di Francesco Agnoli
Don Giorgio Carli, don Luigi Giovannini,
don Sandro De Pretis: tre
sacerdoti della mia regione finiti recentemente
nel tritacarne dell’accusa
di pedofilia, l’accusa più infamante e
difficile da smentire che vi sia.
Il primo, assolto in primo grado
“perché il fatto non sussiste” mentre
la vittima, unico teste, è giudicata
“inattendibile”. Don Giorgio lavora
nella chiesa del Corpus Domini di
Bolzano, nella “zona più popolata e
popolare della città”, in cui “non è
mai aleggiato il dubbio. Innocente,
sempre e comunque, per la gente che
lo conosce. Invece in appello il sacerdote
viene condannato per violenza:
“La memoria (della giovane vittima,
ndr) riaffiorò dopo 14 anni e un lungo
trattamento di 350 sedute chiamato
‘distensione meditativa’”, simile all’ipnosi.
La ragazza, dopo tanti anni e
tante sedute, dunque, racconta un sogno
di stupro, in cui don Giorgio non
compare neppure direttamente, ma
solo grazie all’interpretazione degli
“esperti”. “Modalità particolari, uniche
nella giurisprudenza italiana”,
recita il Corriere del 26/3/2009. Una
cosa assurda, mai vista, mi conferma
il professor Casonato, docente di Psicologia
dinamica dell’Università di
Milano, esperto di pedofilia.
Il secondo, don Luigi: ama stare coi
ragazzi, lo fa con passione e bontà
(era un collega…); viene messo sotto
accusa per molestie, il caso finisce
sui giornali, come sempre poco delicati,
e smette di insegnare. Tutto è nato
da una diffamazione, come si scoprirà
alla fine delle indagini, da parte
di una mitomane che dice di avere
le visioni della Madonna: è lei, nientemeno,
a rivelarle i peccati del don!
L’accusatrice verrà inviata dalla magistratura
in un istituto psichiatrico
per deboli di mente.
Il terzo, don Sandro: vocazione
adulta, dopo aver fatto un’esperienza
di volontariato internazionale, finisce
missionario a Gibuti, piccola Repubblica
del Corno d’Africa. A un certo
punto viene imputato per corruzione
di minori e pedofilia, poi l’accusa
cambia (e cambierà molte volte ancora):
detenzione di materiale pornografico.
In realtà don Sandro ha le foto
di bambini con bubboni sul braccio,
che ha archiviato per sottoporle
ai medici, da buon missionario. Quello
di don Sandro diventa un caso internazionale,
tanto che il governo
Prodi sospende un finanziamento all’ospedale
di Gibuti. Alla fine don
Sandro viene liberato: sembra che la
sua colpa sia stata quella di essere
un testimone scomodo, l’unico occidentale
a Gibuti nel 1995, quando
venne ucciso il giudice francese Bernard
Borrel. “La scia dei delitti porta
a Ismail Omar Guelleh, attuale presidente
della Repubblica”: la vittima è
un prete la cui onestà e la cui presenza
fanno paura (Vita Trentina,
5/4/2009). L’accusa è dunque quella
usata a suo tempo verso i preti cattolici
oppositori al regime dai nazisti e
dai comunisti, secondo una logica terribile:
screditare l’avversario, è meglio
che ucciderlo.
Riprendo l’elenco, raccontando
qualcuno dei numerosi casi che si
possono trovare con qualche ricerca.
Don Giorgio Govoni: condannato a
14 anni in primo grado, la giustizia lo
ha del tutto riabilitato quando ormai
era già morto di dolore, dieci anni fa:
era stato accusato di essere il capobanda
di una setta di satanisti feroci,
dediti ad abusi su minori e decapitazione
di bambini. Per trovare le prove
sono stati dragati fiumi e perquisiti
cimiteri, alla ricerca di corpi inesistenti.
Sulla sua lapide è scritto: “Vittima
innocente della calunnia e della
faziosità umana, ha aiutato assiduamente
i bisognosi…”. Don Giorgio,
ricorda Lucia Bellaspiga, “era un
prete particolare, amato dalla sua
gente in modo non comune. Il “prete
camionista”, era chiamato, perché per
sostenere economicamente i suoi poveri,
prima i meridionali, poi gli extracomunitari,
nelle ore libere guadagnava
qualche soldo guidando i Tir” (Avvenire
del 3 agosto 2004). Ancora oggi
i suoi parrocchiani lo ricordano con
affetto e celebrano proprio in questi
giorni l’anniversario della sua morte.
