare programmi “inclusivi” che contraddicono apertamente il Magistero della Chiesa. Forse bisognerebbe cominciare a pensarci.


La nuova bussola quotidiana


Genitori attenti, il gender diventa obbligo scolastico



Il diavolo si nasconde nei dettagli. E nel disegno di legge della vice-presidente del Senato Valeria Fedeli (Pd) sulla pari uguaglianza tra uomini e donne il dettaglio sta tutto in una parola: “genere”. Il Ddl si intitola, infatti, “Introduzione dell'educazione di genere e della prospettiva di genere nelle attività e nei materiali didattici delle scuole del sistema nazionale di istruzione e nelle università” a firma di quaranta onorevoli e depositato pochi giorni fa in Senato.
Vediamo prima di tutto cosa dice questo disegno di legge. La finalità è laseguente: il «superamento degli stereotipi di genere educando le nuove generazioni, lungo tutte le fasi del loro apprendimento scolastico, al rispetto della differenza di genere». Dunque, insegnare la «differenza di genere» sin dalle elementari auspicando anche e soprattutto un significativo «intervento sui libri di testo». Per soddisfare tale finalità il ministro dell’Istruzione «adotta i provvedimenti necessari a integrare l'offerta formativa dei curricoli scolastici di ogni ordine e grado con l'insegnamento a carattere interdisciplinare dell'educazione di genere. I piani dell'offerta formativa delle scuole di ogni ordine e grado adottano misure educative volte alla promozione di cambiamenti nei modelli comportamentali al fine di eliminare stereotipi, pregiudizi, costumi, tradizioni e altre pratiche socio-culturali fondati sulla differenziazione delle persone in base al sesso di appartenenza e sopprimere gli ostacoli che limitano di fatto la complementarità tra i sessi nella società» (art. 1). Naturalmente si prevedono anche corsi sulla “differenza di genere” a beneficio – o a maleficio - dei docenti (art. 3).
Prima facie il disegno di legge sembrerebbe che riguardi unicamente la valorizzazione del ruolo della donna nella società e la tutela del principio di uguaglianza al di là delle differenze di sesso. Su questo punto, però, le premesse sono già erronee. Infatti, ecco cosa leggiamo nella Relazione introduttiva all’articolato di legge: in merito agli studenti occorre «incoraggiarli a intraprendere percorsi di studi e professionali superando visioni tradizionali che tendano a individuarli come tipicamente “maschili” o “femminili”». In realtà, operando così si eliminano quelle differenze proprie del maschio e della donna – che nella terminologia gender si chiamano “differenze di genere” – le quali invece si vorrebbero tutelare e mettere in risalto. Si sbianchettano le peculiarità dell’uomo e della donna perché ritenute errori grossolani compiuti da una certa cultura maschilista che a oggi non ha ancora imparato il nuovo alfabeto e la nuova sintassi del sessualmente corretto. Operazione paradossale per un disegno di legge che mira a tutelare le donne, perché, in buona sostanza, è come se comandasse: «Che le donne siano meno donne!».
In seconda battuta, però, il disegno di legge è un vero e proprio piede di porco per scardinare iportoni delle scuole di tutta Italia al fine di indottrinare le giovani menti al credo gender. Dicevamo prima che un dettaglio da non sottovalutare è l’uso del termine “genere”. É ormai di dominio pubblico il dato che si usa la parola “genere” a posto di “sesso” perché il primo termine rimanda alla teoria del gender. La quale teoria predica che più importante dell’identità sessuale – essere geneticamente maschio o femmina - è l’identità di genere cioè il riconoscimento di sé come appartenente al mondo maschile o femminile, o a un mondo intermedio, oppure infine a nessun mondo sessuale. E così io potrò essere maschio e sentirmi 100% femmina, o 60% maschio e 40% femmina o niente di tutto questo. 
Vi è traccia di questa teoria nel disegno di legge dell’onorevole Fedeli? Sì, ma ovviamente comesottotraccia. Nella Relazione, infatti, possiamo leggere che è necessario arrivare alla «decostruzione critica delle forme irrigidite e stereotipate attraverso cui le identità di genere sono culturalmente e socialmente plasmate, stimolando al contempo l'auto-apprendimento della e nella complessità». Proviamo a tradurre dal cripto-politichese: occorre superare lo schema uomo-donna perché vecchi stereotipi culturali e sociali (le sovrastrutture di marxiana memoria non muoiono mai nella testa di molti politici di sinistra) e stimolare nell’alunno il riconoscimento dell’identità di genere attraverso quei modelli comportamentali già presenti nella società (questa società che prima si bacchetta e poi, se torna comodo, si prende ad esempio). Modelli che non possono essere semplicemente quelli del binomio “maschio-femmina”, ma sono più complessi, più variegati, più sfumati così come sono più complessi, variegati e sfumati gli orientamenti sessuali delle persone. Abbattuto il decrepito, perché vetusto, argine del sesso biologico si spalancano le porte alle infinite e nuove variabili del sesso ideologico: gay, bisex, transessuali, transgender, asessuali, etc.
Quella volontà, espressa all’arti. 1, tesa a «eliminare stereotipi, pregiudizi, costumi, tradizioni e altre pratiche socio-culturali fondati sulla differenziazione delle persone in base al sesso di appartenenza», non sta a significare soltanto «non trattare la donna come una bambolina stupida», ma soprattutto «insegniamo ai bambini che non c’è solo l’azzurro e il rosa, ma un arcobaleno di colori che nessuno può scegliere per te ma che tu sceglierai per te stesso in piena autonomia». E così «la differenziazione delle persone in base al sesso di appartenenza» non è più un dato di natura e quindi bello e positivo, ma diventa per gli opliti del pensiero gender uno stereotipo e un pregiudizio da sopprimere. Come servirsi delle donne per colpire al cuore la loro femminilità e privilegiare i diktat dei filo-gender.

