Si conclude domenica 9 a Roma il convegno promosso, nell'ambito dell'Anno sacerdotale, dal movimento Serra International dal titolo "Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdUna cura reciproca tra sacerdoti e laiciote, fedeltà del laico: opinioni e testimonianze a confronto". Nella mattina di sabato 8 è intervenuto l'arcivescovo segretario della Congregazione per il Clero con una relazione di cui pubblichiamo ampi stralci.
Agli occhi del mondo essere cristiani è ritenuto appena come l'appartenenza a una certa associazione religiosa, piuttosto estesa, caratterizzata innanzitutto da un rigoroso sistema morale, che mortificherebbe le più originarie aspirazioni dell'uomo e, a causa dei numerosi obblighi e rinunce che comporta, lo escluderebbe dalla pienezza della vita, tanto nella dimensione privata e personale quanto, ancor più, in quella sociale e pubblica. Ma se questa fosse la reale consistenza della nostra identità, ovviamente, non varrebbe la pena essere qui oggi, né tanto meno vantarsi di questo nome, come invece facciamo.
Ben altra è la nostra identità. Essere cristiano, infatti, prima che un determinato atteggiamento morale, significa essere di Cristo e in Cristo: significa cioè essere, in virtù del dono sacramentale, in relazione autentica e permanente con la Persona del Signore Gesù. La nostra identità, e la fedeltà che ne deriva, non si definisce, né si modella o perfeziona nella relazione con Lui, ma consiste nell'essenza di tale relazione: il battezzato, colui che è immerso nel mistero di Cristo, consiste di Cristo fino al vertice dell'espressione paolina: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Lettera ai Galati, 2, 20).
Da questa identità, che è definitivamente donata, per mezzo del battesimo, sgorga, come acqua dalla sorgente, il nostro libero agire alla sequela del Signore, il nuovo e perfetto culto ch'Egli ha istituito, e ciò, almeno nel suo aspetto essenziale, cioè di dono, indipendentemente dal nostro prenderne coscienza, accoglierlo e interiorizzarlo. Sono due, quindi, gli elementi che entrano in gioco nel sacerdozio comune, in questo nuovo modo di relazionarsi con sé che Dio ha istituito nel mistero della redenzione: l'identità sacramentale donata nel battesimo, che è opera di Dio che ci precede, e la libertà creaturale di immedesimarsi con questa nuova identità.
Quindi l'essere cristiani riguarda non solo determinate azioni, quali quelle cultuali, e nemmeno soltanto le scelte di particolare importanza per la nostra vita, ma il nostro stesso vivere, ogni circostanza nella quale ci troviamo a vivere: la gratitudine per essere destati al mattino a vivere un nuovo giorno fino al saper fare un giusto esame di coscienza al termine della giornata, chiedendo perdono per gli eventuali peccati ed errori e ringraziando per i tanti doni ricevuti.
Il recupero e l'approfondimento della "spiritualità del quotidiano" fa emergere come totalmente superata, oltre che profondamente illegittima, qualunque concezione che, come avvenuto nei decenni passati, tenda a contrapporre, all'interno dell'unico corpo che è la Chiesa, il laicato e la gerarchia. Non a caso, nel nuovo codice di diritto canonico, entrambi sono contenuti nell'unico libro sul popolo di Dio. Sono tutti, laici e chierici insieme, unico popolo di Dio; anche i chierici sono, a Dio piacendo, Christifideles, cioè fedeli di Gesù Cristo, fedeli credenti in Gesù Cristo, e dunque appartenenti all'unico popolo dei salvati.
In quest'ottica è superata ogni contrapposizione artificiale, nell'unica Chiesa, tra clero e laicato e il punto di partenza teologicamente più significativo è sempre l'unità di questo popolo, chiamato a testimoniare il Risorto nel mondo, ad animare le realtà terrene e a essere una autentica "comunione guidata", nella quale i due termini "comunione" e "guidata" sono coessenziali e domandano un continuo riconoscimento reciproco.
Se non ci fosse la realtà comunionale, che è data gratuitamente da Cristo, in forza del comune battesimo, non sarebbe concepibile la docile sequela della gerarchia, nella quale riconoscere Cristo stesso, Buon Pastore, che ama, protegge, sostiene, difende e guida la sua Chiesa. Allo stesso modo, se non ci fosse una "guida", verrebbe meno l'idea stessa, oltre che la realtà, della comunione, la quale, per sua natura, domanda di essere ordinata, visibile, e perciò riconoscibile, soprattutto, in quell'universale "punto di comunione" che è il Romano Pontefice.
L'unico sommo sacerdote, nel cristianesimo, è lo stesso Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, il quale offre al Padre l'unico culto realmente espiatorio e redentivo, e rende partecipi - questo sì - del proprio ministero, cioè servizio, i sacerdoti di ogni tempo, che Egli stesso chiama al ministero.
Potremmo dire che nel sacerdozio neotestamentario l'elemento prevalente è la non auto-attribuibilità di tale ministero, ma la coscienza, permanente, che sempre ha attraversato la vita della Chiesa, che a un tale compito, che implica la configurazione ontologico-sacramentale allo stesso Cristo sacerdote, si è chiamati, indipendentemente dalle proprie qualità, dai propri meriti, e, talvolta, soprattutto all'inizio del discernimento vocazionale, anche indipendentemente dalla propria volontà.
