di Benedetta Frigerio
«Io, ex drogata di aborto, dico che solo chi sa chiamare le cose con il loro nome sfugge alla schiavitù del male»
La madre suicida. Il padre eterno bambino. La nonna che predicava la rivoluzione armata. Poi la perversa avventura con l’anziano insegnante progressista che la spinge a “liberarsi” tagliando tutti i legami. Anche quelli con i figli che porta in grembo. Per quindici volte.
«In un’ora imparai che la famiglia era un nodo di sofferenze, l’istruzione una presa in giro, Dio un sogno scaduto. Il mio compagno mi diceva che per essere libera dovevo dimenticare il passato e non avere figli, così abortii quindici volte in soli dieci anni. Mai avrei pensato di reinnamorarmi e avere due figlie». Lo racconta a Tempi Irene Vilar, 42 anni, americana di origini portoricane, direttrice della collana The Americas per la Texas Tech University Press, autrice di Scritto col mio sangue, (Corbaccio, 254 pagine, 17,60 euro). Autobiografia che esce ora in Italia dopo essere stata pubblicata negli Stati Uniti, tradotta in trenta lingue e aver venduto oltre un milione di copie. Un bestseller che però a stento ha trovato un editore. Ben cinquantuno case editrici lo hanno respinto, sebbene i precedenti della Vilar siano stati guardati con favore dal New York Times e i suoi libri abbiano goduto delle buone recensioni dei giornali più illustri degli States. Finché Irene Vilar ha raccontato «di una donna del sud, oppressa dagli adulti e tormentata dal passato», tutto è filato liscio. Lo scandalo di Scritto col mio sangue è che non è un sequel di quella bambina portoricana sbarcata a New York che si emancipa grazie al college progressista, alla cultura femminista, alla filosofia di Bertrand Russell e ai libri di Borges. Non è più solo la “vittima” di una madre morta suicida davanti ai suoi occhi, di un padre alcolista, di due fratelli tossicodipendenti e di una nonna idealista. Irene è una ex quindicenne che da una relazione amorosa intrecciata con un cinquantenne, professore liberal e sintesi di molte “cose democratiche”, diventa donna al passo di quindici aborti. Fino a maturare la coscienza di «un’aborto-dipendenza, di un’autodistruzione di sé e dell’altro ».
Irene Vilar, lei ha scritto che le volte che rimaneva incinta ritrovava «la speranza». Ma il suo compagno le diceva che per essere liberi non bisogna avere legami. Che razza di libertà è quella che chiede di sacrificare l’esperienza di una speranza?
Allora non avevo strumenti per capire. La mia immagine di libertà era falsata. Avevo una nonna che voleva liberare Portorico dall’oppressione americana con la rivoluzione. Avevo una madre che, sterilizzata a sua insaputa e vittima (come il 37 per cento delle donne portoricane) delle sperimentazioni per il controllo delle nascite, si è “liberata” dal suo dolore scappando dalla vita. Avevo un padre che dopo la morte di mia madre ha sposato una mia coetanea. Così mi sono legata a un uomo che predicava il femminismo e il progressismo avendo costruito la sua libertà sulla rottura con il padre e la fede ebraica. Perciò, anche se le prime gravidanze mi davano speranza, le interrompevo sapendo che altrimenti avrei perso l’unica cosa che mi dava sicurezza nella vita. Il paradosso è che, illudendomi di vivere un processo di liberazione, diventai schiava di quell’uomo.
Dopo un ennesimo aborto il medico la rimprovera con un «signorina, la prossima volta stia all’erta, sa che ha rischiato di abortire un bambino?». Non le è mai sembrata buffa questa idea che bambini si diventa a una certa settimana?
Sì, io sceglievo, sapevo cos’era il bene e non lo facevo. Se mi chiedi cosa sia un feto ti dico che quella è vita. Anche se non ne parlo nel mio libro. Avevo momenti di lucidità, ma poi cancellavo la realtà. Alla fine è diventata una vera e propria nevrosi: tu capisci cos’è il bene, lo vuoi, ma non riesci più a farlo. Per smettere di abortire ho dovuto sottopormi ad anni di analisi. Scrivere, invece, mi ha aiutato a guardare in faccia me stessa e la realtà. A slegarmi da mio marito. Il narcisismo per cui non si riesce ad accogliere nulla che non sia gestibile, l’incertezza dilagante e quindi il bisogno di ipercontrollo sono malesseri molto diffusi. Le tante anoressiche, bulimiche, le terrorizzate dalla maternità ne sono un esempio. La cosa pazzesca è che possono essere funzionali, sposarsi, fare carriera. E nello stesso tempo vivere privatamente una vita infelice. Questa schizofrenia è comune. Dopo aver scritto questo libro, ho scoperto che la mia più cara amica, sposata con figli e avvocato affermato, ha una nevrosi da automutilazione. Non l’avrei mai sospettato. Molti mi dicevano: ma perché non hai usato la pillola, perché ti facevi del male? Come se il corpo fosse slegato dalla mente. Purtroppo di questo non ne parla nemmeno il movimento femminista perché vorrebbe dire ridiscutere i presupposti di quanto difende: l’esclusiva materialità e il pieno controllo del corpo. Nessuno dice che il corpo è una realtà organica legata alla mente, e che se la mente viene piegata a un’idea innaturale, ciò fa soffrire.
