Tratto da Tempi del 6 aprile 2010
Un viaggio dentro se stessi e prima ancora un percorso che si dipana attraverso la cultura occidentale alla scoperta dei suoi princìpi fondativi. L’esperienza della mostra “Gesù. Il corpo, il volto nell’arte” è un approfondimento continuo e lucido della concezione di persona e corporeità elaborata attraverso le raffigurazioni di Gesù. Una concezione che «oggi è necessario riscoprire», osserva monsignor Timothy Verdon, ideatore e curatore della mostra nonché docente alla Stanford University e alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale e direttore dell’Ufficio diocesano fiorentino per la catechesi attraverso l’arte. «Viviamo in una società che ha dimenticato il senso e il valore che il cristianesimo attribuisce al corpo; siamo immersi in una cultura dell’immagine che presenta ed enfatizza il corpo banalizzandolo, svilendolo, misurandone il valore in base alle performance atletiche o sessuali che garantisce. Abbiamo smarrito l’antica concezione del corpo come luogo della dignità e della libertà di ogni essere umano, del corpo come dono ricevuto da Dio, da offrire agli altri con amore, con semplice e totale generosità, come ha fatto Cristo».
Cosa c’entra una mostra di immagini sacre con il recupero della  dignità del corpo umano?
La mostra vuole suggestivamente ricreare e far rivivere il mondo che è  stato il contesto visivo, concettuale e spirituale degli europei fino  all’età napoleonica, ossia un mondo in cui la maggior parte delle  immagini viste dalle persone radunate in luoghi pubblici erano le  raffigurazioni sacre: le pale d’altare, i mosaici, le vetrate delle  chiese. Per almeno 17 secoli gli uomini hanno visto raffigurato  soprattutto un volto, quello di Gesù, di un Dio che assume un corpo e  che lo offre con amore per tutti gli uomini. L’idea di persona elaborata  dall’Occidente negli ultimi duemila anni è debitrice di questa  ricchissima tradizione iconografica, in cui libertà e dignità umana  scaturiscono dal dono del corpo e si comunicano nel pathos dello  sguardo. Proprio per ricreare questo mondo visivo, concettuale e  spirituale abbiamo pensato a un allestimento che riproducesse il  contesto sacro e liturgico nel quale le opere erano collocate in  origine; alcuni dipinti, ad esempio, sono sistemati sopra ad un altare  per evocare il rapporto visivo tra immagine e rito: diverso infatti è  l’impatto che suscita una Pietà in un museo e la stessa opera sopra una  mensa eucaristica.
Come descriverebbe l’esperienza emotiva e spirituale che gli  uomini hanno fatto per secoli osservando queste opere nelle chiese? Qual  era, e qual è ancora oggi, la funzione delle immagini sacre?
Quando guardiamo l’immagine attraente di un corpo scatta dentro di noi  l’identificazione e il desiderio di emulazione: si tratta di una  dinamica ben nota, che oggi la pubblicità sfrutta banalmente per scopi  commerciali. Per secoli gli artisti ci hanno presentato un Gesù nel  quale i fedeli riuscivano a identificarsi, un Gesù il cui volto esprime  amore, compassione, tenerezza, misericordia, un Gesù il cui corpo  traduce in azioni questi sentimenti, giungendo a salire sulla Croce.  Osservando le immagini di Gesù, chi crede sente nascere dentro di sé il  desiderio di emularlo, di diventare come lui, di donare tutto se stesso  con gratuità. In passato queste immagini erano collocate nelle chiese e  ciò arricchiva l’esperienza spirituale: osservando una raffigurazione di  Gesù durante la Messa, il fedele non soltanto trovava un’immagine che  era epifania ed apocalisse, manifestazione e rivelazione, del mistero  che si celebrava sull’altare, ma – facendo la comunione – viveva la  trasformazione che lo avrebbe reso sempre più somigliante al Gesù  raffigurato. Per secoli l’immagine del corpo e del volto di Gesù è stata  parte della vita di fede, di un processo dinamico che cambiava la vita  degli uomini, rendendoli desiderosi di somigliare a Gesù e di entrare in  comunione con lui.