La Nuova Bussola


Scuola: lezioni di omosessulità con la scusa del bullismo omofobico






Questi video spiega con chiarezza che cosa accade nelle scuole italiane, spesso senza che i genitori ne siano al corrente. Con la scusa di fare la lotta ad un fantomatico “bullismo omofobico”, durante un’assemblea scolastica con la partecipazione dell’arcigay, viene insegnato ai ragazzi il rapporto omosessuale e vengono fornite indicazioni sui luoghi dove praticarlo con tanto di calendario degli “eventi”.
Non viene insegnato ai ragazzi il rispetto per chi ha un orientamento sessuale verso persone del suo stesso sesso, ma viene proprio insegnato l’orientamente omosessuale, comprese tutte le indicazioni su come e dove praticarlo.
Il tutto avallato dal preside dell’istituto con tanto di circolare, mostrata durante l’intervento dall’avv. Simone Pillon, consigliere nazionale del Forum associazioni familiari.


gay-scuola


Scuola, gli abbandoni nel 2010 sfiorano il 19%

Gli abbandoni scolastici prematuri continuano a essere una spina nel fianco del sistema scolastico italiano. Nel 2010 la percentuale di chi ha lasciato gli studi senza conseguire un diploma di scuola superiore si è attestata al 18,8%, ben lontano dalla soglia del 10% indicata nella Strategia Europa 2020, e a fronte di una media europea del 14,4%. È quanto emerge dal Rapporto annuale Istat 2011.

In Italia, dove è occupata meno della metà dei giovani che hanno lasciato precocemente gli studi, a un tasso di abbandono femminile più contenuto (16,3%) non corrispondono maggiori chances di occupazione: risulta occupato il 31,9% delle giovani donne che hanno abbandonato gli studi contro tassi di abbandono e di occupazione tra i maschi rispettivamente del 22 e 56,8%.

Le differenze territoriali sono marcate: particolarmente grave la situazione della Sicilia, dove più di un quarto dei giovani lascia la scuola con al più la licenza media. Percentuali superiori al 23% si registrano anche in Sardegna, Puglia e Campania. Più in linea con il traguardo europeo del 2020 appare il Nord-est, con un tasso di abbandono scolastico intorno al 12% nella provincia autonoma di Trento e in Friuli-Venezia Giulia.

La tendenza alla riduzione degli abbandoni, più incisiva fino al 2007, mostra negli anni recenti un andamento stagnante. Le regioni del Mezzogiorno, pur partendo dai livelli più elevati, sono quelle che mostrano la maggiore contrazione del fenomeno.

Il sistema tuttavia - si fa notare nel Rapporto - offre ampie opportunità legate alla prosecuzione degli studi: dai dati dell'indagine Excelsior nel periodo compreso fra l'anno scolastico 2004-05 e quello 2007-08 il numero di diplomati degli istituti tecnici italiani si è ridotto da 181.099 a 163.915, con un gap rispetto alla domanda potenziale da un minimo di circa 24 mila unità (nel 2005) a un massimo di oltre 127 mila diplomati tecnici (nel 2007).

© Copyright Avvenire 24 maggio 2011

C’è sempre un orizzonte più grande, sopra e al di là delle singole materie del vostro studio e delle varie capacità che acquisite

Discorso di Benedetto XVI al mondo dell'educazione cattolica britannica
Al St Mary’s University College di Twickenham

LONDRA, venerdì, 17 settembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo venerdì da Benedetto XVI nel campo sportivo del St Mary’s University College di Twickenham, dove erano riuniti circa 4000 studenti delle scuole cattoliche britanniche, mentre tutte le scuole cattoliche dell’Inghilterra, del Galles e della Scozia era collegate via internet per seguire in diretta l’evento.

