Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
mercoledì 12 maggio 2010
Sabato 24 aprile, alle ore 13.30, i medici dell’ospedale “Nicola Giannettasio” di Rossano Calabro praticano l’interruzione volontaria di una gravidanza di ventidue settimane, richiesta da una donna perché, a seguito di diagnosi prenatale, era venuta a conoscenza che il feto sarebbe stato affetto da “labbro leporino”, un problema, peraltro, a cui oggi si rimedia con estrema facilità.
Il prodotto del concepimento – destinato in quanto rifiuto speciale alla discarica ospedaliera – viene in realtà “dimenticato” su un carrellino, in un angolo appartato del reparto maternità, coperto da un piccolo lenzuolo sanitario. Quello che non sarebbe probabilmente mai successo ad un piede, ad un braccio, ad una gamba o ad un altro arto amputato è invece accaduto ad un essere umano. Il dato più sconvolgente, però, è che quell’essere umano era vivo.
Nell’ospedale “Nicola Giannettasio” c’è un prete – uno di quei cappellani che l’Unione Atei e Agnostici Razionalisti si batte da anni per allontanare dalle strutture pubbliche – che si chiama Don Antonio Martello e che è noto, tra l’altro, per la sua consuetudine di pregare per i bambini abortiti e per i nati morti.
Domenica 25 aprile, alle ore 11, don Antonio, avendo saputo dell’aborto avvenuto il giorno prima, si reca a pregare davanti al corpicino abortito quando, con immaginabile stupore, percepisce uno strano movimento. Solleva il lenzuolo sanitario e gli appare la visione del neonato che sgambetta dando segni evidenti di vita. Dopo aver avvisato i sanitari, il bimbo viene trasportato d’urgenza all’Ospedale dell’Annunziata di Cosenza dove esiste un reparto di terapia intensiva neonatale. Lì il piccolo lotta ancora un altro giorno, aggrappato al desiderio disperato di vivere, fino a quando il suo cuoricino stremato cesserà per sempre di battere.
Questa angosciante ed incredibile vicenda ci insegna tre cose. La superficialità con cui si ricorre alla diagnosi prenatale. La superficialità con cui si afferma che a 22 settimane un bimbo non possa sopravvivere. La superficialità con cui si ricorre al criterio della “salute psichica” della donna per giustificare pratiche eugenetiche. E proprio qui sta l’odiosa ipocrisia della Legge 194, la quale, di fatto, prevede che il medico non debba accertare se le malattie del feto siano o meno curabili, ma limitarsi all’analisi degli aspetti psicologici della donna e valutare se la consapevolezza di portare in grembo un figlio malato o anche di doverlo, poi, allevare, possa incidere sulla sua salute mentale. Questa è la vera tragedia dell’aborto in Italia.
Voglio dare atto della mia profonda stima e amicizia nei confronti di Alessandro Meluzzi che ancora una volta ha dimostrato di essere, oltre che un grande psichiatra, un uomo coraggioso. Mi riferisco, in particolare, alla sua confessione pubblica – resa al Giornale lo scorso 27 aprile – che rappresenta un durissimo quanto efficace atto d’accusa all’impostazione eugenetica della Legge 194. In quella toccante testimonianza Meluzzi spiega come proprio la vicenda di Rossano abbia evocato in lui il ricordo forse più tragico della sua vita professionale, e che più di ogni altro ha rappresentato una svolta nella sua vita di fede. Venticinque anni fa quando, borsista alla clinica psichiatrica dell’università di Torino e prima di «aver rincontrato l’umano in Gesù di Nazaret detto il Cristo, Dio fatto uomo» (sono parole sue), aveva il compito di effettuare accertamenti diagnostici psichiatrici per gli aborti terapeutici alla clinica ostetrica dell’università. All’epoca, da laico dichiarato, e convinto sostenitore della legge 194 (un po’ comunista e un po’ radicale), non aveva nessuna esitazione a valutare il danno psichico per le donne in gravidanza, nella piena consapevolezza che quello fosse il terribile quanto facile escamotage per effettuare aborti fino al sesto mese. Alessandro davvero non si autoassolve: «Firmavo documenti che autorizzavano aborti a ogni mese. I ginecologi chiamavano, io firmavo, dopo aver valutato situazioni anche tragiche. E i feti morivano. Per un periodo sono stato un vero e proprio assassino, un boia che mandava a morte le più innocenti delle creature». Ma un giorno accade un fatto. Una sua amica pediatra con cui allora divideva l’abitazione, torna dal nido dicendogli, un po’ sconvolta, di aver avuto in cura un suo paziente. Meluzzi non capisce subito. Si trattava di un feto che, nonostante l’aborto, era rimasto vivo, in pessime condizioni, ma vivo. Questo episodio lo sconvolse e gli fece aprire gli occhi di fronte alla drammatica superficialità con cui veniva usato il pretesto della “salute psichica” della donna per giustificare l’uccisione di un innocente, la commissione di «omicidi veri e propri», di cui egli si è pubblicamente dichiarato «corresponsabile in massimo grado». «Neppure un milione di ore d’impegno con gli amici del Movimento per la vita», ha confessato, «potrebbero bastare a sanare una simile ferita, e per questo non resta che affidarmi all’infinita misericordia di Dio».
Ben venga l’ispezione ordinata dal Ministero della Salute all’ospedale di Rossano; ben venga l’indagine per omicidio volontario disposta dalla competente Procura della Repubblica; ben venga pure la commissione parlamentare d’inchiesta per verificare come viene applicata in Italia la Legge 194. Ma se manca lo sguardo misericordioso sull’uomo, lo stesso sguardo che don Antonio ha rivolto a quel bimbo che lottava per la vita, tutto il resto rischia di apparire secondario se non inutile.
Proprio a proposito di don Antonio Martello, mi hanno colpito le splendide parole di Assuntina Moresi: «Non è stato un clinico particolarmente abile a riconoscere i segni di vita del piccolo, ma un uomo che ne ha guardato un altro e che lo ha riconosciuto, così diverso e al tempo stesso così uguale. Non servono specialisti per “vedere” il prossimo, né leggi severe, o pareri pensosi: è sufficiente l’umana pietà, che forse è morta ieri notte, insieme a quel neonato».
Solo attraverso lo sguardo compassionevole e misericordioso di Cristo noi riusciamo a riconoscere il nostro prossimo e a scorgere l’umano attorno a noi. Anche questo ci ha insegnato il tragico episodio di Rossano Calabro.