Tratto da Avvenire del 6 febbraio 2011
In questa Italia dove ogni giorno si tumultua e ci si affanna e si grida, e reciprocamente ci si rinfaccia ciò che si è fatto e ciò che si è sbagliato, può sembrare strano parlare di ciò che “non” è stato.
Ciò che non è stato mai, perché non è nato. Scorrendo le statistiche ministeriali, vedi che dal 1978 a oggi ci sono stati in Italia cinque milioni di aborti. Perfettamente legali, certo. Ma anche chi sostiene il diritto all’aborto potrebbe fermarsi un momento, in questa domenica di quasi acerba primavera, di fronte a un pensiero: cinque milioni di figli che mancano, cinque milioni, che non sono nati.
Legale l’aborto, ma quasi clandestino il pensiero di quei bambini negati. Non se ne parla, ed è giudicato sconveniente ricordarlo, dalle tribune mediatiche che contano. Come fossero cinque milioni di storie private, che nessun altro riguardano se non quelle singole donne; e al massimo le loro malinconie, tanti anni dopo; malinconie di cui però non si usa parlare. E invece per una volta, oggi che i cattolici italiani celebrano la Giornata per la vita, tra tanti pubblici rumori e clamori, vorremmo immaginare un lungo condiviso attimo di silenzio; e che si possa per un momento restare zitti, nel rimpianto di quei figli che avremmo, e non abbiamo.
Chi erano, e che facce avrebbero avuto? Erano i compagni che i nostri bambini non hanno conosciuto; quelli con cui non hanno giocato a pallone; quelli che mancavano, nei banchi vuoti delle aule di paesi spopolati. Erano quello di cui nostra figlia si sarebbe innamorata; o la ragazza che un giorno ci avrebbe resi nonni. Erano, sarebbero stati. Il principio scoccato, il tessuto in fieri, e ogni cellula programmata. Ma non previsti, o attesi, o desiderati. Tantissime ragioni, e spesso umanamente comprensibili. Eppure quante di quelle madri hanno ancora addosso quel giorno, tagliente come uno strappo alla propria intima natura. Non sono stati; sospinti indietro, clandestini, invisibili ombre cancellate. Si può almeno averne memoria, e dare voce a un rimpianto che molte conservano gelosamente per sé? Quante, vedendo una folla di ragazzi all’uscita da scuola una mattina, sono attraversate da un sottile doloroso pensiero: avrebbe la stessa età, “lui”.
Ma poiché i figli non sono solo figli nostri, quel rimpianto dovrebbe essere collettivo. Quei bambini ci mancano. I primi di loro avrebbero trent’anni ormai. Li immaginate? Oggi magari sarebbero in piazza a gridare contro il governo, oppure a favore; oppure a immaginare un’altra Italia. Sarebbero energie e desideri, e voci nei nostri cortili vuoti; sarebbero nelle scuole a studiare, nelle università a far ricerca, a insegnare. Chi c’era poi, in mezzo agli altri, in quella folla di clandestini respinta? Forse il centravanti che avrebbe fatto impazzire gli stadi; o la splendida voce che ci avrebbe incantati. E quali libri non leggeremo mai, non scritti dai nostri figli non avuti? Fra di loro, non pochi il cui destino è stato decretato dalle analisi: anormali, malati. Inutili. Come Hawkings magari, il fisico in carrozzella? Che cosa è stato buttato via per una diagnosi, e quali doni portavano con sé i figli scartati? Certo, come testimonia chi invece quei figli li ha avuti, la capacità di insegnare ad amare. Milioni di storie diverse. Madri sole, o senza un soldo, o padri inesistenti; o benpensanti famiglie, che non avrebbero tollerato; oppure posti di lavoro a rischio, o carriere che non potevano aspettare. Cinque milioni di storie private si coagulano in questo vuoto collettivo – e anche forse in uno slancio, in un coraggio che ci mancano. Perché ha più fiato, un Paese che pensa ai suoi figli; non si insterilisce nell’oggi, non trascura un futuro, che è il tempo di quei figli. Il silenzio che vorremmo oggi è ammissione, oltre il ben noto e affermato “diritto”, di un censurato dolore: per ciò che non è stato. Un silenzio che dica a chi ha vent’anni oggi che un figlio, voluto o no, è più umano abbracciarlo; e non è questione di codici, ma di una legge più forte, più grande – come scritta addosso.