DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Mons. Forte: la solitudine del prete è presenza di Dio

ROMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lettera “Ai carissimi sacerdoti giovani dell’Arcidiocesi” di mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto.


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Carissimi giovani Sacerdoti,

in preparazione a questo incontro con Voi ho provato a pensare ad alcune delle sfide che nella nostra vita di presbiteri prima o poi inevitabilmente si presentano. L’elenco è solo indicativo, e pesca nella memoria del vissuto personale e collettivo. Ve lo presento con l’unica intenzione di capire che cosa significhi per ognuna di queste situazioni esistenziali la parola di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-30).

La prima sfida che mi viene in mente è la solitudine del prete: in verità, essa è messa in conto sin dal primo momento della nostra chiamata ed ha un sapore anzitutto bello e positivo. Solitudine per noi che abbiamo incontrato Gesù non è tanto assenza degli uomini, quanto presenza di Dio: un essere rapiti dalla luce del Suo Volto, pur sempre cercato, un desiderio di stare con Lui e di lasciarci lavorare da Lui. C’è però anche una solitudine amara: l’avverti quando ti sembra che nessuno ti comprenda veramente o sia capace di un minimo di gratitudine per quello che sei e che fai. È la solitudine che ti fanno sentire i pregiudizi di alcuni, la malevolenza di altri - a volte anche nel nostro mondo ecclesiastico -, l’atteggiamento di chi sembra rimproverarti come egoistica la scelta di non avere accanto una moglie o dei figli secondo la carne. A volte tutto questo ti pesa, altre volte ti appare un prezzo necessario da pagare a una forma di vita certamente “controcorrente”. Ricorda sempre però che la tua solitudine è abitata da Gesù: Lui, che l’ha vissuta, ci dice “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. Regalare a Lui l’esperienza della solitudine amara e di quella ricca di pace, lasciare che sia Lui ad abitarle entrambe per farne tempo di grazia: è questo il modo più vero per camminare nella solitudine e viverla come condizione di grazia e di autentica generosità e libertà. Non sarai mai solo, se riconosci Gesù accanto a te!

Una seconda sfida che mi viene in mente è il senso di scoraggiamento e di frustrazione che a volte ci prende di fronte agli scarsi risultati, se non addirittura ai fallimenti del nostro ministero. Ci sono momenti in cui ti sembra di battere l’aria, di affaticarti invano: in quei momenti la stanchezza e il peso degli altri ti appaiono troppo grandi. Quante speranze e desideri incompiuti! Quante attese di bene cadute nel vuoto! Eppure Gesù ci dice: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. Dobbiamo riposarci in Lui: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’” (Mc 6,31). A volte occorre anche un po’ di sano riposo fisico: ma solo nell’amicizia con Gesù, nella prolungata esperienza della preghiera e dell’ascolto, raggiungiamo la fonte del riposo cui anela il nostro cuore. “Hai fatto il nostro cuore per Te ed è inquieto finché non riposa in Te”, ci assicura Agostino parlando a partire dalla propria esperienza. Confida nel Signore, spera in Lui e le forze e l’entusiasmo torneranno: “Quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi” (Is 40,31). Non dimenticare, poi, che i frutti del tuo ministero li conosce solo Dio e a volte ti dà di scoprirne i segni al di là di ogni tuo calcolo e attesa!

Una terza sfida nella vita del prete è il rapporto con quelli che gli sono affidati: a volte, possiamo dirlo con veracità e umiltà, alcune persone sono proprio insopportabili. C’è chi ci tratta come funzionari del sacro da cui pretendere la disponibilità cieca del burocrate (ammesso che esista!); c’è chi vorrebbe arruolarci nel proprio mondo familiare o affettivo come possesso di cui disporre al momento opportuno; c’è chi ci assale col suo bisogno, rimproverandoci come colpa l’eventuale nostra impossibilità a soddisfare quello che ci viene chiesto. Qui è importante imparare a guardare sempre e solo la nostra gente come quella che Dio ci ha affidato: a guardarla cioè con occhi di amore, con lo sguardo di un padre che ama i propri figli a prescindere dai loro meriti o dalla loro effettiva amabilità. Occorre ricorrere a Lui, Gesù, al Suo esempio, al Suo aiuto: “Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde… Io sono il buon pastore… e do la mia vita per le pecore” (Gv 10,11-15). Non dobbiamo sottrarci alla fatica di chi ci chiede aiuto per portare il suo peso. Se accoglieremo tutti con un cuore disponibile e generoso, un Altro aiuterà noi: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”. Il giogo di chi ci è affidato è il giogo di Gesù: prenderlo su di noi ci fa sperimentare il ristoro e la dolcezza che Lui ci ha promesso!