Questo elemento, troppo spesso dimenticato, determina una grande libertà, sia da parte del sacerdote, sia da parte del fedele laico, nel riconoscimento del valore istituzionale del sacerdozio ministeriale. Tale sguardo oggettivo, fondato sulla fede soprannaturale, permette di superare sia le presunzioni clericali sia le pretese laicali, sia gli inutili pauperismi e vittimismi clericali sia i protagonismi laicali.
Uno dei fenomeni, peraltro noto, degli anni successivi alla chiusura del concilio ecumenico Vaticano ii è stato la secolarizzazione diffusa persino nella Chiesa e che ha toccato anche non pochi sacerdoti. A tale secolarizzazione del clero, paradossalmente, ha fatto eco un'inspiegabile clericalizzazione del laicato, che ha pensato di poter ridurre la propria vocazione a quei compiti di collaborazione o di supplenza, propria o impropria, degli uffici più essenzialmente ecclesiastici, invece che veleggiare, con il vento dello Spirito in poppa, negli ampi mari del mondo, testimoniando Cristo in ogni realtà.
Entrambi i fenomeni sono di preoccupante gravità. La secolarizzazione del clero dimostra una perdita, almeno di coscienza, della grandezza e della profondità della propria identità, del fatto di essere alter Christus, di agire in Persona Christi Capitis, di essere e rappresentare Cristo stesso che continua, attraverso i suoi sacerdoti, l'opera della salvezza. La clericalizzazione del laicato, d'altro canto, rappresenta un reale impoverimento dell'ampio respiro missionario a cui sacramentalmente il battesimo abilita e, paradossalmente, ma realmente, è frutto di un'errata interpretazione di quanto il Vaticano ii intendeva indicare con la giusta promozione del laicato e l'ormai nota actuosa participatio.
Poste tali premesse, il primo atteggiamento richiesto a tutti i Christifideles, nei riguardi del corretto rapporto e della conseguente giusta collaborazione tra laici e chierici, è quello della fede. Una fede che riconosca, umilmente e realmente, la comune vocazione alla santità e la dignità creaturale e cristiana, che l'opera della salvezza ha prodotto; una fede che riconosca la libertà e la conseguente indisponibilità del divino volere, il quale costituisce sacerdoti e pastori indipendentemente dalla volontà e dalla approvazione del popolo.
Insieme a una tale fede nel sacerdozio ministeriale, un'altra forma di collaborazione dei laici al ministero dei sacerdoti è quella che potremmo definire la "custodia nella comunione". Sono persuaso infatti che non sia soltanto il pastore a custodire il gregge, ma sia anche, seppur non in modo istituzionale, il gregge a custodire il pastore, soprattutto attraverso la propria santità e docilità e domandando al pastore ciò che il pastore può e deve garantire al gregge. In una comunità parrocchiale, per esempio, non è solo il parroco a custodire, presiedere e guidare la comunità, ma è la comunità stessa, con le sue famiglie e i suoi giovani, i suoi anziani e i suoi malati, con la tradizione di fede e di pietà che la anima, con la storia di sacerdoti santi che la attraversa, a custodire la vita, l'ordine, la disciplina, la regola di preghiera e dunque il ministero stesso del sacerdote. Analogo esempio si potrebbe fare per un'associazione nei confronti del proprio assistente ecclesiastico o per una comunità diocesana nei confronti del proprio vescovo: se questi ne è il primo padre e custode, non di meno tutta la comunità diocesana, a partire dai presbiteri fino a tutti i fedeli laici, sono chiamati a "custodire nella comunione" il proprio pastore e tale custodia è il primo reale modo di autentica collaborazione.
Fedeltà dei fedeli laici deriva anche dalla fedeltà dei sacri ministri e genera una sana cooperazione nella santità che, più efficacemente che attraverso un "fare", trova la sua più compiuta attuazione in quell'indispensabile e quotidiana orazione, che sempre deve accompagnare la vita dei sacerdoti. Se nelle circostanze attuali, dobbiamo con rammarico riconoscerlo, il senso del sacro è venuto progressivamente meno, e, con esso, l'attenzione alla preghiera e la fedeltà a essa, come cristiani non possiamo conformarci alla mentalità di questo secolo, ma dobbiamo riscoprire che la prima e più fondamentale energia di collaborazione, efficace più di ogni altro umano mezzo, è proprio la reciproca custodia nella preghiera. Difficilmente una comunità abituata a pregare costantemente per il proprio sacerdote, lo vedrà smarrirsi, poiché lo stesso esercizio orante fungerà da profondo richiamo per il ministro. Crediamo noi realmente nella forza di questa preghiera? Crediamo davvero che con la nostra preghiera, l'offerta della nostra vita, i nostri sacrifici, le nostre penitenze volontariamente scelte o accettate, possiamo fattivamente ed efficacemente collaborare al ministero dei sacerdoti? All'apostolato dei vescovi? Allo stesso supremo ministero del Successore di Pietro, il Vescovo di Roma? Senza questo primato della preghiera, vissuto nella reciproca comunione e in un ampio respiro di fede autentica, non si danno ambiti di fedeltà né di collaborazione che possano avere una qualche efficacia.