Don Paolo Turturro: parroco di Santa
Lucia, a Palermo. Una zona difficile:
“Nel Borgo vecchio l’anno scorso
furono uccisi a coltellate due ragazzi,
davanti a centinaia di persone, che dissero
di non aver visto niente. La
chiesa sta proprio davanti al portone
del carcere dell’Ucciardone (di cui
don Turturro è stato anche cappellano,
ndr), l’aria che si respira è pesante.
Possono essere vere le accuse che
due bambini hanno scagliato contro
padre Paolo Turturro, il prete antimafia
incriminato per pedofilia? Uno
choc, una cosa inconcepibile, alla quale
nessuno sembra voler credere. Ma
le imputazioni del sostituto procuratore
della Repubblica, Alessia Sinatra,
fatte proprie dal giudice per le indagini
preliminari, Marcello Viola, sono
da brividi”. Per la sua gente “le accuse
contro don Paolo sono inventate, i
ragazzini sono stati sentiti senza i genitori,
li hanno forzati a raccontare cose
non vere”. Così “trecento persone
hanno espresso pubblicamente il loro
affetto al prete in fiaccolata notturna
ma, probabilmente, né loro né gli autorevoli
esponenti della chiesa che si
sono schierati a fianco di don Paolo
conoscevano l’ordinanza del magistrato
che, nel disporre il suo allontanamento,
ha scritto: ‘Padre Turturro, in
qualità di vero e proprio benefattore
delle famiglie del quartiere e artefice
di numerose iniziative in campo sociale,
anche a sostegno delle istituzioni
che contrastano la criminalità organizzata,
è inevitabilmente, da lungo tempo,
diventato personaggio di spicco,
carismatico e nei cui confronti tutti i
ragazzi e le rispettive famiglie nutrono
da sempre profondi sentimenti di riconoscenza
e rispetto, cui inevitabilmente
si accompagna una soggezione psicologica
non indifferente’. In sostanza,
dice il giudice, il prete è sì quello che
tutti sappiamo, un paladino della lotta
a Cosa nostra, ma proprio per questo
il pericolo di inquinamento probatorio
diventa più concreto: ‘E’ altissimo’,
scrive infatti il dottor Viola, ‘il rischio
che le voci dei minori vengano soffocate
dalle pressioni dell’indagato, del
quale è indiscutibile il prestigio all’interno
della comunità di quartiere’”. Il
giornalista Gennaro De Stefano conclude
così il suo servizio: “‘La sua attività
non poteva rimanere senza risposta’,
dicono nel quartiere. ‘Siringhe
usate infilzate sul portone della chiesa,
telefonate minatorie e uova lanciate
contro la parrocchia sono state per
anni l’avvertimento della mafia. La
vendetta potrebbe essere arrivata
puntuale con questa sporca storia di
pedofilia’. Speriamo sia davvero così”
(Oggi, n. 40, 2003). Don Paolo, che vive
scortato perché avversato dai boss,
amico di don Puglisi, il parroco ucciso
dalla mafia, per tutti “prete antimafia”
vicino agli ultimi e soprattutto ai
bambini a rischio, viene condannato
nel 2009 in primo grado a sei anni e
sei mesi per pedofilia e a risarcire 50
mila euro alle vittime, costituitesi parti
civili. Sembra abbia avuto nei confronti
di due bambini “attenzioni particolari”
e che in un caso abbia anche
“baciato sulla bocca uno dei piccoli”
(http://palermo.blogsicilia.it/2009/07/co
ndannato-don-paolo-turturro/). Scrive
Repubblica del 18 luglio 2009: “Il presidente
Fasciana ha anche deciso la
trasmissione alla procura degli atti di
un ragazzo, Benedetto P., per la testimonianza
resa durante il processo in
aula. Per il giovane si profila l’iscrizione
nel registro degli indagati… Durante
il processo, deponendo in aula, altri
ragazzini hanno ritrattato o ridimensionato
le accuse mosse al prete
durante le indagini. Non hanno cambiato
versione invece le due presunte
vittime”. Alla notizia della sua condanna,
che non è definitiva, nessuno
tra coloro che ben lo conoscono, ci
crede. Scrive un ragazzo sul blog Live
Sicilia, quotidiano on line, sotto la notizia
della condanna: “Sono stato con
don Paolo Turturro dall’età di 9 (1989)
anni fino ai 14 (1994), notte e giorno ed
è stato come un padre per me, io che
un padre non l’ho mai avuto (era un
mafiosetto da quattro soldi) e la madre
(alcolizzata), tutti e due morti. Non
credo assolutamente alle volgari,
ignobili ed infamanti accuse. Eravamo
più di cento bambini e ragazzi con i
quali si parlava si giocava e si viveva
insieme tutti i giorni e mai NESSUNO!!!
ha accennato o ha avuto il minimo
dubbio sulla sua moralità ed operato.
