All’indomani del processo di Gerusalemme che condannò all’impicca-gione quell’Eichmann che è poi diventato il simbolo dei tanti boia dei lager nazisti, una delle menti più lucide del Novecento - Anna Arendt - dava alle stampe un piccolo libro dal titolo insieme enigmatico e inquietante, La banalità del male. Ciò che aveva più colpito – nelle testimonianze rese a questo processo – la grande intellettuale di origine ebraica non era stata tanto la negazione dell’uomo, in sé e per sé, avvenuta nei campi di sterminio, quanto il fatto di avere trasformato lo sterminio in una sorta di bene oliata ed efficientissima "catena di montaggio", nella quale ciascuno eseguiva il proprio compito, obbedendo agli ordini ricevuti, senza porsi alcun problema sul senso e dunque sulle inevitabili implicazioni etiche dei gesti che si stavano compiendo.
Quella triste pagina della storia del Novecento non può non venire alla mente di fronte all’altrettanto efficiente "catena di montaggio" che sta trasformando il dramma dell’aborto in un semplice affare di routine farmaceutica. Con tranquilla coscienza si importano i pacchi di "medicinali" e li si distribuiscono negli ospedali, con altrettanto tranquilla coscienza li si somministrano e li si assumono, attendendo che i "medicamenti" facciano il loro corso.
Vi è qualcuno che si domanda se non solo la lettera ma lo "spirito" della legge 194, che ha depenalizzato l’aborto, sia rispettato, ma poi si rassegna al presunto inevitabile; vi è chi eleva proteste di facciata ma ben presto si allinea; vi è chi vorrebbe opporsi, in verità senza troppa convinzione, ma poi si adegua.
Ciò che stupisce, e preoccupa, è appunto la banalizzazione del male (perché è questa forte parola, male, che il dramma dell’aborto dovrebbe evocare; un male da subire con sofferenza, e non da accogliere con l’allegro compiacimento di cui tante voci giornalistiche e televisive sono state espressione).
Di fronte a tutto ciò la comunità cristiana non trova ascolto né in una sinistra che tende ad indulgere alla sola logica dei «diritti soggettivi», tipica del radicalismo, e lascia in ombra i diritti sociali, primi fra tutti il diritto della società a perpetuarsi nel tempo (senza auto-distruggersi) e il diritto della famiglie a compiere scelte procreative autenticamente libere; né in una destra che (erede, del resto, anche di quei partiti socialista, repubblicano, liberale che a suo tempo votarono pressoché compatti a favore dell’aborto) si limita a proteste di facciata e pressoché nulla ha fatto, non si dice per abrogare la legge 194, ma almeno per restringerne l’applicazione a quello che avrebbe dovuto essere il suo specifico ambito, la soluzione dei (veri o presunti) "casi drammatici". Ma dov’è ormai il "dramma"? Ecco, ancora una volta, "la banalità del male".
Dopo che Freud e i suoi seguaci hanno coltamente e scientificamente teorizzato il "complesso di colpa" come una sorta di falsa coscienza da cui liberarsi, e dopo che troppi confessionali si sono svuotati di penitenti, nessuno spazio rimane, almeno in apparenza, per la presa di coscienza dell’esistenza del male, e per la consapevolezza che il male più grande è quello che attenta direttamente alla vita umana. È ben vero che le cronache, e la storia segreta di tante donne, è piena dei complessi di colpa, dei rimorsi, delle insopprimibili nostalgie per un figlio mai nato; ma tutto questo rimane in profondità, raramente emerge negli scenari di una pubblica opinione che cerca il più possibile di "rimuovere" (anche in questo caso, freudianamente) la spiacevole pagina dell’aborto.