* * *
Cari Fratelli e Sorelle in Cristo,Cari giovani amici,
desidero anzitutto dirvi quanto sia lieto di essere oggi qui in mezzo a voi. Estendo il più cordiale saluto a tutti voi, convenuti alla "Saint Mary’s University" dalle scuole e dai collegi cattolici del Regno Unito, e a tutti coloro che ci stanno seguendo alla televisione o via internet. Ringrazio il vescovo McMahon per il suo cortese benvenuto e il coro e la banda per la bella musica eseguita poco fa, che ha dato inizio alla nostra celebrazione. Ringrazio Miss Bellot per le gentili parole che mi ha rivolto a nome di tutti i giovani presenti. Guardando ai prossimi giochi olimpici, è stato un piacere inaugurare questa Fondazione sportiva intitolata a Giovanni Paolo II, e prego affinché tutti coloro che la frequenteranno rendano gloria a Dio attraverso le loro attività sportive, così come possano trarre giovamento per se stessi e per gli altri.
Non capita spesso ad un Papa — in verità nemmeno a qualsiasi altra persona — l’opportunità di parlare contemporaneamente agli studenti di tutte le scuole cattoliche dell’Inghilterra, del Galles e della Scozia. E dal momento che ora io ho questa possibilità, c’è qualcosa che mi sta davvero molto a cuore di dirvi. Ho la speranza che fra voi che oggi siete qui ad ascoltarmi vi siano alcuni dei futuri santi del ventunesimo secolo. La cosa che Dio desidera maggiormente per ciascuno di voi è che diventiate santi. Egli vi ama molto più di quanto voi possiate immaginare e desidera per voi il massimo. E la cosa migliore di tutte per voi è di gran lunga il crescere in santità.
Forse alcuni di voi non ci hanno mai pensato prima d’ora. Forse alcuni pensano che essere santi non sia per loro. Lasciatemi spiegare cosa intendo dire. Quando si è giovani, si è soliti pensare a persone che stimiamo e ammiriamo, persone alle quali vorremmo assomigliare. Potrebbe trattarsi di qualcuno che incontriamo nella nostra vita quotidiana e che teniamo in grande stima. Oppure potrebbe essere qualcuno di famoso. Viviamo in una cultura della celebrità ed i giovani sono spesso incoraggiati ad avere come modello figure del mondo dello sport o dello spettacolo. Io vorrei farvi questa domanda: quali sono le qualità che vedete negli altri e che voi stessi vorreste maggiormente possedere? Quale tipo di persona vorreste davvero essere?
Quando vi invito a diventare santi, vi sto chiedendo di non accontentarvi di seconde scelte. Vi sto chiedendo di non perseguire un obiettivo limitato, ignorando tutti gli altri. Avere soldi rende possibile essere generosi e fare del bene nel mondo, ma, da solo, non è sufficiente a renderci felici. Essere grandemente dotati in alcune attività o professioni è una cosa buona, ma non potrà mai soddisfarci, finché non puntiamo a qualcosa di ancora più grande. Potrà renderci famosi, ma non ci renderà felici. La felicità è qualcosa che tutti desideriamo, ma una delle grandi tragedie di questo mondo è che così tanti non riescono mai a trovarla, perché la cercano nei posti sbagliati. La soluzione è molto semplice: la vera felicità va cercata in Dio. Abbiamo bisogno del coraggio di porre le nostre speranze più profonde solo in Dio: non nel denaro, in una carriera, nel successo mondano, o nelle nostre relazioni con gli altri, ma in Dio. Lui solo può soddisfare il bisogno più profondo del nostro cuore.
Dio non solo ci ama con una profondità e intensità che difficilmente possiamo immaginare: egli ci invita a rispondere a questo amore. Tutti voi sapete cosa accade quando incontrate qualcuno di interessante e attraente, come desideriate essere amici di quella persona. Sperate sempre che quella persona vi trovi a sua volta interessanti ed attraenti e voglia fare amicizia con voi. Dio desidera la vostra amicizia. E, una volta che voi siete entrati in amicizia con Dio, ogni cosa nella vostra vita inizia a cambiare. Mentre giungete a conoscerlo meglio, vi rendete conto di voler riflettere nella vostra stessa vita qualcosa della sua infinita bontà. Siete attratti dalla pratica della virtù. Incominciate a vedere l’avidità e l’egoismo, e tutti gli altri peccati, per quello che realmente sono, tendenze distruttive e pericolose che causano profonda sofferenza e grande danno, e volete evitare di cadere voi stessi in quella trappola. Incominciate a provare compassione per quanti sono in difficoltà e desiderate fare qualcosa per aiutarli. Desiderate venire in aiuto al povero e all’affamato, confortare il sofferente, essere buoni e generosi. Quando queste cose iniziano a starvi a cuore, siete già pienamente incamminati sulla via della santità.
C’è sempre un orizzonte più grande, nelle vostre scuole cattoliche, sopra e al di là delle singole materie del vostro studio e delle varie capacità che acquisite. Tutto il lavoro che fate è posto nel contesto della crescita nell’amicizia con Dio, e da quell’amicizia tutto quel lavoro fluisce. In tal modo apprendete non solo ad essere buoni studenti, ma buoni cittadini e buone persone. Mentre proseguite con il percorso scolastico dovete compiere delle scelte circa la materia del vostro studio e iniziare a specializzarvi in vista di ciò che farete nella vita. Ciò è giusto e conveniente. Ricordate sempre però che ogni materia che studiate si inserisce in un orizzonte più ampio. Non riducetevi mai ad un orizzonte ristretto. Il mondo ha bisogno di buoni scienziati, ma una prospettiva scientifica diventa pericolosamente angusta, se ignora la dimensione etica e religiosa della vita, così come la religione diventa angusta, se rifiuta il legittimo contributo della scienza alla nostra comprensione del mondo. Abbiamo bisogno di buoni storici, filosofi ed economisti, ma se la percezione che essi offrono della vita umana all’interno del loro specifico campo è centrata su di una prospettiva troppo ristretta, essi possono seriamente portarci fuori strada.
Una buona scuola offre una formazione completa per l’intera persona. Ed una buona scuola cattolica, al di sopra e al di là di questo, dovrebbe aiutare i suoi studenti a diventare santi. So che vi sono molti non cattolici che studiano nelle scuole cattoliche in Gran Bretagna e desidero rivolgermi a tutti con le mie odierne parole. Prego affinché anche voi vi sentiate incoraggiati a praticare la virtù e a crescere nella conoscenza ed amicizia con Dio, assieme ai vostri compagni cattolici. Voi siete per loro il richiamo all’orizzonte più vasto che esiste fuori della scuola ed è fuor di dubbio che il rispetto e l’amicizia per membri di altre tradizioni religiose debba essere tra le virtù che si apprendono in una scuola cattolica. Spero anche che vorrete condividere con chiunque incontrerete i valori e gli insegnamenti che avrete appresi mediante la formazione cristiana ricevuta.
Cari amici, vi ringrazio per la vostra attenzione, vi prometto di pregare per voi e vi chiedo di pregare per me. Spero di vedere molti di voi il prossimo agosto, alla Giornata Mondiale della Gioventù a Madrid. Nel frattempo, che Dio benedica tutti voi!