Non credo che un UOMO cambi
il suo stile di vita, il suo pensiero, la
sua anima col trascorrere del tempo”
(http://www.livesicilia.it/2009/07/17/condannato-
don-turturro/). Al contrario,
su molti siti dei cacciatori di pedofili
di professione, degli anticlericali in
servizio permanente, dei sedicenti
“laici”, si sprecano gli insulti e le maledizioni,
contro il don Paolo e, tramite
lui, contro la chiesa in generale.
Inesistenti i garantisti, i dubbiosi, coloro
che si interrogano. Se non tra coloro
che don Turturro lo hanno conosciuto
e che giurano sulla sua innocenza.
Quanto al bacio sulla bocca di don
Paolo, divenuto “violenza sessuale”,
“pedofilia” (dimostrabile, e come?), fa
venire alla mente un altro caso, quello
di un altro prete “pedofilo”: don Ilario
Rolle, famoso per la sua lotta alla
pedopornografia, presidente dell’Associazione
Davide onlus per la tutela
dei diritti dei minori in rete (attraverso
l’invenzione del famoso filtro Davide),
consulente del governo per la sicurezza
dei minori in rete, fondatore
di una casa di accoglienza detta
“Pronto soccorso sociale” per l’ospitalità
di emergenza di minori e giovani
in situazioni di disagio. Don Ilario è
stato condannato a tre anni e otto mesi
per violenza sessuale su minore:
avrebbe baciato sulla bocca un bimbo
di dodici anni. “Il pm Stefano Demontis
– scrive il Corriere di Chieri e Moncalieri
– aveva chiesto un anno e otto
mesi, ma il Gup ha deciso di inasprire
la pena non condividendo l’ipotesi di
violenza lieve sostenuta dalla procura.
Nella sentenza il giudice non ha trascurato
anche i ‘guai giudiziari’ molto
simili avuti in passato da don Rolle.
Due episodi che non portarono a nessuna
condanna, uno dei quali avvenne
quando si trovava ancora a Carmagnola.
Era il 1990, don Ilario aveva 39 anni
ed era il parroco di Vallongo. Venne
accusato di molestie da un ragazzino
di 12 anni, ma venne completamente
prosciolto. Il prete si era difeso affermando
che il minore era uno sbandato
che aveva voluto vendicarsi perché
non era stato accolto in comunità.
Il ragazzino faceva parte del mondo
della baby prostituzione di Porta Nuova
e a presentarlo a don Rolle era stato
un noto avvocato torinese. La dife-
sa, sostenuta dall’avvocato Stefano Castrale,
ha già annunciato appello”
(www.corrierechieri.it/art/Chieresi_a_c
onfronto/%22Don_Rolle_abuso’_del_ra
gazzo%22_). Scrive Repubblica, sotto il
titolo “Il bacio proibito del prete antipedofilia:
“E’ conosciuto per il suo impegno
nella lotta alla pedopornografia,
è il creatore di siti Internet con filtri
protetti per i bambini, è uno dei
preti che ha ricevuto più premi e riconoscimenti,
e ha sempre detto che la
sua missione è quella di ‘proteggere i
minori’. Eppure proprio da un bambino
è stato messo nei guai…”. E conclude:
“Ma tre anni e otto mesi di carcere
sono tanti, e l’accusa di pedofilia rischia
di rovinare per sempre una vita
dedicata alla lotta contro la violenza
sessuale sui minori” (Repubblica,
3/12/2009).
Due anziane suore orsoline di Bergamo:
lavorano in un asilo, vengono
condannate a nove anni e mezzo in
primo grado per abusi su otto bambini
tra il 1999 e il 2000. Carmen Pugliese,
il pubblico ministero che ha chiesto
e ottenuto la pesante condanna, ha
dichiarato: “Ci siamo sforzati di non
farci condizionare dall’abito che portavano
le imputate. Abbiamo avvertito
il peso di lavorare in una città cattolica,
anche per lo scarso rilievo pubblico
dato a una vicenda così grave”
(http://italy.indymedia.org/news/2005/04
/777565_comment.php, sotto il titolo
“Per non dimenticare lo scandalo dei
preti pedofili”: uno dei tanti siti, specie
di sinistra, che esultano a ogni condanna
di preti, e che omettono sistematicamente
ogni assoluzione). Nel luglio
2004 le suore vengono assolte in
secondo grado, con formula piena, dopo
tanta “fortuna” sui giornali. Da mostri
sicuri a innocenti certi.
