DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

La memoria cancella i mostri. Gli anni di piombo dalla parte delle vittime

LUCIA BELLASPIGA
S
ergio Ramelli, 18 anni, studente all’Istituto tecnico 'Molinari' di Milano, aveva subìto un vero e proprio 'processo politico', come si diceva allora: un suo tema contro le Brigate Rosse era stato requisito dai compagni e affisso in bacheca come prova della sua appartenenza ideologica. Non gli bastò nemmeno cambiare scuola: militante nel Fronte della Gioventù, fu ritenuto 'colpevole' e il 13 marzo del 1975 venne aggredito sotto casa da un commando di studenti di Avanguardia Operaia, giovani come lui ma di idee opposte. Tanti contro uno, armati di pesanti chiavi inglesi, gli fracassarono il cranio e lo abbandonarono a una morte che sopraggiunse il 29 aprile, dopo 48 giorni di agonia.
Erano studenti di medicina.
Anni di piombo, li chiamarono allora, e a ripercorrerli oggi sembrerebbero impossibili, incredibili, irripetibili, un incubo da cui siamo usciti definitivamente e che non tornerà più. Ma tutto ciò che nella storia è avvenuto una volta, sta lì a dirci che potrà sempre ripetersi, a ricordarci che l’uomo è stato capace di tanto («meditate che questo è stato», scrive Primo Levi) e ancora lo sarà. C’è un dovere della memoria, dunque, che non è solo rispetto per le vittime, quali che siano le idee che professavano, ma monito a non ripetere l’errore.
Milano ha appena celebrato – pur tra le polemiche – questo fosco anniversario e lo ha fatto nel migliore dei modi, all’interno del 'Molinari', di fronte ai rappresentanti dell’istituto e degli studenti, e alla presenza di Giovanni Bachelet, figlio di Vittorio, magistrato ucciso nel 1980 dalle Br, oggi deputato del Pd: aveva 24 anni quando al funerale del padre dall’altare pronunciò parole di perdono che anni dopo avrebbero trionfato sulla disperata disumanità degli assassini, convertiti al Vangelo dal quel «segno vincente di pace». Studenti e professori del 'Molinari', deposte le paure dei giorni scorsi, hanno trovato il coraggio di ricordare Ramelli citando i maestri della non-violenza, da Martin Luther King al Dalai Lama fino a Gandhi, ma anche solo le parole di mamma Anita, non presente per motivi di salute, da trentacinque anni rimasta a chiedersi perché. 'Mai più giovani uccisi per delle idee' è il titolo di una borsa di studio istituita per l’occasione dalla Provincia di Milano, e non è un caso che a presiedere la giuria sarà Mario Calabresi, figlio di Luigi, il commissario Medaglia d’oro ucciso a Milano nel 1972. «In quegli anni – ha ricordato il presidente della Provincia, Guido Podestà – non caddero solo attivisti degli opposti estremisti, anche semplicemente una frase, un giornale, un libro, potevano costare la vita...», come in quel 1975 accadde anche allo studente di sinistra Alberto Brasili, accoltellato da coetanei di destra perché la sua ragazza assomigliava a una giovane ritratta sui manifesti del Pci. Fu un vero conflitto, condotto quotidianamente nelle strade da giovani di destra e di sinistra, in cui sono morte 69 persone e mille sono rimaste ferite. Una guerra combattuta non contro gli uomini, ma le idee. Ad ogni costo. Dieci anni dopo l’uccisione di Ramelli, Democrazia proletaria organizzò un convegno, agli atti del quale restano gli echi di quella stagione oscura: «Credo che l’importante sia distinguere la violenza giusta da quella ingiusta... non rifiutare per principio ogni violenza, ma cercare di orientarla bene», arrivò a sostenere il filosofo Ludovico Geymonat.
«La sconfitta politica del terrorismo passa attraverso scelte coraggiose», scrisse un giorno Walter Tobagi, giornalista martire. Il 27 maggio 1980, durante un incontro al Circolo della Stampa di Milano sulla responsabilità dei giornalisti di fronte al terrore, si chiese «chissà a chi toccherà domani». Il giorno dopo moriva per mano dei brigatisti. A lui e a tutti i cronisti uccisi nel segno della difesa della libertà di stampa è dedicata lunedì 3 maggio la Giornata della memoria: il monito a una categoria, la nostra, che non sempre di memoria è dotata e che troppo spesso rinuncia al coraggio delle idee, vivendo il passato come fosse tutto un eterno, indistinto presente.


© Copyright Avvenire 1 maggio 2010