DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Storia di Mao, la madre cinese torturata che sfida l’aborto forzato. Rinchiusa in Manicomio per una maternità dissidente. Di Giuio Meotti

Roma. Pechino non la voleva tra i piedi
mentre inaugurava l’Expo. Così ha fatto
sparire la signora Mao Hengfeng. Col
motivo di non disturbare “l’ordine pubblico”,
la polizia aveva ripulito la capitale
per evitare manifestazioni, messaggi e
petizioni. Hengfeng, la più celebre attivista
anti-aborto, a marzo è stata trasportata
di peso da Pechino a Shanghai e da lì
in un “laogai”, la versione cinese dei gulag
sovietici. Vive sorvegliata a vista nei
giorni dell’Expo. Il regime teme sue manifestazioni
pubbliche contro l’aborto forzato.
I laogai sono una rete di mille campi
di concentramento dove le categorie
considerate “deviazioniste” da Pechino
(giornalisti, sindacalisti, attivisti democratici,
cattolici, protestanti, tibetani e
studenti del 1989), sono condannati al lavoro
forzato. Il motto dei laogai è “laodong
gaizao”, che significa “il lavoro trasforma”.
Secondo la Laogai Research
Foundation, sarebbero tra i quattro e i
sei milioni i cinesi rinchiusi nei campi di
“rieducazione”.
Mao Hengfeng da oltre vent’anni combatte
contro la legge sul figlio unico e per
questo è stata spesso internata in ospedali
psichiatrici. Picchiata e rinchiusa in
una cella con mani e piedi legati. La regola
del figlio unico è in vigore in Cina
dal 1979. E’ la causa delle “missing girls”,
le bambine mancanti in Cina. Si tratta,
nelle parole del dissidente cinese Harry
Wu, del “più ambizioso programma di
controllo demografico della storia e la
causa dei più crudeli abusi sui diritti fondamentali
dell’uomo”. Nulla doveva distogliere
l’attenzione dai cinquantotto
miliardi di dollari spesi per preparare
l’Expo con i suoi settanta milioni di visitatori
previsti. Hengfeng era di troppo.
Anche le sue due figlie, sopravvissute alla
politica del figlio unico, in passato sono
state arrestate con l’obiettivo di arrivare
a conoscere i nomi di coloro che
avrebbero aiutato e sostenuto la donna
nella sua lunga campagna contro il governo
di Pechino. “Le autorità temono
che la comunità dissidente possa testimoniare
le numerose violazioni di diritti
umani ai leader mondiali e ai giornalisti
presenti per l’Expo”, denuncia Sharon
Hom, direttore della ong Human Rights
in China.
Hengfeng è stata torturata (sospesa e
legata alle caviglie, semi soffocata attraverso
il cibo, costretta a restare nuda a
causa del rifiuto della divisa) e le sono
state iniettate diverse droghe. Per questo
la sua terza bambina è nata con numerosi
problemi di salute. La famiglia Hengfeng
vive in un regime poliziesco. Mao è
nata in un villaggio sperduto e la sorte
aveva previsto per lei un destino di operaia
in una fabbrica di saponette. La sua
vicenda incredibile inizia nel 1988, quando
i proprietari dell’azienda per cui Mao
lavorava cercarono di convincerla ad
abortire per impedirle di avere il secondo
figlio. Pena il licenziamento immediato.
Ma, nonostante le minacce, la donna si
rifiutò, ritrovandosi senza lavoro. Da allora
non ha mai smesso di lottare pubblicamente
contro le leggi draconiane cinesi.
In termini di crescita della popolazione
la politica cinese ha avuto “successo”.
Ha evitato 400 milioni di nascite e l’indice
totale di fertilità è in diminuzione dagli
anni Settanta in poi. Ma i costi umani
sono spaventosi, come dimostra la storia
della signora Mao e degli altri nove milioni
di donne che il Partito comunista ha
costretto ad abortire. Donne che più che
in ogni altra parte del mondo si suicidano
in massa. Secondo l’Organizzazione
mondiale della sanità, la Cina ha la maggior
percentuale al mondo di suicidi femminili
ed è l’unica nazione dove la maggioranza
dei suicidi sono compiuti da
donne e non da uomini, come in tutti gli
altri paesi. In Cina la Commissione statale
per la popolazione nazionale e la pianificazione
familiare impiega 520 mila dipendenti
a tempo pieno e 82 milioni a
tempo parziale soltanto per controllare le
nascite. Sicché milioni di bambini cinesi
non esistono ufficialmente, perché se fossero
stati denunciati sarebbero stati abortiti
o lasciati morire avvolti in un lenzuolo
d’ospedale.

Giulio Meotti

© Copyright Il Foglio 13 aprile 2010