Lei chiama l’aborto «uno strano diritto» e, come scrive la femminista Robin Morgan nella postfazione del libro, la sua esperienza sembra la dimostrazione che l’aborto è innanzitutto «l’aborto di sé». Perché continua a dichiararsi pro-choice?
Non voglio fare la filosofia dell’aborto. Io ho compiuto quindici anni e dentro di me c’erano due braccia. Di colpo capisci che sei diversa da un uomo, che hai dentro di te un potere, quello riproduttivo, grandissimo. Ti incuriosisce, ne sei contenta, ma non sai dargli un senso, nessuno te lo ha dato, non hai un linguaggio per descrivere quella realtà. Quando non abbiamo un linguaggio non capiamo e facciamo cose devianti e distruttive. Quando una relazione amorosa non va, se non riesci ad affrontare il perché e non riesci a descrivere cosa ti sta capitando (cioè che quell’uomo non ti basterà mai), non sarai in grado di affrontare la situazione e magari inizierai a tradire quell’uomo pensando di risolvere l’insoddisfazione. E la relazione si disintegrerà. Lo stesso avviene con il corpo, la libertà, la maternità. Ma nessuno sembra disposto a fare la fatica di capire e definire le cose. I pro-life dicono che l’aborto non deve esistere e non affrontano il nocciolo del problema. Ugualmente, i pro-choice si vergognano di parlarne seriamente. Penso a Hillary Clinton e Jimmy Carter. Per loro l’aborto è un diritto ma da tenere ben nascosto. Così il problema si ingigantisce: le statistiche britanniche, canadesi e americane dicono che la maggioranza di chi ha abortito sono donne educate e benestanti con sei o sette gravidanze interrotte alle spalle. Forse ci si dovrebbe chiedere perché, pur istruite su come evitare la gravidanza, queste donne abortiscano.
Lei aveva amici chic, girava in barca, vinceva premi letterari, frequentava i salotti liberal, i suoi scritti venivano pubblicati dal New York Times. Eppure dice che la sua vita, all’apparenza ricca e libera, era una vita disperata. Perché?
Perché una vita senza confini sembrava riempire il mio bisogno di libertà e di essere amata. In realtà era disperante perché illudendomi di rimarginare le mie ferite le lenivo dimenticando e diventando schiava delle barche, dei salotti, delle idee. Così, a lungo andare, invece che rimarginarsi le ferite si aprivano ancora di più.
Aveva un padre che non le ha mai detto un “no”, ed è la cosa che meno gli perdona. Adesso dice che per amare i figli bisogna scontrarsi con loro. Come è arrivata a queste conclusioni?
Per me libertà significava mancanza di limiti e di confini. Nessuno mi ha mai guidata. I miei genitori erano due bambini. Vivevano come in una soap opera. I genitori dicono ai figli: “Ti voglio bene”. Ma questo non ha implicazioni. Così, non conoscendo il significato delle cose, i genitori mandano ai figli messaggi confusi. Dare argini ai figli, dare loro una lingua per esprimere e capire quello che vivono, penso sia questo il compito di un genitore. Mio padre non sapeva capire il suo disagio davanti al mio. Così, pur dandomi ogni attenzione materiale, girava la testa. Se ci pensiamo, l’ingiustizia è solo il riflesso di questa lotta tra la volontà di distruzione e quella di dare i confini alle cose per rispettarle. Ho dovuto leggere, studiare, lavorare su di me per comprendere, per dare nomi alle cose.
Lei aveva diciassette anni e lui cinquantuno quando siete andati a vivere insieme. Poi lui, invecchiando, le ha chiesto di sposarlo, cosa che prima diceva impossibile, e si è pentito di non averle lasciato avere un figlio. La sua amica diventa incline a capire i dolori altrui davanti a un cancro. Cosa pensa di questi mutamenti?
