DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

L’io e il sacro dentro il ricordo. Di Gianfranco Ravasi

Un popolo senza memoria non è un popolo, scrisse Cesare Pavese.

Lo stesso si può dire dell’uomo: chi dimentica può dire di aver veramente vissuto? Già nella Bibbia la coscienza del proprio passato fonda il patto di Dio con l’umanità



DI GIANFRANCO
RAVASI

« Q
uando un po­polo non ha più un senso vitale del suo passato, si spegne […]. Si diventa creatori quando si ha un passato. La giovinezza dei popoli è una ricca vecchiaia». Così scrive­va il 6 luglio 1939 nel suo dia­rio,

Il mestiere di vivere,
Ce­sare Pavese in un’epoca in cui il fascismo esaltava il passato in modo magnilo­quente e retorico. In realtà, la memoria storica è feconda, «vitale» come annotava lo scrittore piemontese, solo quando è legata ai valori: sol­tanto così si compie la verità dell’ossimoro secondo il quale la vera giovinezza non è nel vacuo fremito delle e­nergie fisiche, ma nella «ric­ca vecchiaia», ben diversa dalla debilitante smemora­tezza fisica di un anziano («chi non ricorda il passato è vecchio subito», ammoniva un detto attribuito a Epicu­ro). A ragione, una ventina d’anni prima, nel 1920, un grande filologo come Giorgio Pasquali denunciava quella smemoratezza culturale e spirituale che ai nostri giorni è imperante, rammentando che: «Chi non ricorda non vi­ve ». Non c’è bisogno di sottoli­neare che questo «ricorda­re », come suggerisce lo stes­so etimo, è un «riporta­re al cor», è quindi un atto d’intelligenza e d’amore, ed è una sor­gente di futuro. Mon­taigne, nei suoi Saggi,

era certo che «la me­moria è lo scrigno della scienza»: come può u­no scienziato partire sempre da zero? È scontata la metafora u­sata da Bernardo di Chartres (o da Giovanni di Salisbury) la quale ci comparava a nani sulle spal­le dei giganti del passato; ep­pure è proprio per questo che noi riusciamo a vedere più lontano di loro. Possia­mo anche aggiungere un co­rollario, tessendo l’elogio della memoria intesa in sen­so più letterale: essa è la pa­gina mentale immateriale, più efficace di quella elettro­nica, sulla quale molti popoli hanno scritto le loro storie, i miti, le leggi e le norme di vi­ta
(basti pensare alla tradi­zione mnemonica dotata di una sua grammatica, che ha retto la civiltà dell’antico Vi­cino Oriente e quindi della stessa Bibbia). A questo pro­posito forse c’è ancora, pro­prio sulla pagina viva della nostra memoria, il monito che Beatrice rivolge a Dante: «Apri la mente a quel ch’io ti paleso / e fermalvi entro; ché non fa scienza, / sanza lo ri­tenere avere inteso» ( Paradi­so

V, 40-42). Non sarebbe male ritornare nelle scuole ad esercitare anche questo procedimento mnemonico per conservare la memoria oggettiva dei dati storico­culturali e spirituali.

A questo punto vogliamo ri­ferirci
più specificamente a quel «Grande codice» della nostra cultura che è la Bibbia ove il «ricordo» è sacro, tant’è vero che nel suo Ange­lus novus Walter Benjamin definiva il ricordare della so­cietà moderna come una «reliquia secolarizzata» ri­spetto al memoriale sacrale.

Già significativa è la statisti­ca: la radice ebraica della memoria,
zkr , risuona ben 288 volte nell’Antico Testa­mento, mentre la costella­zione lessicale dei verbi e dei termini greci (almeno una dozzina) che custodiscono al loro interno la radicale del ricordo mne­registra 144 oc­correnze negli scritti neote­stamentari. E non si tratta, certo, di quelle pallide «com­memorazioni » che fanno parte dei rituali moderni de­gli anniversari soprattutto patriottici, né tanto meno di quella degenerazione men­tale che bollava sarcastica­mente già La Rochefoucauld quando, nelle Massime , si chiedeva: «Perché dobbiamo avere abbastanza memoria per ricordare fin nei minimi particolari quello che ci è ac­caduto, e non ne abbiamo a sufficienza per ricordare quante volte lo abbiamo raccontato alla stessa persona?». Come non pensare ai ricordi di guer­ra reiterati decine di volte dai nostri nonni o padri?

No, la memoria biblica è ben altro, tant’è vero che il luogo della smemoratezza è la morte, sono gli inferi, e cancellare il ricordo di una persona o di un popolo è l’apice della maledizione: «Il ricordo dell’empio sparirà dalla terra e il suo nome non si udrà più per la contrada» (
Giobbe

18,17). La memoria diventa così un sinonimo dell’atto di fede, come la dimenticanza si rivela un’apostasia. Lo esprime bene un libro biblico tutto ritmato su una sorta di teologia del ricordo, il Deuteronomio: «Ricordati (
zkr ) del Signore tuo Dio […]. Ma se tu dimenticherai il Signore tuo Dio e seguirai altri dèi, li servirai e ti prostrerai a loro…» e si ha un seguito fatto di maledizioni (8, 8-9). Il ricordo è sorgente di benedizione, mentre l’oblio genera l’anatema divino. Due sono le memorie che s’incrociano tra loro nella Bibbia. C’è innanzitutto quella efficace e «discensionale» di Dio. È ciò che, ad esempio, si ha proprio in apertura al grande articolo di fede della liberazione esodica: «Dio si ricordò ( zkr ) della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe, Dio guardò la condizione degli Israeliti e Dio se la prese a cuore» ( Esodo 2 , 24 -25 ).

