DISCERNERE
Uno sguardo profetico sugli eventi
“Neda uccisa due volte”. Così l’Onu ha ceduto all’Iran anche i diritti delle donne. E un premio al peggior satrapo africano
Roma. “Neda Soltan è stata uccisa due
volte”, hanno gridato ieri le donne iraniane
riparate negli Stati Uniti. La Repubblica
islamica dell’Iran, che aveva rinunciato
a diventare membro del Consiglio delle
Nazioni Unite per i diritti umani, ha conquistato
un seggio quadriennale alla Commissione
Onu per la protezione dei diritti
delle donne. Il regime dei mullah è uno
dei più duri al mondo verso il sesso femminile,
che vive in uno stato di semi segregazione.
Sono all’ordine del giorno arresti
e violenze contro donne non “sufficientemente
coperte” o che si comportano in
“maniera poco islamica”. Così, mentre l’opinione
pubblica era impegnata a denunciare
la “crescente islamofobia” del Belgio
dove era stato appena messo al bando
il burqa, al Palazzo di Vetro l’Iran metteva
a segno uno dei colpi più micidiali alla
credibilità (già bassa) dell’Onu.
Alla preghiera del venerdì, lo scorso 16
aprile, il mullah di Teheran Kazem Sadighi
aveva detto che le donne che non indossano
il velo sono responsabili del
diffondersi dell’adulterio e “accrescono il
rischio di terremoti” (la capitale iraniana
è soggetta a fenomeni sismici). L’Iran è
uno dei paesi con il più alto tasso al mondo
di suicidi femminili. Il seggio alla commissione
dell’Onu arriva nello stesso giorno
in cui a Teheran il capo della polizia,
generale Hossein Sajedinia, proclama che
l’abbronzatura è “una delle manifestazioni
del male” e che per questo va messa al
bando.
Le donne iraniane possono essere fermate
dalla polizia e portate in cella (se
non persino frustate) perché indossano un
foulard che lascia scoperti collo e capelli.
Le loro maniche devono essere abbastanza
lunghe da coprire i polsi, lo stesso vale
per i pantaloni con le caviglie. Proibito un
cappotto sopra il ginocchio o avvitato e
aderente sui fianchi. Sono messi al bando
i colori sgargianti, “richiami satanici” perché
attirano gli sguardi degli uomini. Un
poliziotto può condurre in centrale una
donna perché ha lo smalto sui piedi o sulle
mani, oppure perché il taglio dei suoi
capelli è simile a quello delle donne occidentali,
o se le sue labbra hanno troppo
rossetto e gli occhi il kajal.
All’Onu il regime iraniano è stato premiato
con un simile incarico mentre languono
ancora in carcere alcune “madri in
lutto”, fra le figure più famose e temute
dell’Onda Verde. Si tratta per lo più di
donne minute e semplici, sono le madri di
ragazzi e ragazze uccisi o scomparsi dopo
l’ultima repressione del regime iraniano.
Dall’estate, ogni sabato, si trovano per protestare
nel parco Laleh al centro di Teheran.
Marciano e cantano, con le dita alzate
a formare la “V” di vittoria, quasi sempre
tengono una candela in mano. C’è anche
Hajar Rostami-Motlaq, la mamma di Neda
Soltan, che tutti nel mondo conoscono come
l’icona assassinata della rivolta. Sono
state paragonate alle madri di Plaza de
Mayo a Buenos Aires, o a quelle madri
curde di Galata a Istanbul.
All’Onu le attiviste iraniane avevano fatto
circolare una lettera per invitare i paesi
membri a scongiurare l’elezione dell’Iran
alla commissione: “Le donne non hanno
la libertà di scegliere i propri mariti,
non hanno diritto all’istruzione dopo il
matrimonio, non hanno diritto al divorzio,
non hanno diritto alla custodia dei figli,
non hanno protezione dalle violenze, sono
arrestate, picchiate e imprigionate”.
Sulla rivista Foreign Policy, alcuni celebri
dissidenti e promotori dei diritti umani
in Iran avevano già scritto un articolo
per denunciare le politiche dell’Iran sulle
donne. Vi si spiegava in particolare come
il presidente Ahmadinejad abbia da mesi
ristretto i diritti femminili nelle università,
negli ospedali e nel giornalismo, chiudendo
numerose testate per donne.
Come se non bastasse, sempre all’Onu,
stavolta nella sede parigina dell’Unesco, si
sta per assegnare un “Premio Internazionale
per la Ricerca in Scienze Biologiche”
a Obiang Nguema Mbasogo. E’ il presidente-
satrapo della Guinea Equatoriale, noto
anche come “il peggior dittatore d’Africa”,
peggio anche di Mugabe. Obiang detiene
99 dei 100 seggi nel suo Parlamento, ha fatto
uccidere numerosi dissidenti e oppositori
e ha coltivato un culto della personalità
tale che la maggior parte dei cittadini
porta vestiti con la sua faccia impressa.
Adesso Obiang ha dato tre milioni di dollari
all’Unesco per far istituire un premio
a suo nome.
© Copyright Il Foglio 1 maggio 2010