Nel caso di mio marito posso dire che, vedendo che io non ero più schiava di lui, che mi stava perdendo, ha capito che anche lui dipendeva da me e che anche lui non era così libero come teorizzava. Mercedes, femminista rigida ma come me sottomessa a un marito autoritario, davanti alla malattia e al fatto che io mi stavo liberando prendendomi cura di me, ha vissuto la mia rinascita come la sua. Ha iniziato a provare compassione.
Nel libro spiega la sua vita da sottomessa citando Camus: «Per chi è solo senza Dio né padrone, il peso dei giorni è terribile. Perciò visto che Dio non è più di moda, bisogna scegliersi un padrone». Ma mentre la sua biografia è piena di “padroni”, Dio vi compare solo quando racconta dei mesi dell’infanzia trascorsi nei boschi del New Hampshire: «Certa della sua esistenza, ho vissuto il periodo della vita in cui mi sono sentita più in pace e in armonia con me stessa». Che ne è di quella bambina?
La prima esperienza religiosa è quella che un bimbo fa con la madre. Lui dipende totalmente da lei. Mia madre si allontanò prima emotivamente, poi fisicamente. Fu la lenta morte di Dio per me. Da allora l’ho cercato in ogni singola relazione. Poi nella fede cattolica del mio popolo, ma non lo vedevo. Poi in mio marito, che non a caso era professore di Filosofia delle religioni. Poi attraverso la psicologia ho ritrovato un nuovo modo di capire le cose, di crederle e amarle. Perciò per essere una buona madre continuo a voler comprendere di più chi sono io e ciò che ho intorno. Affinché le mie figlie non debbano cercare per tutta la vita la loro madre e il loro Dio nei posti e nei modi sbagliati.
Sembra che la decennale e ancora persistente (specie contro i preti cattolici) campagna antipedofila in America abbia contribuito a elevare un muro tra adulti e bambini. Qualunque espressione di affetto rischia di essere interpretata come un abuso. Non crede che il suo paese sia in marcia verso una società di orfani?
Mi occupo di una collana chiamata The Americas, edita dalla Texas Tech University Press, che sta per pubblicare un mio progetto a riguardo. È la raccolta di scritti di grandi autori americani che tentano di ottenere una fotografia precisa dell’infanzia negli Stati Uniti. Emerge come fino a cento anni fa la compassione verso il bambino non è mai stata un valore per la maggioranza. Ora in teoria lo dovrebbe essere, ma sembra stia scomparendo. In America c’è davvero un muro tra adulti e bambini. La ragione è l’iperindividualismo a cui siamo giunti. Ogni diritto viene assicurato al cittadino dallo Stato, dalle banche e dalle compagnie assicurative. La società ti dice: “Non ti preoccupare, farò valere ogni tuo diritto, non hai bisogno d’altro che di me”. Però c’è un paradosso. Invece che essere sicuri, tutti hanno paura degli altri e nella vita pubblica si sono instaurati dei sistemi di controllo iperinvasivi. Se un alunno ha un livido, la maestra è obbligata a indagare, non tanto per il bene del bambino, ma per difendersi da una possibile querela. I piccoli ne sono così consapevoli che arrivano addirittura a chiamare i servizi sociali per vendicarsi della mamma che li sgrida. Non sanno però che, senza bisogno di prove, possono essere tolti ai genitori. Così accade che l’adulto preferisce mantenere le distanze per non incorrere in cause legali. Si capisce che abisso si crea. Viviamo in un mondo come quello descritto da Orson Welles, dove la democrazia è apparente e i cittadini rinunciano all’esercizio di parte della propria libertà in cambio di altre ridotte. Solo pochi giorni fa ero dal dentista e c’erano otto mamme coi loro figli. I bimbi continuavano a chiamarle e loro, tutte prese dai loro cellulari, sembravano rispondere in coro: “Un minuto, un minuto”. Va bene dire ad un figlio di aspettare se devi cucinare per lui o dedicarti a cose importanti. Ma se gli chiedi continuamente di essere lasciata in pace per usare l’iPhone, lui crescerà convinto che l’importante è essere lasciati in pace. Tutto questo è perfetto per il consumismo: una società fatta di uomini soli, che non obbediscono a nessuno se non al mercato.
L’ingiustizia, dice lo scrittore caraibico Chamoiseau, «fa parte del patrimonio genetico dell’umanità ed è invincibile, a meno che intervenga un amore incondizionato».
La storia ci mostra che siamo così pieni di male stratificato che mi chiedo: ma un amore incondizionato avrebbe spazio in una società secolarizzata come la nostra? È davvero abbastanza potente? Non lo so.