Suor Marta Roversi, nota come
suor Rosa: qua e là compare come la
suora “pedofila”. Avrebbe coperto
l’autista di un asilo di Calabritto, colpevole
di molestie su minori. Suor
Rosa è stata condannata a tre anni in
primo grado e appello. La sentenza
in appello è stata però annullata dalla
Cassazione e quindi si celebrerà
un nuovo appello.
Don Aldo Bonaiuto: responsabile
della Comunità Papa Giovanni XXIII
di don Oreste Benzi, dedita all’aiuto,
tra le altre cose, delle prostitute, e alla
lotta contro il traffico di nigeriane,
viene indagato nel 2003 per presunta
violenza sessuale nei confronti di un
bimbo di cinque anni. A chiamarlo in
causa è il figlio di una “lucciola” dell’ex
Jugoslavia che don Bonaiuto aveva
sottratto dal marciapiede e ospitato
nella sua casa-famiglia “Papa Giovanni
XXIII”. “C’è un episodio nel
passato di don Aldo Bonaiuto che
merita di esser ricordato. Il parroco
cercò di aiutare la prostituta nigeriana
Evelyn Okodua, uccisa a Senigallia
il 26 febbraio del 2000, mettendosi
contro i suoi presunti sfruttatori.
Denunciati dalla polizia, non sono
mai stati arrestati. La causa del delitto
della nigeriana fu la volontà di
uscire dal giro della prostituzione, a
cui i suoi sfruttatori si sono opposti
ferocemente. Evelyn dieci giorni prima
della sua uccisione chiese aiuto a
don Bonaiuto e a don Benzi. Il suo
corpo straziato fu ritrovato in mezzo
a una sterpaia di Passo di Ripe dove
si prostituiva. Forse quell’accusa infamante
di pedofilia potrebbe essere
un segno di ritorsione degli sfruttatori
danneggiati dall’impegno sociale
del parroco. E la procura sta seguendo
indagini anche verso questa ipotesi,
quella della malavita organizzata
sul racket delle prostitute”
(http://www.vivacity.it scritto da Anna
Germoni). Don Aldo è stato assolto.
Don Giancarlo Locatelli: accusato
per possesso di materiale pedopornografico,
assolto perché il fatto non
sussiste il 7 novembre 2006.
Quattro sacerdoti torinesi: accusati
di violenza da tale Salvatore Costa,
ANNO XV NUMERO 111 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 12 MAGGIO 2010
che vive di espedienti, di furti e di ricatti.
Se non mi date dei soldi, vi denuncio:
questa la sua strategia, allargata
poi ad almeno altri tre preti, uno
milanese, uno ligure e uno pugliese,
nel corso dei suoi vagabondaggi. Salvatore
Costa, racconta Repubblica,
“dopo un’infanzia per strada, passava
le sue giornate a fare il giro delle
chiese, tra elemosine e ricatti”. Per
strada significa soprattutto in via Cavalli,
a Torino: là dove dagli anni Ottanta
“uscivano allo scoperto decine
di ragazzi di strada. Giovani di 16-17
anni; a volte anche meno. Disposti a
tutto… Funzionava così, a quei tempi.
Quando si vendeva il proprio corpo
per qualche migliaio di lire. Per comprarsi
un paio di jeans alla moda,
scarpe firmate”. Oggi non è diverso,
se non per il luogo: non più via Cavalli,
per chi vuole sesso e minori. “Chi
cerca minorenni li trova più facilmente
in qualche cinema a luci rosse.
Ormai sono quelli i luoghi di ritrovo
durante il giorno. E quei ragazzini
in cerca di soldi facili sono lì già dal
primo pomeriggio, fino a sera inoltrata.