C’è, però, anche un ricordo fe­dele e 'ascensionale' dell’uo­mo verso Dio. Prendiamo an­cora come esempio l’espe­rienza esodica: «Ricordati (zkr) di quello che il Signore, tuo Dio, fece al faraone e a tut­ti gli Egiziani» ( Deuteronomio

7,18). Anche la preghiera che sale come incenso a Dio è ri­cordo: «Mi ricordo di Dio e ge­mo
», esclama il Salmista (77,4). Se si spezza questo le­game tra le due memorie, si e­sce dalla regione della salvez­za. Come si è visto, il «dimen­ticare » del fedele è un’aposta­sia perché si ignora l’amore offerto da Dio, mentre il «di­menticare » di Dio è il giudizio sull’uomo peccatore, oppure è visto come radice del dolore: «Fino a quando, Signore, con­tinuerai a dimenticarmi?» ( Salmo 13 ,2 ). Il luogo privile­giato in cui le due memorie s’incontrano è la liturgia. È per questo che la Pasqua è per ec­cellenza il «memoriale» ( zikkaron): «Quel giorno sarà per voi un memoriale e lo fe­steggerete come festa del Si­gnore » ( Esodo 12 ,14 ).

Qui appare in modo limpido la struttura germinale di que­sto ricordo, alieno da ogni va­ga e romantica rimembranza o da una pura e semplice re­miniscenza del passato. Infat­ti, l’evento primigenio ricor­dato vede coinvolti Dio e u­manità: da un lato c’è il popo­lo oppresso e dall’altro c’è il Signore liberatore. Ora, l’azio­ne divina, pur incidendo nel tempo, è di sua natura eterna, è come un seme di eternità depositato nel terreno della storia. La Pasqua egiziana passata diventa così fondazio­ne del presente, la libertà allo­ra donata risorge e viene di nuovo offerta nel presente a­maro, aprendosi all’attesa di future celebrazioni pasquali e di una futura salvezza. Ecco, perché, si usa parlare di una tridimensionalità del memo­riale biblico: la fonte del pas­sato irrora il presente e fa scorrere le sue acque verso il futuro fino all’approdo esca­tologico. Va in questa stessa li­nea la frase che Cristo pro­nunzia all’interno della sua cena pasquale eucaristica, se­condo la tradizione lucana (22,19) e paolina ( 1 Corinzi

11,24): «Fate questo in memo­ria (
anámnesin ) di me». L’e­vento storico-divino della morte-resurrezione, la Pasqua di Cristo, avvenuta «una volta per sempre», come dice la Let­tera agli Ebrei, viene «ri-pre­sentato » nella sua efficacia at­traverso la celebrazione nel­l’oggi. La sua stessa parola di­vina (e quindi eterna) pronun­ziata nel passato rivive nel presente mediante il «ricordo» animato dallo Spirito: «Il Para­clito, lo Spirito Santo che il Pa­dre manderà nel mio nome, e­gli vi insegnerà tutto e vi farà ricordare tutto ciò che io vi ho detto» ( Giovanni 14 ,26 ).

«Questa mobilità fluida e scor­revole dei piani temporali», come l’ha definita un esegeta, Federico Giuntoli, non è tanto dovuta alla variabilità insita nella concezione temporale semitica, attestata proprio dal verbo che si coniuga modal­mente (cioè secondo la qua­lità delle azioni) e non tempo­ralmente come per noi (i 'tempi' verbali), quanto piut­tosto all’incontro tra l’eterno (Dio) e il tempo (l’uomo) che rende gli eventi storico-salvifi­ci permanenti e perenni. Per questo è emblematico l’asser­to del trattato talmudico sulla Pasqua, Pesahim : '«Ogni ge­nerazione deve considerare se stessa come uscita dall’Esodo» (10,5). Per la nostra civiltà il non ricordare è grave, ma spesso solo nel senso aspro segnalato dal filosofo ameri­cano George Santayana nel suo saggio La vita della ragio­ne

(1905-06): «Quelli che non sanno ricordare il passato so­no condannati a ripeterlo», ri­percorrendone gli errori. Per la religione ebraico-cristiana chi non ricorda esce, invece, da un circuito di salvezza. Sia­mo lontani anche dalla conce­zione proustiana in cui l’inse­guire il ricordo è, sì, ansia di li­berazione e di verità, ma è pu­re consapevolezza che quel tempo è «perduto», è stinto ed estinto e vive solo nella soffer­ta reminiscenza nostalgica («la carità feroce del ricordo», se volessimo ricorrere a un verso di Ungaretti, per non parlare poi del Leopardi dei


Canti).


La famosa domanda di Verlai­ne nei suoi
Poemi saturnini,

«Ricordo, ricordo, cosa vuoi da me?» (
Souvenir, souvenir, que me veux-tu?), ha quindi rispo­ste differenti nella cultura mo­derna e nella fede biblica. Per la prima, o è un’eredità dissi­pata nella smemoratezza, «è il suono di corni da caccia che muore nel vento», come scri­veva Apollinaire negli Alcools,

oppure è un bagaglio duro da portare perché parla di felicità perduta o di errori commessi («il ricordo della felicità non più felicità; il ricordo del dolo­re è ancora dolore», osservava Byron nel
Marin Faliero). Per la fede ebraico-cristiana, inve­ce, ricordare è vivere ed è pro­fessare la fiducia in una sal­vezza e in una presenza sem­pre disponibile ed efficace: «I miei giorni sono come ombra che s’allunga, come erba mi sento inaridire. Ma tu, Signo­re, rimani per sempre, il tuo ricordo di generazione in ge­nerazione » ( Salmo 102, 12 -13 )



© Copyright Avvenire 11 aprile 2010