[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

Desaparecidos tra i banchi. Uno studente su tre non arriva al diploma superiore. Senza maestri che appassionino restano le «vogliuzze»

di Alessandro D’Avenia
Tratto da Avvenire dell'8 settembre 2010

«Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono eguali. Una vo gliuzza per il giorno e una per la not te: salva restando la salute. 'Noi ab biamo inventato la felicità' – dicono e strizzano l’occhio. Io ho conosciu to persone nobili che hanno perduto la loro speranza più elevata. E da al lora calunniano tutte le speranze e levate. Da allora vivono sfrontata mente di brevi piaceri e non riesco no più a porsi neppure mete effime re. Perciò hanno spezzato le ali al lo ro spirito: che ora striscia per terra e contamina ciò che rode... Ma, ti scon giuro: mantieni sacra la tua speranza più elevata!». A leggere queste parole di Nietzsche si rimane sbalorditi: a veva previsto la chiusura della men te borghese e la sua rinuncia alla vi ta.

Nessun uomo è un’isola e, parafra sando il poeta, si può dire lo stesso di uno studente che abbandona la scuo la. Se abbandona, non fallisce lui so lo, ma la scuola come relazione: ge nitori- insegnanti-studenti. I dati par lano chiaro, negli ultimi cinque anni uno studente su tre dell’ultimo quin quennio non arriva al diploma; nel l’ultimo anno il 20% ha abbandona to il liceo e il 44% gli istituti profes sionali. La scuola dovrebbe essere, at traverso la cultura e il lavoro manua le, un trampolino di lancio per la scel ta professionale più adeguata. Quel lo che posso dire, da professore, è che molti abbandonano perché la scuo la appare loro inutile per ciò che vo gliono essere e fare nella vita.

Durante un’estate da liceale squattri nato lavoravo in un cantiere come aiuto di un manovale: «Sei fortunato – mi ripeteva – perché puoi studiare: se potessi, io tornerei indietro». La scuola dell’obbligo non obbliga a ri manerle fedele perché non riesce a obbligarti: solo gli amori veri e gran di 'obbligano' alla fedeltà. I ragazzi che si disperdono spesso non hanno trovato docenti in grado di appassio narli. Eppure la scuola dovrebbe es sere un 'andare a bottega': scoperta e incoraggiamento dei talenti perso nali per opera di maestri. Ho incon trato, con l’occasione del mio primo libro, studenti di tutte le città e per corsi. Ho trovato ragazzi di istituti tec nici affamati di letture, ben sapendo che avrebbero fatto l’elettricista, l’i draulico, l’informatico. Tutto merito di professori appassionati ai loro a lunni, capaci di accendere nei ragaz zi, attraverso la cura del pezzo di mondo loro affidato, lo sguardo su u­na vita più grande, più piena, più ric ca.

Molti ragazzi abbandonano perché tanto un lavoro si trova: si guadagna subito e si realizza l’orizzonte ristret to delle «vogliuzze». Manca loro uno sguardo di più lunga gittata. Gli adulti descritti da Nietzsche riescono a spe gnere quello sguardo, perché hanno rinunciato loro stessi a una vita più grande. Anche loro si accontentano del tutto e subito. Se i ragazzi non leg gono libri, è perché gli adulti accen dono la tv, invece di prendere in ma no un libro. Se i ragazzi abbandona no la scuola, è perché gli adulti della scuola non sono interessati a loro. La crisi dei giovani è crisi di maestri. Io conosco centinaia di maestri capaci di provocare la nostalgia del futuro, provocando (chiamandole alla luce) le risorse migliori degli studenti. Di contro ci sono docenti che odiano i loro studenti, li umiliano e condan nano all’abbandono, non solo della scuola, ma di sé stessi.

Nietzsche sferzava i benpensanti che trasformavano la felicità in vogliuzze e benessere, gli stessi che hanno cri ticato queste parole: «Allo stesso tem po la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande. Se penso ai miei anni di allo ra: semplicemente non volevamo perderci nella normalità della vita borghese. Volevamo ciò che è grande, nuovo. Volevamo trovare la vita stes sa nella sua vastità e bellezza». Le ha pronunciate Benedetto XVI, qualche giorno fa. Nietzsche e il Papa sem brano d’accordo. Esiste un terreno sul quale la scuola sta mancando e non è questione di ideologie, ma di amo re all’uomo. Nella scuola è dei docenti – alleati ai genitori – il compito di tra smettere una vita più grande e nuo va attraverso le loro ore di lezione.

