Quasi nessuno percorre ormai la Route 40 da Eilat a Tel Aviv. Per tagliare in due il deserto, gli israeliani imboccano la nuova Route 90, ma è dalla vecchia superstrada, più lunga e tortuosa, che si gode delle spettacolari vedute sul Negev.
Rocce, distese di arenaria, crateri naturali provocati dalle erosioni o da giganteschi meteoriti, canyon di granito. È in questi enormi spazi vuoti che, fra spiritualità ed economia, si giocano alcune scommesse del governo d’Israele. In una sorta di 'imprenditorialità' del deserto che, da David Ben Gurion in poi, ha mosso lo sforzo creativo di tutti i primi ministri. Il tentativo cominciato negli anni ’50, con la nascita dello Stato, di trasformare le distese aride in terreni agricoli ha dato esiti ammirevoli ma non imponenti e solo un decimo della popolazione vive nel deserto. Oggi non si tratta più solo di popolarlo. Per cercare di afferrare il rapporto del Paese con i suoi deserti può servire la testimonianza che fra Oscar Marzo, francescano della Custodia di Terra santa, appassionato di deserto e guida per chi affronta pellegrinaggi nei luoghi dell’Esodo, ha raccolto un giorno, trascorrendo lo Shabbat con una famiglia di Gerusalemme. Una donna gli ha spiegato che «solo nel deserto il popolo d’Israele poteva arrivare a una esperienza tanto forte di Dio». Il deserto è parte integrante dell’educazione dei giovani. Il ministero per l’Educazione ne propone la fruizione in molte forme, e a tutte le età: walking, trekking, equitazione, zoo-safari, campeggio per famiglie, pernottamenti per le scolaresche. Nel bel mezzo del maktesh Ramon, il cratere lungo quaranta chilometri e profondo trecento, può succedere d’imbattersi al mattino presto, nel silenzio, in una famigliola in mountan bike, con i bambini ben allacciati ai seggiolini che si guardano incuriositi tutt’attorno. O in gruppetti di ragazzi che discendono un costone roccioso chiacchierando tra loro come al bar. Gli israeliani vengono letteralmente 'allattati' nel deserto, per sviluppare l’attaccamento alla loro terra.
Laggiù spesso si svolge anche il lungo servizio militare, che dura tre anni per i ragazzi e quasi due per le ragazze. Alcuni soldati hanno sofferto una sorta di 'sindrome del deserto', dopo la guerra del Kippur, che li portava a ritornarvi sempre. «Quando ho voglia di deserto – racconta lo scrittore Meir Shalev, dietro la vetrata di un ristorante sul mare a Tel Aviv –, vado nel deserto, mi trovo una tamerice, e resto lì sotto per tre giorni». Sfondo o addirittura protagonista dei loro romanzi, il deserto è vissuto quotidianamente da molti artisti israeliani. Come Amos Oz: la sua Arad, una cittadina di provincia (e uno dei più antichi esperimenti di urbanizzazione), è riconoscibile, anche se un po’ trasfigurata, nella Tel Kedar di Non dire notte. «Cammino nel deserto tutte le mattine – ha detto una volta Oz –. Mi aiuta a collocare le cose nella giusta prospettiva». Non gli si può dare torto: l’alba nel Negev cambia colore con il cambiare della latitudine: rosata come la sabbia del wadi Paran, rosseggiante come i canyon di granito dei monti di Eilat, o biancastra come le rocce multiformi che, nella valle di Timna, nascondono la miniera di rame più antica del mondo. Il potenziale economico del deserto è ben utilizzato: la spiritualità e la connotazione biblica, in un Paese in cui perfino i nomi sui cartelli stradali rievocano l’Antico Testamento, riesce a convivere con la nuova vocazione turistica. Il deserto è ancora poco battuto dal viaggiatore tradizionale che si rechi in Israele: basti pensare che non sono più di cinquecento l’anno le persone che chiedono di farvi tappa.
Percorrendo il deserto di Paran, i 'pellegrini' nei luoghi della Bibbia possono fermarsi negli accampamenti beduini. Lo stile di vita dei nomadi del deserto non è cambiato molto in migliaia di anni.
Lo Stato prova a costruire loro dei villaggi. Si vedono passando lungo la Rte 40: le case sono utilizzate come stalle e i beduini preferiscono dormire lì vicino, in tende o in casette di lamiera. Be’erot, nel deserto di Mitzpe Ramon, è una sorta di campeggio gestito proprio dai beduini. Nel silenzio della sera, ci si siede ai loro tavoli bassi e si mangia l’hummus di ceci e il pane sottile cotto su piastre di ferro rovente.
Anche qui è possibile vedere come sia favorita la fruizione del deserto a livello locale: nonostante sia isolato, Be’erot ospita carovane di studenti in sacco a pelo.
L’
alternativa sono i kibbutz. Le comuni agricole, dopo aver perso il loro ruolo di traino dell’economia locale, da una decina d’anni a questa parte si reinventano in chiave turistica: diventano piccoli resort, bed&breakfast o centri benessere, arricchiti dalla possibilità di beneficiare dei fanghi del Mar Morto.
Solo una fattoria su quattro conserva ancora la vecchia veste marxista. La conversione economica dei kibbutz ha fatto lievitare il costo dei terreni ma soprattutto ha riportato nel deserto i giovani, che ormai tendevano a trasferirsi nelle più tecnologiche città, come Tel Aviv.
Naturalmente ogni kibbutz rinnovato ha un sito internet. E naturalmente (all’inizio sembra strano, ma non lo è se si pensa alle esigue dimensioni d’Israele) non c’è wadi più remoto in cui il cellulare non funzioni. Sì che la radice di deserto in ebraico contiene «parola», ma di certo il motivo era un altro.
© Copyright Avvenire 9 maggio 2010