Di questo passo, dopo il trionfale ingresso negli ospedali della nota "pillola", l’aborto farmacologico tenderà ad apparire, paradossalmente, una "cura" come tante altre, ed il figlio non voluto svolgerà il ruolo dell’ospite sgradito e ingombrante che si vuol mettere alla porta. In questo deserto – ma la Bibbia ci esorta alla speranza: anche il deserto potrà fiorire! – ferma rimane una parola che è nella Bibbia ebraica, nell’etica cristiana, ed anche nel codice penale: Non uccidere! È una parola scomoda, che si vorrebbe esorcizzare, che si carica di presunti significati "integralistici", che si vorrebbe espungere dal nuovo lessico della modernità, ma che rimane e che la Chiesa ha il diritto, e insieme il dovere, di pronunziare.
Quella triste pagina della storia del Novecento non può non venire alla mente di fronte all’altrettanto efficiente "catena di montaggio" che sta trasformando il dramma dell’aborto in un semplice affare di routine farmaceutica. Con tranquilla coscienza si importano i pacchi di "medicinali" e li si distribuiscono negli ospedali, con altrettanto tranquilla coscienza li si somministrano e li si assumono, attendendo che i "medicamenti" facciano il loro corso.
Vi è qualcuno che si domanda se non solo la lettera ma lo "spirito" della legge 194, che ha depenalizzato l’aborto, sia rispettato, ma poi si rassegna al presunto inevitabile; vi è chi eleva proteste di facciata ma ben presto si allinea; vi è chi vorrebbe opporsi, in verità senza troppa convinzione, ma poi si adegua.
Ciò che stupisce, e preoccupa, è appunto la banalizzazione del male (perché è questa forte parola, male, che il dramma dell’aborto dovrebbe evocare; un male da subire con sofferenza, e non da accogliere con l’allegro compiacimento di cui tante voci giornalistiche e televisive sono state espressione).
Di fronte a tutto ciò la comunità cristiana non trova ascolto né in una sinistra che tende ad indulgere alla sola logica dei «diritti soggettivi», tipica del radicalismo, e lascia in ombra i diritti sociali, primi fra tutti il diritto della società a perpetuarsi nel tempo (senza auto-distruggersi) e il diritto della famiglie a compiere scelte procreative autenticamente libere; né in una destra che (erede, del resto, anche di quei partiti socialista, repubblicano, liberale che a suo tempo votarono pressoché compatti a favore dell’aborto) si limita a proteste di facciata e pressoché nulla ha fatto, non si dice per abrogare la legge 194, ma almeno per restringerne l’applicazione a quello che avrebbe dovuto essere il suo specifico ambito, la soluzione dei (veri o presunti) "casi drammatici". Ma dov’è ormai il "dramma"? Ecco, ancora una volta, "la banalità del male".
Dopo che Freud e i suoi seguaci hanno coltamente e scientificamente teorizzato il "complesso di colpa" come una sorta di falsa coscienza da cui liberarsi, e dopo che troppi confessionali si sono svuotati di penitenti, nessuno spazio rimane, almeno in apparenza, per la presa di coscienza dell’esistenza del male, e per la consapevolezza che il male più grande è quello che attenta direttamente alla vita umana. È ben vero che le cronache, e la storia segreta di tante donne, è piena dei complessi di colpa, dei rimorsi, delle insopprimibili nostalgie per un figlio mai nato; ma tutto questo rimane in profondità, raramente emerge negli scenari di una pubblica opinione che cerca il più possibile di "rimuovere" (anche in questo caso, freudianamente) la spiacevole pagina dell’aborto.
Di questo passo, dopo il trionfale ingresso negli ospedali della nota "pillola", l’aborto farmacologico tenderà ad apparire, paradossalmente, una "cura" come tante altre, ed il figlio non voluto svolgerà il ruolo dell’ospite sgradito e ingombrante che si vuol mettere alla porta. In questo deserto – ma la Bibbia ci esorta alla speranza: anche il deserto potrà fiorire! – ferma rimane una parola che è nella Bibbia ebraica, nell’etica cristiana, ed anche nel codice penale: Non uccidere! È una parola scomoda, che si vorrebbe esorcizzare, che si carica di presunti significati "integralistici", che si vorrebbe espungere dal nuovo lessico della modernità, ma che rimane e che la Chiesa ha il diritto, e insieme il dovere, di pronunziare.
Giorgio Campanini
© Copyright Avvenire 6 aprile 2010