Francia Socialisti all’assalto «Nei licei assegni per la contraccezione»

Una battaglia politico-giuridica è in corso da oltre un anno in Francia fra la presidentessa socialista della Regione Poitou-Charentes, l’ex candidata perdente all’Eliseo Ségolène Royal, e il ministero dell’Istruzione. Il pomo della discordia è un piano di distribuzione regionale gratuita nei licei di «assegni per la contraccezione» destinati in particolare alle liceali: un dispositivo approvato a Poitiers dal Consiglio regionale nel marzo 2009, nonostante il parere negativo ministeriale. L’ultimo atto della diatriba si è consumato nei giorni scorsi, con l’invio alla volta di Parigi da parte della presidentessa regionale di una petizione sottoscritta da un migliaio di firme. Vi si chiede che le infermiere distaccate nei licei possano distribuire gli assegni alle studentesse, invocando la prevenzione contro le gravidanze non desiderate.
I
l destinatario della petizione non è tuttavia il ministro dell’Istruzione, ma il presidente della Repubblica in persona, Nicolas Sarkozy. Nel testo inviato all’Eliseo si può leggere: «Le trasmetto questa petizione firmata da liceali, genitori di allievi e da professionisti della sanità chiedendole di rivedere la decisione del ministro dell’Istruzione e di autorizzare la distribuzione dei pass­contraccezione da parte delle infermiere scolastiche». Il braccio di ferro solleva da tempo un gran polverone, sullo sfondo di accuse incrociate fra i sostenitori della Royal e il campo governativo neogollista. Da un punto di vista amministrativo, i licei rappresentano una competenza regionale. Ma le infermiere scolastiche, così come i presidi degli stessi licei, sono posti sotto la tutela dei provveditorati, dunque dello Stato. Il personale si è dunque trovato fra l’incudine e
il martello.
A
l di là di tutti i complessi e contorti risvolti giuridici del caso, tanto il ministero quanto molti osservatori indipendenti hanno ricordato che l’accesso alla contraccezione gratuita per gli studenti è già consentita da anni presso i centri di planning familiare, legati amministrativamente ai dipartimenti, l’equivalente transalpino delle nostre province. Ma allora perché tutte queste lunghe e strenue battaglie di trincea, visto che anche molti studenti già al corrente del dispositivo tradizionale si sono stupiti dell’iniziativa del Consiglio regionale? Da tempo, sono molti gli osservatori che accusano la Royal di un’azione ben poco ortodossa volta principalmente all’autopromozione politica, in vista soprattutto dell’ormai non lontana nuova corsa per l’Eliseo.


Daniele Zappalà


© Copyright Avvenire 13 maggio 2010

«Preservativi in classe? Si stravolge la scuola»

di Antonella Mariani

«Quando andremo ad acquistare i libri in farmacia, allora sarà giusto che nelle scuole si distribuiscano i preservativi». Un paragone azzardato, quello di Gianni Nicolì, pedagogista e insegnante, responsabile nazionale dell’Ufficio scuola dell’Associazione genitori (Age). E anche un po’ provocatorio: perché secondo lui la scuola è «luogo di apprendimento, crescita educativa e maturazione di vita sociale» e installare macchinette per la vendita di preservativi, come nei due licei di Roma e di Palermo di cui abbiamo parlato negli scorsi numeri di Èvita, «è uno stravolgimento della funzione istituzionale della scuola. La scuola forma le coscienze e le intelligenze, non dà strumenti di pianificazione familiare. Oltretutto i preservativi sono reperibili ovunque e non si avvertiva il bisogno che lo fossero anche a scuola».
Professor Nicolì, allora a cosa ser­vono le macchinette nelle scuole?
Servono a tacitare l’incapacità degli adulti di dialogare con i giovani su questi temi e a scaricare il problema su un mezzo tecnico.
Con quali effetti collaterali?
È evidente che se ne incentiverà l’uso. Invece di insegnare un principio di valore e cioè che la sessualità è qualcosa di grande e di bello, che abbiamo nella testa e non solo sotto la cintura, che coinvolge tutta la persona e non si riduce a una pratica, be’, si inducono i ragazzi ad esercitarla purché in modo protetto. Mancano i significati profondi.
C’è da aggiungere che di 'istruzio­ni per l’uso' se ne trovano in gran quantità su internet. Lei gira per le scuole, parla a ragazzi e genitori di educazione all’affettività. Secondo lei cosa hanno bisogno di sentirsi dire i giovanissimi?
I ragazzi vogliono essere ascoltati, vogliono che si dica loro la verità per il loro bene, con disinteresse e con spirito di cura. Hanno bisogno di imparare ad amare e ad essere amati. Noi cerchiamo di spiegare loro che la sessualità è una dimensione espressiva di questo desiderio di amare tipica delle persone adulte. Aggiungiamo che la sessualità raggiunge la sua massima espressione quando diventa dono, che presuppone una formazione psicologica prima ancora che fisica, visto che interessa il cervello e gli strati più profondi della coscienza.
E i giovani capiscono?
Sì, i giovani accettano la verità anche quando essa è scomoda. Anzi, vogliono la verità. E la verità è che hanno diritto a una piena realizzazione affettiva, ma per fare della loro vita un’opera d’arte devono investire in modo corretto su loro stessi, senza sperperarsi. Noi diciamo ai ragazzi che la sessualità non è solo la soddisfazione di un bisogno ma un progetto di vita. E che l’investimento giusto su di sé è di non sprecarsi subito, ma di spendersi solo quando è il momento giusto.
E loro ascoltano?
Sì. Sono gli adulti a non crederci, e sa perché? Perché hanno dei giovani una visione distorta, filtrata attraverso la loro immaturità di adulti. Ecco perché scelgono la via corta e installano la macchinetta che distribuisce i preservativi. No, la sessualità non ammette un approccio così superficiale. La sessualità è interiorità, dobbiamo farlo riscoprire ai giovani. Ma partendo dalla consapevolezza che siamo stati noi adulti ad averla esteriorizzata. In 37 anni di vita in mezzo ai giovani ho capito che non sono loro quelli che vivono peggio la sessualità: gli scambi di coppia, la pornografia non la fanno i ragazzi, ma gli adulti.
Qual è l’opinione dell’Associazio­ne genitori sull’educazione sessua­le insegnata a scuola?
Siamo a favore, purché l’insegnamento rispetti requisiti di scientificità, obiettività e si riferisca a regole e valori morali. Che crediamo non appartengano solo ai credenti: i valori sono perenni, universali e transconfessionali. Ma pensiamo anche che i genitori sono i primi e i principali responsabili dell’educazione dei loro figli.
I genitori come possono avere voce in capitolo nelle scuole?
Attraverso i sistemi di rappresentatività e facendo democratico pressing perché la scuola sia veramente educativa.
«Avvenire» del 13 maggio 2010