C’è poi la sfida della comunione col vescovo e con il presbiterio: al vescovo abbiamo promesso fiducia e obbedienza, e questo a prescindere da chi sia o come sia colui che il Signore ci ha dato come pastore. Soprattutto, però, anche il vescovo ha bisogno dell’amore dei suoi sacerdoti, senza cui non potrebbe fare quasi nulla per la crescita del suo popolo nella fede e nell’amore di Dio e degli altri. Da vescovo sto imparando sempre di più a esercitare la carità paterna, a non giudicare, a cercare di comprendere, a valorizzare il bene che c’è in ognuno, specie in ciascuno dei miei preti. Anche voi aiutatemi ad aiutarvi! Pregate per me e cercate di comprendermi e sostenermi, come io desidero fare con voi. Prego tanto per voi, fedelmente, con tutto il mio cuore. Vi chiedo di volervi bene come Gesù ci ha chiesto: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12). “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (13,35). Abbiate a cuore il bene gli uni degli altri. Siate fedeli ai nostri appuntamenti, cercando di viverli come ore di grazia, con spirito di profondo ascolto e partecipazione assidua e attiva. Amiamo i sacerdoti più anziani, riconoscendo in loro tutto il bene della loro vita spesa per il Vangelo. Liberiamoci da ambizioni, confronti, gelosie e piccole invidie. Gesù ce lo chiede come lo aveva chiesto ai suoi: “Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato” (Mt 23,11s). Chiediamo di essere così a Lui, che ci dona di vivere con semplicità quello che ci chiede: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”.

Infine, vorrei dirvi una parola sulla sfida rappresentata dal rapporto con la famiglia, le amicizie e gli affetti: ci sono tanti esempi belli di relazioni umane autentiche del sacerdote con i suoi cari e con i suoi amici; ci sono parimenti rischi e atteggiamenti sbagliati. Fra questi la freddezza di alcuni preti, che appare a volte perfino disumana e alienante, anche se è spesso solo frutto di timidezza e di una mancanza di amore conosciuta nei tempi dell’infanzia o dell’adolescenza (per inciso vorrei ricordare quanto è importante l’aiuto di una psicologia scevra da precomprensioni per aiutare il prete a essere uomo fra gli uomini, costituito a favore degli uomini!). Altri tendono invece a creare legami oppressivi, sentendosi quasi padroni della fede e dell’affetto di quelli che sono loro affidati. Entrambi questi atteggiamenti sono sbagliati: occorre essere tanto umani ed insieme tanto veri nella nostra appartenenza esclusiva a Gesù. Nessun affetto ci deve separare da Lui: meglio morire, che offendere gravemente l’alleanza con Lui! Anche qui è Gesù che ci viene incontro: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. È Lui che ci ama per primo e ci aiuta ad amare gli altri con verità e libertà se solo ci lasciamo amare da Lui. Diamogli tempo e cuore: adoriamolo con tutto il nostro essere, regalandogli lunghi momenti davanti alla Sua Presenza sacramentale e in ascolto della Sua Parola di vita. Allora, ci sentiremo in pace e nessun surrogato potrà esercitare il suo fascino malizioso sul nostro cuore innamorato di Dio ed abitato da Gesù.

Vi ho esposto questi pensieri con semplicità, dopo averci un po’ pregato. Ora, vorrei che li condividiate con me, lasciando che la ricchezza del nostro essere insieme moltiplichi la luce di grazia che il Signore vuol far risplendere in ciascuno di noi, per sperimentare nel vivo del nostro cuore e del nostro ministero la forza liberante e salutare della promessa che Gesù ha fatto ai discepoli che tanto ama: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-30).

+ Bruno

Padre Arcivescovo

4 Maggio 2010