Il caso
Lo Smithsonian Institution, collega 19 musei e 9 centri di ricerca statunitensi. Un’istituzione storica e direttamente collegata al governo statunitense. Tra i musei c’è la National Portrait Gallery in Wahington D.C. che ha allestito questa mostra:Hide/Seek Difference and desire in american portraiture. Il focus dell’evento è on sexual difference in the making of modern American portraiture… how artists explored the fluidity of sexuality and gender; how major themes in modern art—especially abstraction—were influenced by social marginalization; and how art reflected society’s evolving and changing attitudes toward sexuality, desire, and romantic attachment.
Tra le opere c’è anche un video del 1987 ”A fire in my belly” diDavid Wojnarowicz.
Il video non è gran che. Anzi, perfino imbarazzante per l’uso di un apparato retorico accatastato in modo affannoso nel tentativo di risultare urtante. Si tratta della solita immagine del corpo dissolto e ridotto a organico, al compiacimento regressivo di una fisiologia involuta.
La cronaca riporta che molti avendo visto l’opera si sono indignati; sono giunte proteste dalla catholic League; inoltre, proteste altolacate hanno minacciato di far ritirare i finanziamenti governativi. La direzione dello Smithsonian ha deciso di far ritirare l’opera. Ed ecco che scatta la controindignazione: più gallerie d’arte iniziano a proiettare il video nei propri spazi; il New Museum di New York annuncia orgoglioso su twitter che “Fire in my belly is playing on loop today in our lobby”. Su facebook c’è chi entusiasta esclama: kick the Smithsonian’s ass!
Il meccanismo
Con questo episodio, vediamo quindi riprodotto il tipico meccanismo che descrive il ciclo vitale dell’arte contemporanea, quello che abbiamo appena visto con la scultura di Cattelan a Milano e che la sociologa Nathalie Heinich ha sintetizzato in tre fasi: 1) ricerca da parte dell’artista di uno scandalo, di un effetto di repulsione e rifiuto; 2) reazione negativa e polemica da parte del pubblico; 3) pacificazione e integrazione nel gusto comune tramite la mediazione di istituzioni culturali e opinion leader. Insomma, un gioco delle parti dove l’incidente non è accidentale ma l’unico significato ricercato. Il meccanismo si autoalimenta tramite la contesa che riesce a generare ed è così potente da far ingurgitare al pubblico la repulsione precedentemente provocata e messa in scena, in attesa della nuova trasgressione.
Lo scenario
Il video di David Wojnarowicz di per sé è solo un esempio malfermo di un atteggiamento molto più diffuso che concepisce l’arte come regressione a una materia inintellegibile, a un mondo dissolto, a un corpo ridotto all’organico. Alla base c’è il tentativo di accedere a una dimensione originaria, a un reale prelinguistico percepito come liberatorio. Che l’esito finale approdi alla contemplazione di puri colori opalini o al compiacimento di qualche catasta marcescente non cambia nulla: il fare artistico è fatto coincidere con il riversamento della propria tensione psichica. Il risultato è un reale esposto senza limiti simbolici: Lacan direbbe che l’arte viene barattata per la figura clinica della psicosi. L’arte è ridotta alla patografia di una successione di sintomi.
Ora, questa impostazione ha delle conseguenze precise. Poiché l’opera se ne sta lì senza dire nulla e si accontenta di urtare e basta, si ingigantisce a dismisura quanto circonda l’opera, ovvero il paratesto: titolo dell’opera, didascalie, biografia dell’artista, interviste, cataloghi, depliant, comunicati stampa, post e commenti sui social network… E’ il paratesto che dice cosa dice il testo. Avviene come una moltiplicazione delle soglie che si affacciano sull’opera. E queste soglie hanno la funzione di prestare lo spazio capace di sovrascrivere l’opera. Tramite tutto questo apparato si gioca la strategia di significazione e cruciale diventa quindi il ruolo delle istituzioni culturali di cui parla la Heinich.
Nel caso del video “A fire in my belly” si sono affrettati a presentare l’opera come una sensibilizzazione sul problema dell’aids. Il risultato, per quanto minima sia l’idea di sensibilizzazione che uno possa avere, non può che apparire nella sua pochezza disarmante. Eppure il mix di messaggi convogliati attraverso, o meglio, nei pressi di quest’opera è indicativo di un approccio diffuso e di una strategia di significazione che fa costantemente presa su alcuni precisi temi, su “issues” ricorrenti.
Il nuovo totalitarismo
Anche quando presenta trovate irrispettose, se non blasfeme, pensiamo ai vari campionari di crocifissi nell’urina, con formiche, con rane inchiodate… il manufatto in sé non può che rivelare la propria miseria. Più potente, invece, è quanto si muove attorno al manufatto, più influenti sono i messaggi, gli slogan altamente suggestivi sovrascritti e “caricati” sulle opere. I più gettonati sono ecologia, identità di genere, libertà di espressione. Temi che possono essere meritevoli della massima attenzione. Il problema sorge piuttosto quando assumono un taglio che richiama quello che René Girard definisce “Il nuovo totalitarismo”:
Il nuovo totalitarismo si presenta come liberatore dell’umanità… è quello che fa sua e “radicalizza” la preoccupazione verso le vittime, ma per paganizzarla… contesta al cristianesimo l’autenticità della preoccupazione per le vittime… Per usurpare il posto di Cristo, le Potestà lo imitano in maniera rivalitaria… Seguendo il linguaggio simbolico del Nuovo Testamento si può dire che, nello sforzo di recuperare terreno e trionfare di nuovo, Satana prende in prestito il linguaggio delle vittime. Egli imita sempre meglio Cristo e pretende di superarlo. Questa imitazione usurpatrice è presente da molto tempo nel mondo cristianizzato, ma si sta enormemente rafforzando nella nostra epoca. E’ il processo che il Nuovo Testamento designa nei termini di Anticristo (cfr (1Gv 2,18-22). …L’anticristo si vanta di recare agli uomini la pace e la tolleranza che il cristianesimo senza risultati promette loro. In realtà, quello che la radicalizzazione della “vittimologia” contemporanea porta con sé è l’effettivo ritorno a ogni sorta di abitudini pagane: l’aborto, l’eutanasia, l’indifferenziazione sessuale, i giochi da circo di ogni tipo… (René Girard, Vedo satana cadere come la folgore, Adelphi, pagg. 235-236).
L’analisi di Girard diventa quindi una chiave per leggere tutto il meccanismo conflittuale che l’arte contemporanea genera: abbiamo la ricerca dello scandalo e dell’innescarsi di una rivalità mimetica (guarda caso il più delle volte ricercata in ambito religioso); abbiamo una contesa; abbiamo la simulazione di una pacificazione operata da determinate istituzioni culturali che, operando sul paratesto e convogliando i messaggi, fanno digerire anche le pietre (dello scandalo). Ma con Girard sappiamo anche che ogni falsa pacificazione, falsa perché la contesa sarà ripristinata prontamente, nasconde, magari dietro un immaginario neopagano, una vittima.