Se ne stanno sulle scale oppure
non lontano dagli ingressi. Per una
ventina di euro sono disposti a tutto,
o quasi” (la Stampa, 9/8/2007). Costa
non ha mai avuto un lavoro. Chiede
l’elemosina ai preti, come tanti, e talora
ad alcuni estorce denaro, minacciando
di infangarli pubblicamente
per presunti rapporti con lui
quand’era minore. Finché uno di loro
lo denuncia. Dei preti ricattati uno
viene subito scagionato. Due invece
non ne escono benissimo: ammettono
di avere avuto rapporti omosessuali,
ma mai con minori. Del resto le dichiarazioni
del Costa sui suoi rapporti
con loro risultano “contraddittorie”
e non credibili. Sembra che Costa
conoscesse le debolezze di qualche
sacerdote omosessuale e puntasse
sulla possibilità di retrodatare
presunti rapporti, per trasformare in
un reato ciò che non lo è. Alla fine la
magistratura condanna Costa a quattro
anni e sei mesi di carcere. La sua
abitudine alla diffamazione è sempre
più chiara anche grazie alle intercettazioni.
In una di queste egli dichiara
alla compagna, riferendosi al suo
primo legale (ne cambierà quattro):
“Ma lo mando a fanc… e lo cancello
come avvocato… te lo giuro, giovedì
all’interrogatorio faccio finta che mi
ha molestato due bambini davanti a
me e lo rovino” (la Stampa,
12/12/2008). Insomma, “un ricattatore
di professione”, come lo definisce il
gip Emanuela Gai.
Parte della pena Costa la passerà
agli arresti domiciliari, in una parrocchia.
“Salvatore Costa è cambiato,
ha mostrato l’intenzione di chiudere
questo triste capitolo della sua vita.
Certo all’interno della parrocchia
darà una mano, ma il suo obiettivo è
di cercarsi finalmente un lavoro”: così
ha dichiarato l’avvocato del Costa.
Intanto il ricattatore sarà aiutato. Da
un prete (Repubblica, 6 e 8/2/2009).
Don Marco: della sua denuncia per
pedofilia parla il Giornale del 2 aprile
2010. Si riportano a grandi caratteri
le accuse di un padre: “Pedofilia,
la denuncia del padre di una bambina:
un padre molestò mia figlia, lo
hanno coperto”. Il sacerdote accusato
di “semplice” palpeggiamento, ha
oltre settant’anni, e nessuna denuncia
precedente alle spalle. A inguaiarlo
le parole di una bambina di
sette anni. Il Giornale spiega che la
denuncia della bambina è certamente
credibile. Gran parte della letteratura
giuridica e psicologica dice il
contrario: le testimonianze dei bambini,
senza il sostegno di prove concrete,
sono del tutto inaffidabili, in
quanto i bimbi sono troppo influenzabile,
sotto mille aspetti. Ma il giornalista
che ha confezionato il titolone
e l’articolo, non sa nulla. Chi c’è dietro
la bambina? Un uomo con problemi
economici e non solo, che era stato
sempre aiutato dalla Caritas e dallo
stesso don Marco, come dichiara
lui stesso: “Prima di allora, io con i
salesiani avevo sempre avuto un
buon rapporto. Con me erano stati generosi,
mi avevano aiutato quando
ero in difficoltà. Ero un ‘mammo’, un
padre single con due figli, e faticavo
ad arrivare a fine mese”. Poi aggiunge:
“Dopo la mia denuncia è cambiato
tutto. Ci hanno chiuso le porte dell’oratorio…
Hanno detto in giro che
mia figlia si era inventata tutto perché
io volevo estorcere del denaro alla
chiesa. Ma quale padre al mondo
costringe la figlia a inventarsi un racconto
così?”. Nessun padre? La cronaca
ce ne offre decine e decine: ad
esempio il padre che spinse il figlio
Jordan Chandler ad accusare ingiustamente
Michael Jackson per estorcergli
20 milioni di dollari. Avvenire
del 3 aprile racconta: “Don Marco, il
salesiano accusato di molestie a una
bambina… è tornato spontaneamente
nel 2008 dal Brasile per dimostrare
al magistrato la propria innocenza.
Ma nessuno lo ha detto… Sulla vicenda
è in corso un processo. Tutti sono
convinti dell’innocenza di don Marco,
a cominciare dalla sua vecchia parrocchia.
E l’ispettore dei salesiani di
Milano, don Agostino Sosio, ricorda
di aver rigettato una richiesta di denaro
del padre per non sporgere denuncia.
A quel punto la congregazione
è andata fino in fondo per difendere
in tribunale il sacerdote”.