Il muro di silenzio della Odenwald. Il liceo tedesco delle élite sessantottine libero e senza tabù con stupri di gruppo e sevizie su minori

Il Cardinal Cañizares: "Nella scuola cattolica non abbiamo saputo presentare un'alternativa"

VALENCIA, giovedì, 29 aprile 2010 (ZENIT.org).- Il prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, il Cardinale Antonio Cañizares, ha riconosciuto che la scuola cattolica non ha saputo presentare un'alternativa e ha sottolineato la necessità che mostri una nuova visione dell'uomo e della donna.

Lo ha fatto questo lunedì inaugurando il III Congresso Internazionale Educazione Cattolica per il XXI secolo dell'Università Cattolica di Valencia San Vicente Mártir, ha reso noto l'ateneo.

"Dobbiamo riconoscere che nella scuola cattolica non abbiamo saputo presentare un'alternativa ed è necessario farlo, perché la scuola cattolica ha una visione dell'uomo e della donna nuova, nella quale ci sono il futuro e la speranza", ha dichiarato.

A questo proposito, il porporato ha invitato a fare un "esame di coscienza" di fronte al fatto che il 30% della società spagnola è stato educato nella scuola cattolica e "non ha un'incidenza di fronte a tutto ciò che sta accadendo nella nostra società".

Questa percentuale "dovrebbe contribuire a far sì che la nostra cultura non sia la cultura della morte e la cultura relativista, ma la cultura dell'amore e della verità che ci rende liberi".

In "tempi di indigenza" e di "crisi di senso e di verità", la scuola cattolica "non può essere neutrale, deve andare controcorrente", ha osservato.

Per il prefetto della Congregazione vaticana, la scuola cattolica deve essere una "scuola rivoluzionaria e libera, perché il mondo ha bisogno di un cambiamento decisivo, senza il quale non ha futuro", di fronte alla "crisi morale e alla perdita dell'orizzonte umano, del senso della vita".

Secondo il Cardinal Cañizares, il male peggiore della società attuale è "non sapere più che cos'è moralmente buono e moralmente valido".

Difficoltà

Analizzando l'attuale momento educativo, il Cardinale ha sottolineato la difficoltà di "educare in una società che ammette l'aborto", con "leggi contro la famiglia" e "una televisione come quella che abbiamo attualmente, in cui si diffonde una visione dell'uomo del tutto contraria alla persona umana".

Si è anche riferito all'"ingiusto" sistema sociale, "con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri".

I sistemi educativi attuali, ha aggiunto, hanno fallito perché "non hanno risposto a sufficienza alla domanda o alle esigenze dell'educazione".

Quanto alla Spagna, il Cardinale Cañizares si è riferito alla legge sull'educazione definendola "uno dei fallimenti maggiori che ha avuto la società spagnola, per il predominio della ragione strumentale, perché non favorisce l'esercizio della ragione per cercare la verità e insabbia le domande fondamentali dell'essere umano".

In questo modo, ha lamentato, "si genera una società come quella che abbiamo, accompagnata da una cultura avvolgente che sta spezzando la nostra umanità".

Gesù Cristo al centro

La scuola cattolica "deve contribuire a una nuova umanità nella sintesi tra fede e ragione", ha proseguito, sottolineando che "al centro della concezione cristiana della scuola cattolica c'è Gesù Cristo, il suo messaggio di salvezza".

Secondo il porporato, nelle scuole cattoliche non deve impartirsi solo un "insegnamento di valori", ma anche l'"arte di vivere" che è alla base dell'evangelizzazione.

"Non bisogna aver paura di essere liberi, perché la scuola cattolica ha la vocazione di trasformare la società", ha detto.

Nel suo intervento, intitolato "L'educazione cattolica: futuro e speranza", il Cardinale ha poi rimarcato l'importanza della "coerenza" dei docenti.

"Non solo insegnanti, ma anche testimoni di ciò che vogliamo offrire, l'arte di vivere, l'umanità nuova", ha indicato.

In questo senso, ha ricordato l'importanza che "Gesù Cristo e la fede non siano un qualcosa di aggiunto, di complementare alla nostra esistenza professionale, ma il nostro essere sostantivo di maestri che sono nella scuola per evangelizzare, il che richiede una formazione molto concreta degli insegnanti".

Il Congresso, in svolgimento a Valencia dal 26 al 28 aprile, tratta l'infanzia come tappa particolarmente significativa del ciclo vitale e base della costruzione della persona, e allo stesso tempo come oggetto prioritario dell'attuale emergenza educativa.