Contrariamente al passato, oggi molte chiese, soprattutto quelle  di recente costruzione, sono sguarnite di immagini raffiguranti Gesù.  Come mai?
Purtroppo non solo nelle chiese ma anche nell’arte contemporanea il  corpo è quasi del tutto assente e gli artisti che lavorano nell’ambito  del sacro tendono a proporre raffigurazioni simboliche di Gesù, poiché  vogliono evitare un realismo che richiami le immagini spesso banali e  volgari che del corpo ci propongono la televisione, il cinema e la  pubblicità. Con questa mostra vogliamo anche invitare la cultura  cattolica e i fedeli a riscoprire l’importanza e il valore delle  immagini del corpo e del volto di Gesù che sono parte costitutiva,  essenziale, di quel sistema di segni di cui i sacramenti sono i punti  apicali.
Le opere in mostra sono databili per la maggior parte tra il XIV e  il XVII secolo, ossia il periodo che comprende la fine del Medioevo, il  Rinascimento e il Barocco. Perché questa scelta?
Perché in questo periodo il corpo e il volto della persona umana tornano  a essere primari portatori di significato. Nei suoi primi secoli di  vita, la cultura cristiana rifiutò la grande tradizione figurativa  greco-romana, considerata espressione di una cultura pagana e amorale:  l’arte cristiana dei primi secoli raffigurò il corpo in modo simbolico,  evitando di mostrarne in modo realistico la bellezza e la carica di  affettività poiché volle prendere le distanze da quella cultura pagana  che vedeva nel corpo uno strumento di piacere e un oggetto di desiderio.  Poi in Italia, intorno al Duecento, in quello che molti storici  definiscono pre-Rinascimento, ecco la svolta: viene riscoperta  l’eloquenza unica del corpo e del volto umano della grande tradizione  classica.
Quale fu la causa di questa riscoperta e rivalutazione?
Non fu in primo luogo l’Umanesimo, come molti potrebbero pensare, ma una  nuova spiritualità che si stava diffondendo, guidata da san Francesco  di Assisi e da altri nuovi ordini religiosi: furono loro, portando in  modo nuovo la Parola di Dio nelle strade, nelle piazze, nelle campagne, a  focalizzare l’attenzione dei credenti sull’umanità di Gesù. Emblematica  in questo senso è l’invenzione francescana del presepio, che invita i  fedeli a contemplare la nascita corporea di Gesù. È questa nuova  spiritualità incentrata sull’uomo che nel Quattrocento e nel Cinquecento  farà riscoprire l’arte greco-romana così adatta a descrivere il corpo  con tutte le sue emozioni: il corpo di Gesù diventa il luogo in cui  l’amore di Dio per gli uomini si esprime e l’arte lo rappresenta in  tutta la sua naturale e attraente bellezza, portatrice di sentimenti di  amore e misericordia, capace di toccare il cuore. Nelle diverse sezioni  della mostra abbiamo voluto che le opere esposte mostrassero tutta le  fasi della vita di Gesù, la nascita, gli intensi anni della  predicazione, la morte e la Risurrezione.
Si può dire che la mostra va incontro al desiderio dell’uomo, che è  anche uno dei temi delle Scritture: voler vedere Dio?
Proprio così: non si tratta di semplice curiosità, ma di un impulso  fondamentale dell’esperienza giudaico-cristiana, basti ricordare quanto  chiese Mosè a Chi gli parlava sul Sinai. Quando Filippo domanda a Gesù:  «Mostraci il Padre», lui risponde: «Chi ha visto me ha visto il Padre». È  in quel volto, è in quel corpo offerto per amore che l’uomo vede e  incontra Dio e, allo stesso tempo, scopre se stesso, la propria dignità e  la propria libertà, che è libertà di amare e donarsi».
 