Aspettiamo dunque la sentenza, sebbene
per il Giornale, questa volta in
perfetta sintonia con i metodi dei
quotidiani di sinistra, i preti denunciati
meritano già la condanna e il
linciaggio, almeno mediatico, ben
prima dell’accertamento dei fatti. Solo
notiamo che le prove di un palpeggiamento
non si troveranno mai. Rimane
quindi una domanda: è più credibile
il settantasettenne don Mario,
una vita al servizio degli altri, o l’accusatore
in perenne ricerca di denaro,
di cui sopra?
Tre preti bresciani: coinvolti tutti e
tre nella piscosi collettiva di Brescia,
a cui Antonio Scurati ha persino dedicato
un romanzo. La psicosi inizia
nel 2002: piano piano per contagio
vengono coinvolti appunto 23 bambini,
tre preti, sei maestre e bidelli d’asilo.
I tre sacerdoti sono: don Armando
Nolli, don Amerigo Barbieri, don
Stefano Bertoni. Scrive Repubblica:
“Dodici persone in tutto che rappresentano
in un colpo solo tutto quello
che Brescia ha sempre portato come
modello: il suo sistema educativo, le
sue strutture sociali, la sua vocazione
di cooperazione e solidarietà, la sua
chiesa che da quindici secoli ne costituisce
l’anima istituzionale, politica
e spirituale. Una macchina sociale
che rischia di collassare per aver
tradito i suoi figli. Per questo da più
di un anno, da quando questo incubo
collettivo è incominciato, qualcosa
nell’anima della città si è rotto. Difficile
pensare che non sia successo
nulla, impossibile pensare che sia
successo qualcosa” (18/10/2004). L’assoluzione
finale per tutti gli indagati,
perché “i fatti non sussistono”, arriva
il 31 marzo 2009. Ancora una volta
esperti e magistrati concludono che
le dichiarazioni di bambini sotto
pressione degli adulti e delle loro
convinzioni, non sono attendibili.
Dai casi cui si è accennato, ma se
ne potrebbero elencare molti altri,
emergono alcune considerazioni.
La prima: l’accusa di pedofilia non
dovrebbe essere sufficiente a distruggere
una persona, prima che la colpa
non sia stata provata. Se la colpa è
certa, ben venga l’evangelica macina
al collo. Lo stato faccia il suo dovere,
la chiesa, soprattutto, vigili sui suoi
preti e seminaristi: torni alle regole
pre Concilio, allorché, prima che uno
fosse accettato in seminario, veniva
vagliato e controllato con grande
scrupolo e severità. I vescovi, soprattutto,
facciano il loro dovere: che non
è anzitutto quello di denunciare al
tribunale un prete che sbaglia, anche
perché non è così facile accertarlo,
quanto quello di conoscere, frequentare,
sostenere come un padre i suoi
seminaristi e i suoi sacerdoti (cosa
che purtroppo avviene assai di rado).
La seconda: in molti casi sacerdoti
e religiosi vivono spesso a contatto
con situazioni limite, con tossici, poveri,
squilibrati, sbandati, emarginati.
Da chi vanno a chiedere aiuto immigrati
senza lavoro, persone che
hanno perso tutto, o in difficoltà di
vario tipo? Alla Caritas, alla San Vincenzo,
alle mense dei poveri che nascono
in moltissime città dal volontariato
cattolico, alle porte delle canoniche…
Non è dunque raro che proprio
da costoro i sacerdoti vengano
talora ripagati con accuse infamanti,
per estorcere denaro, per malintesi,
scontri, ricatti, vendette… Come nei
“Miserabili” di Victor Hugo è frequente
che il beneficiato approfitti
del benefattore, specie quando le sue
condizioni sono disperate. Si tratta di
una situazione ben conosciuta, per
esempio, da chi ha avuto a che fare
con le comunità terapeutiche di tossici,
in cui non di rado succede che il
rapporto di amore-odio tra i drogati e
i loro aiutanti-“guardiani”, laici o
preti che siano, finisca in accuse terribili
nei confronti di quest’ultimi, sovente
puramente calunniose. Inoltre
la scelta di stare accanto agli emarginati,
procura talora nemici pericolosi:
magnaccia, mafiosi, sfruttatori, cui
l’impegno di un sacerdote coraggioso
dà immenso fastidio.
In tutti questi casi l’accusa di pedofilia
può essere una calunnia, e rende
molti sacerdoti, non dei “mostri”,
ma delle vittime della loro stessa carità
e generosità. Vittime, per di più,
infangate e derise dal pregiudizio e
dall’odio che la superficialità di molti
media alimenta, non senza colpa.
© Copyright Il Foglio 12 maggio 2010