Nelle scuole l’educazione «anticoncezionale»

di Antonella Mariani
L’

offensiva riparte con il solito ritornello: gli adolescenti italiani sono ignoranti sul sesso, non usano gli anticoncezionali salvo poi ricorrere in massa alla pillola del giorno dopo (370 mila confezioni vendute nell’ultimo anno). Se questa è la diagnosi, ecco la terapia: guide al sesso sicuro da distribuire ai giovani e possibilmente accessibili via Internet all’universo mondo. Sintesi brutale, forse, ma in fondo è questo il messaggio emerso martedì dal convegno romano della Società italiana di ginecologica e ostetricia (Sigo) su «Adolescenti, sessualità e media». In particolare il presidente della Società, Giorgio Vittori, ha posto l’accento proprio sulla «confusione e disinformazione su
questi temi».
S
i potrebbe obiettare che l’informazione sul sesso ai giovani non manca affatto, a volerla minimamente cercare. Anche per l’impegno attivo della Sigo, appunto, che nel suo sito, sotto il nome «prevenzione giovani», pubblica una serie di guide al sesso sicuro, peraltro rilanciate anche su un altro sito molto frequentato, questo, ci sarebbe da riflettere sull’insistenza con cui la Sigo si propone di coprire l’Italia di guide: memorabile quella dell’estate scorsa,
Travelsex, (sottotitolo: il sesso sicuro non va in vacanza) in cui, tra le altre cose, si insegnava a dire preservativo nelle principali lingue d’Europa. Tipico della cultura oggi prevalente, che vede il sesso come tecnica: «Ma non si può fare educazione alla sessualità fornendo una corretta e completa informazione e basta – obietta Monica Prastaro, vicepresidente di Progetto Amos, associazione cattolica che a Torino promuove l’educazione all’affettività nelle scuole –. È una strategia che a lungo termine è perdente. È stato dimostrato che tutti i progetti di prevenzione – penso alle droghe – che fanno leva solo sull’informazione dei rischi e sulla paura delle conseguenze non raggiungono l’obiettivo di cambiare i comportamenti».
In breve: conoscere tutte le tecniche per il sesso sicuro non garantisce che i giovani modifichino le loro attitudini. «Per fare vera prevenzione bisogna educare a stili e scelte di comportamento diversi», sintetizza la Prastaro.

L
a questione, dunque, è un’altra e «l’offensiva sesso sicuro» posta in essere dalla Sigo è largamente insufficiente.
Forse bisogna partire da un dato fornito dalla stessa Società a Roma: il 61 per cento delle ragazze si dichiara delusa dalla «prima
volta» e rimpiange che sia accaduto «troppo presto o in condizioni negative». E lo stesso dice il 39 per cento dei maschi. «Delusi, dunque. Forse perché si sono resi conto che l’aver accelerato i tempi non è stata una buona idea. Perché l’amore 'per tutta la vita' in realtà è durato due mesi. Perché nei film sembra tutto così coinvolgente e invece è stato un po’ squallido e triste», analizza la Prastaro, che incontra decine di classi ogni

