Ci sono diversi tipi di dolore. Quello della Chiesa e dei suoi membri è il dolore di un corpo. Non è il dispiacere che possono provare, che so, gli aderenti a un partito, magari all’indomani di elezioni perse o di scandali che ne colpiscono la base o i capi. Quello nostro intendo, di noi che col Papa sentiamo il dolore di questi mesi e settimane (e di secoli e millenni) per le ferite che la nostra e altrui debolezza producono alla Chiesa, è il dolore di un corpo. Non è il dispiacere per una Istituzione che viene colpita o macchiata.
Non è nemmeno il dispiacere per vedere che una ideologia o filosofia manifesta degli errori, delle falle. Non è il dispiacere per una impresa che non si riesce a compiere, che fallisce. No, è un altro tipo di dolore. Quel che uno prova sul proprio corpo non è facilmente comunicabile. E nemmeno tanto comprensibile. Un dolore che non è nemmeno il rammarico di chi perde la faccia. Non è la vergogna solamente. È un dolore più netto. Più forte e direi quasi più puro. Come il dolore di una ferita al petto. E nel cuore. E di una ferita alla gamba. E nel cuore. Insomma come un dolore che non è il dolore per una idea, o per un ideale, ma di un corpo. Del Suo corpo che è la Chiesa. E che siamo noi.
Chi non ne fa parte può forse lontanamente immaginare di cosa si tratti. E magari pensa che i cattolici stiano soffrendo perchè feriti nell’orgoglio, o in una specie di idea, o nella fede. No. Non si tratta di questo. Chi ha una ferita nel corpo capisce meglio di cento o mille giornalisti o commentatori. È una ferita della carne, della Sua carne che è la Chiesa. E nostra. Un dolore inimmaginabile. E però, al tempo stesso, più chiaro, se così si può dire. Che non cerca spiegazioni in dietrologie di cui fanno pasto media o commentatori noiosi e sempre in cerca di spunti per dipingere la Chiesa per quello che loro vorrebbero fosse. Una Istituzione come un’altra. Una Istituzione da rispettare, a volte. E a volte per niente.
No, non si tratta di questo. Le Istituzioni non soffrono veramente. Si può dire che guadagnano o perdono prestigio. Ma alla Chiesa che è il Suo corpo non interessa, in sé e per sé, il prestigio. Non conta su quello, come Lui non ci contava. Molti sarebbero disposti a offrire grande onore alla Chiesa se fosse solo una Istituzione e non un corpo vivo. Farebbe persino comodo, in questa crisi generale delle istituzioni, una Chiesa intesa solo come una Istituzione, vecchiotta e saggia se pur con qualche acciacco. Ma proprio il dolore, il tipo di dolore che stiamo provando, e di cui il Papa parla per primo con sincerità e chiarezza, mostra che la Chiesa è innanzitutto un corpo, e dunque soffre come un corpo vivo.
Non cerca di nascondere o di esorcizzare il dolore. Un corpo non può farlo. Ma si tratta di reagire alla ferita come fa un corpo vivo: aumentando la forza, cercandola, come invita a fare il Papa, nella comunione, che è la unità del corpo. Ed è il principio vitale. Come dire: il motore e la connessione del corpo. La comunione che è la unità dei membri. Questo corpo appartiene all’uomo adombrato nel mistero della Sindone. Un corpo sofferente. In questi mesi è Lui che soffre, e noi siamo il Suo corpo che soffre. Non è risparmiato niente.
Ma questo corpo ha conosciuto e conosce continuamente la Resurrezione. Perciò l’unico "conforto" a questo dolore della Chiesa non sta in una strategia, o in qualche passeggero analgesico. Bensì, come il Papa sta indicando, nel rivolgere lo sguardo alla Resurrezione. All’unica vera vittoria del male, che toglie il pungiglione alla morte, a quei pezzi di morte chiamati peccati che fanno soffrire il Suo corpo.
© Copyright Avvenire 11 aprile 2010