© Copyright Avvenire 29 aprile 2010

Se non vi piace la matematica c’è chi vuol farvi credere che siete malati

Il celebre matematico settecentesco
Leonhard Euler conosceva a memoria
l’intera Eneide ed era capace, pur divenuto
cieco, di calcolare a mente uno sviluppo
in serie fino al settimo termine dettando il
risultato a un assistente: per chi non conosce
la matematica significa fare un mare
di calcoli difficili, ritenendo a memoria un
numero enorme di risultati parziali. Al
confronto, il miglior matematico vivente
farebbe la figura di un “discalculico”. La
“discalculia” è definita come un disturbo
che si manifesta come “difficoltà negli automatismi
del calcolo e dell’elaborazione
dei numeri”. Se confronto la calligrafia
dei miei figli con quella di mio padre constato
un crollo di qualità tale da considerarli
come affetti da “disgrafia”, la “difficoltà
di realizzazione grafica”. Per non dire
della “disortografia”.
A pensarci bene, non c’è da stupirsi. Secoli
fa il calcolo mentale e l’arte della memoria
erano considerati una virtù da coltivare
intensamente. Oggi facciamo persino
il conto della spesa sulla calcolatrice
del cellulare e imparare le tabelline è opzionale.
Diciamo, per carità di patria, che
usiamo le nostre facoltà mentali in modo
diverso. Perciò circola una legione di discalculici,
tra cui coloro che non amano i
numeri. Per quanto riguarda poi lo scrivere,
sarebbe strano stupirsi che siano in aumento
esponenziale i “disgrafici”, visto
che insegnare a tenere correttamente una
penna in mano e a maneggiarla secondo
regole efficaci è considerato repressivo e
reazionario: vorrei segnalare, al riguardo,
le lucide riflessioni di Angelo Panebianco
sulla mania nostrana di apprezzare non
ciò che è ragionevole ma ciò che è “moderno”.
Quanto alla crescita dello stuolo dei
“disortografici” c’è chi pretende che sia
dovuta a “difficoltà nei processi linguistici
di transcodifica”; ma bisognerebbe
chiedersi se, anche qui, non intervenga il
fatto che stimolare la capacità di tradurre
correttamente in testo scritto le parole
pensate è ormai considerato una fisima
reazionaria.
Sta di fatto che, invece di esplorare ragioni
come quelle accennate, ci si è
orientati da tempo verso l’approccio “curativo”,
raggruppando i detti disturbi, assieme
alla classica dislessia, sotto l’acronimo
Dsa, Disturbi specifici di apprendimento.
Il Dsa sta per essere riconosciuto
da una legge nazionale come... malattia?
Per carità. Il Dsa – si dice – si manifesta
in soggetti con capacità cognitive adeguate,
in assenza di patologie neurologiche e
di deficit sensoriali. Insomma, è una sindrome
in stato di normalità ma che dà
problemi. Ma allora tanto varrebbe introdurre
acronimi, definizioni e leggi che
definiscano o curino la pigrizia, l’obesità,
la logorrea, la miopia, la petulanza, la distrazione
e via dicendo. Ma nella legge
c’è la contraddizione: si dice difatti che la
diagnosi di Dsa viene effettuata dagli specialisti
del Servizio sanitario nazionale,
ovvero medici, psichiatri e psicologi. E
poiché il Servizio Sanitario Nazionale cura
le malattie, rispunta surrettiziamente
la definizione del Dsa come patologia. E
che sia una patologia è confermato dal
fatto che la discalculia non viene diagnosticata
dall’insegnante di matematica, o
la disortografia da quello d’italiano, bensì
da medici, psicologi e psichiatri.
E’ il gioco delle tre carte: da un lato, si
nega trattarsi di una malattia – sarebbe arduo
definire tale un insieme di “sintomi”
generici e disparati – ma al contempo la si
considera tale riducendo a trattamento sanitario
un problema che anziché Dsa potrebbe
essere Dsi, come ha fatto rilevare
un preside con quarant’anni di esperienza,
ovvero Disturbi Specifici di Insegnamento.
Il gioco delle tre carte è abile perché,
se provi a lamentare la tendenza alla
medicalizzazione, ti si risponde che non è
vero, in quanto nessuno ha parlato di patologie,
e che comunque il problema sarà
affrontato con metodi psico-pedagogici.
Ma allora, perché un passaggio diagnostico
di tipo sanitario? Perché, a dispetto dell’affermazione
che il Dsa non è dovuto a
patologie neurologiche, ci si è ingegnati a
trovarne le cause materiali – malnutrizione
alla nascita, effetto dei vaccini, mancanza
di omega 3 e altre amenità – che
stranamente non lascerebbero tracce materiali.
Per risolvere l’incerta questione
sono intervenuti i soliti neuromani, quelli
che fanno la risonanza magnetica persino
ai salmoni morti, che hanno cercato le “diversità”
strutturali dei Dsa nel cervello. I
risultati sono incerti, qualcuno parla di
“anomalie” della corteccia, altri di “zone”
del sistema visivo, altri dei neuroni a specchio.
Su tutto grava l’assurdità di un metodo
che pretende di stabilire correlazioni,
per giunta basate su statistiche rozze, tra
le mappe di funzioni elementari e comportamenti
umani estremamente complessi,
correlazioni mai stabilite in modo accettabile.
Si noti che mentre alcuni psichiatri
sostenitori dell’esistenza del Dsa, ma prudenti,
stimano in 0,1 per cento i bambini
affetti, i fautori della legge parlano di un
3-5 per cento, da cui deriverebbero conseguenze
imponenti, visto che la legge prevede
riduzioni di impegno scolastico e orari
flessibili per i genitori. Se a una simile cifra
si aggiunge quella dei bambini affetti
dall’altra “malattia”, l’Adhd, Attention Deficit
Hyperactivity Disorder, la “sindrome
del bambino agitato”, il numero di minori
con problemi raggiunge percentuali inaudite.
C’è di che pensare a una degenerazione
della specie umana. L’esistenza dell’Adhd
fu decretata a maggioranza, nel
1980, dall’Associazione degli psichiatri
americani e “poi” ci si è ingegnati a dimostrare
la verità di tale delibera. Anche qui,
dopo aver ipotizzato anomalie cerebrali di
ogni tipo, sono scesi in campo i neuromani,
per individuare con risonanza magnetica
(e al solito modo fasullo) diversità cerebrali
che dimostrerebbero l’esistenza
della patologia. Ma quel che è specialmente
grave nel caso dell’Adhd è che dagli Stati
Uniti – dove si è arrivati alla cifra di diciassette
milioni di diagnosi – si è diffusa
una medicina, il Ritalin, che è nient’altro
che un sedativo: è facile intuire quanto
possa essere pericoloso somministrare sedativi
a un bambino in crescita.
Ma tant’è. Abbiamo visto per decenni,
nel film “Il pellegrino”, di Charlie Chaplin,
un bambino iperagitato che picchia
tutti, combina guai, incolla la carta moschicida
sulla faccia della gente, mentre la
madre tenta di calmarlo con inadeguate
moine. L’abbiamo visto come paradigma
della maleducazione, nel senso stretto del
termine. E’ finita: l’educazione è un processo
in via di sparizione, quantomeno nel
senso di un rapporto tra persone. Esiste
soltanto la diagnosi e la terapia delle anomalie
di individui-monadi. Tutto è ridotto
a processi biologici. Siamo un aggregato di
“diversità” da trattare in termini sanitari,
da conformare a criteri di normalità definiti
secondo criteri “scientifici”, si fa per
dire. La società è vista come una gigantesca
clinica che ha come “mission” la modellazione
degli individui su quei criteri.
La solita ideologia scientista invade ogni
aspetto della vita personale: si va dal progetto
di confezionare un individuo perfetto
fin dalla nascita, alla subordinazione
della scuola al sistema sanitario, allo
stressometro negli uffici, e via delirando;
tutto sotto la dittatura sempre più soffocante
degli “esperti”, psicologi, psichiatri,
neurologi, misuratori delle qualità.

Giorgio Israel

© Copyright Il Foglio 29 aprile 2010